Se il secondo lavoro della band capitanata da Greg Weeks, con la sua identificazione rispetto all'altrettanto omonimo debutto soltanto attraverso il numero romano "II", sembrava voler evidenziare una sorta di nuovo inizio artistico per gli Espers, il terzo prosegue nel senso della medesima numerazione progressiva degli album, segnando tuttavia una nuova parziale discontinuità con il suo immediato predecessore.
Senza abbandonare del tutto le torsioni psichedeliche di "II", dopo un intervallo di circa tre anni, con "III" gli Espers tornano a percorrere le strade polverose e coloratissime di un folk fuori dal tempo, i cui caratteri ancestrali sono ancora una volta oggetto prediletto di indagine da parte della band e del suo ritrovato spirito lieve e trasognato.
Si tratta, in parte, di un ritorno al recente passato artistico di una band che nel suo primo album e nella successiva raccolta di cover "The Weed Tree" si era segnalata per la purezza incontaminata con cui era stata capace di proporre il proprio credibile aggiornamento della lezione di Fairport Convention e Popol Vuh.
Dopo le derive drone-folk di "II" e l'accentuazione dei caratteri sperimentali di alcune opere che nel frattempo hanno impegnato alcuni membri della band (si pensi all'album di Helena Espvall insieme a Masaki Batoh, e in parte anche a "The Hive" di Greg Weeks), potrà dunque sembrare strano scoprire in "III" tanti brani melodici e coloratissimi, che scorrono fluidi e cullanti, tra pregevoli alternanze vocali e sonorità bucoliche avvolgenti.
Chitarre, violini e organi - ma anche controllate progressioni elettriche dal marcato sapore sixties - incastonano una serie di ballate di ariosa psichedelia che trovano il loro culmine nell'intreccio tra Weeks e Meg Baird di "The Road Of Golden Dust" e nell'interpretazione di quest'ultima in "Caroline", ove davvero riesce a elevarsi a credibile erede di una Sandy Denny o di una Linda Perhacs. Questi episodi, accanto ad altri quali "The Pearl", la corale "Meridian" e il limpido finale di "Trollslända", recano quello che può considerarsi l'autentico marchio distintivo degli Espers, ravvisabile ormai con esattezza nella capacità di tener viva, aggiornandola al tempo presente, una convincente versione di un folk acido, che proprio nella sua raffinata fluidità melodica trova adesso la via di fuga tanto da ogni riferimento a contesti temporali quanto dai rischi di un'emulazione anacronistica di riferimenti musicali tuttavia mai sottaciuti.
Non mancano passaggi più torbidi e inquietanti, confinati però quasi esclusivamente nell'angosciosa marzialità di "That Which Darkly Thrives" e nella percussività ritualistica di "Colony", così come nelle digressioni fuzzy dei crescendo finali di molti brani: si tratta tuttavia di elementi utili a bilanciare la preponderante levità del lavoro e a ricordare, a mo' di monito, che le fiabe in musica degli Espers possono narrare di cupe storie di streghe anche quando il tono per esse prescelto è in prevalenza colorato e gioiosamente bucolico.
21/10/2009