Ghost

In Stormy Nights

2007 (Drag City)
psychedelic rock, jazz-rock

Solo tre anni per la realizzazione di questo "In Stormy Nights", ottavo disco in oltre un ventennio di attività, quando per il precedente, acclamato "Hypnotic Underworld" ne erano occorsi cinque. Questione di maggior tranquillità, forse, perché, ormai, come il leader Masaki Batoh ci tiene a precisare, i Ghost hanno definitivamente raggiunto la piena maturità, grazie anche allo stabilizzarsi della line-up. Accanto alla voce e alla chitarra acustica del leader (che è a tutti gli effetti una delle leggende viventi della scena musicale nipponica), troviamo, dunque, Kazuo Ogino (piano, oscillatore, kaval, gaida, tenor recorder), Michio Kurihara (chitarra elettrica), Junzo Tateiwa (tabla, percussioni, batteria, frame drums), Taishi Takizawa (theremin, sassofono, vibrafono, flauto) e Takuyuki Moriya (contrabbasso), per una formazione mai così affiatata e capace, anche in questa occasione, di non deludere le aspettative.

“In Stormy Nights” (registrato tra il giugno e il luglio del 2006, nello Studio Five di Aoyama, Tokyo) è un’opera che può essere suddivisa in tre blocchi definiti: innanzitutto, le ballate acid-folk , che gettano uno sguardo retrospettivo su una delle radici basilari della loro musica (si veda, a tal proposito, “Second Time Around” del 1990); in secondo luogo, veri e propri assalti percussivi guidati dai timpani e dallo “springer” (un congegno ideato da Batoh capace di produrre un suono simile ad un theremin, ma molto più potente); e, per concludere, l’improvvisazione free-form di chiara ascendenza jazz, quasi a chiudere il cerchio di una carriera iniziata nel 1984 (coi monicker interscambiabili di Gareki No Toshi/Ruined City o di Eikyu Konran/Eternal Chaos) proprio con l’intento di suonare musica liberamente improvvisata e arricchita da un uso primitivo di registratori a bobine.

Se, dunque, “Hypnotic Underworld” si poneva come una summa della loro arte, questo nuovo lavoro tenta strade mediamente inedite proprio facendo leva sulle caratteristiche essenziali del suono-Ghost. E, se in precedenza erano più che evidenti i richiami a certo progressive e alla psichedelia, qui sembra venire a galla, innanzitutto, una volontà ritualistica, un bisogno di selvaggia liberazione, pur se non sempre lavorata a livello di superficie. Ed è per questo, quindi, che i 28 minuti ed oltre di “Hemicyclic Anthelion”, con la sua strabordante tessitura free-form, con la sua mutevole umoralità, si pone come centro propulsore dell’opera (oltre che come uno dei loro massimi capolavori), in grazia proprio di un sentire anarchico, mai fine a se stesso.

Riprendendo il discorso di “God Took A Picture Of His Illness On This Ground”, “Hemicyclic Anthelion” ne amplia lo spettro sonoro in virtù di un peso maggiore (qualitativo, non quantitativo) accordato all’elettronica. Da una cupa scansione metallica, il brano evolve in un disordinato, discordante gorgo di amebe sintetiche, sibili e confusioni avant-jazz. L’uso “gestuale” e “lisergico” dell’elettronica, unito ad un continuo rimescolarsi di alti e bassi, di sospensioni e grovigli elettrici, conferisce al brano uno status multiforme, inafferrabile.
Il tutto mentre si materializzano i fantasmi di un Art Ensemble Of Chicago diluito, stilizzato in chiave etnica. Ma se si analizza per bene il modo in cui l'elemento sintetico s'innesta nel tessuto apparentemente aleatorio della composizione, questo approccio all’ensemble guidato da Roscoe Mitchell si realizza secondo una logica (?) incredibilmente familiare con quella adottata da una formazione al confine tra free-rock, progressive e avanguardia come i Rake.

Quando, infatti, la seconda parte si perde in un improvviso buco nero in cui le radiazioni lisergiche si confondono con fiati in libera, ululante uscita, la prossimità tra questi Ghost e il trio della Virginia è miracolosamente manifesto, soprattutto se si ha familiarità con brani come “Remote Sensing”, “Helio Moog” o “Klang Co”. E’, insomma, un piccolo universo che cerca invano un barlume di raziocinio, finendo sempre per disperdere tutte le sue tensioni “strutturali” in un magma amorfo di superbe imperfezioni emozionali. E l’equilibrio raggiunto dalle parti è tale che, anche nel suo vasto, illimitato dilatarsi, il suono risulti essere sempre supportato da un substrato di coerenza e mai accecato dal lume dell’autocompiacimento.

Il sinfonismo marziale e corale di “Water Door Yellow Gate”, l'allerta zeuhl di “Gareki No Toshi” (quasi un mekanik destruktiw kommandoh in un caos di synth filiformi e voci filtrate, con coda allo sbando lisergico) e lo splendido, magniloquente rifacimento della “Caledonia” dei leggendari Cromagnon, costituiscono un trittico di ossessiva, epica maestosità ritualistica, con quell’ultima, debordante fanfara che sembra davvero una poderosa chiamata alle armi. La perfezione formale di questi brani è indiscutibile e, come se non bastasse, viene rinvigorita dalla cornice in cui le due ballate acide di “Motherly Bluster” (dominata dalla voce e dalla chitarra acustica di Batoh, con controcanto di flauto e appendice di aerea nostalgia) e di “Grisaille” (ferita da una malinconia senza scampo) racchiudono l’opera.

Per questo, ma non solo, “In Stormy Nights” si pone fin da adesso come uno di quei dischi su cui, in questo 2007, si dovrà continuamente tornare.

01/01/2007

Tracklist

  1. Motherly Bluster
  2. Hemicyclic Anthelion
  3. Water Door Yellow Gate
  4. Gareki No Toshi
  5. Caledonia
  6. Grisaille

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