I Ghost sono un collettivo nipponico attivo ormai da quasi vent'anni, capitanato dal chitarrista e cantante Masaki Batoh. Dopo aver confezionato buone prove lungo tutto l'arco della carriera, ritornano sotto le luci della ribalta, interrompendo un lungo silenzio, con "Hypnotic Underworld", lavoro maturo e completo, tra le migliori uscite del 2004. Rispetto al precedente, il politico "Turn in, Turn on, Free Tibet", due i cambi nel sestetto: entrano in squadra Takuyuki Moriya al violino e al basso e Junzo Tateiwa alle percussioni.
Il disco è una summa dell'arte del gruppo. Nei settanta minuti di musica le aspirazioni folk degli ultimi lavori e le tendenze più avanguardiste dei primi trovano piena fusione: in più, ampi sono i rimandi al progressive e alla psichedelia. Ma, al loro solito, le vere armi vincenti sono lo spiritualismo epico e la grazia incantata che bagnano le canzoni e che a loro volta esse infondono: grazie a ciò, i Ghost riescono a non stonare neanche nei passaggi più leziosi o dal sapore più revivalista. Che ci si trovi dinanzi a un disco tanto slegato dal presente, quanto di eccelsa fattura lo dimostra la suite (ventitré minuti in quattro momenti) che lo apre. Si parte dal soffuso tappeto di "God Took a Picture of His Illness on This Ground" (13:31), dove un richiamo lamentoso di sax e cupe linee di basso sono ricoperti da stridenti squame metalliche e elettroniche: è una musica ascetica, dall'effetto ipnotico.
Nella seconda parte, "Escaped and Lost Down in Medina" (7'09"), chitarra e percussioni sostengono un ritmo cadenzato su cui si innestano piogge di tastiere, un lungo barrito di sassofono, secchi colpi di batteria e lampi di chitarra space. A sciogliere tutta la tensione accumulata, introdotto (e accompagnato) da una pulsazione di tastiere, da un coro medievale e da violenti scossoni di chitarra, arriva il catartico rock di "Aramaic Barbarous Dawn" (2'54"), che convoglia nella sarabanda rullante di "Leave the World" (0'22").
E il suddetto elevato valore continua a dimostrarlo il prosieguo: non si perde un colpo nel lasciarsi cullare dal sapore di tradizione nipponica nei fiati e nelle percussioni del recitato "Kiseichukan Nite" o da quello celtico nel medioevo di "Piper", aperta e retta da un languido flauto, ma stravolta da poderose scosse rock, e della tamburellante "Holy High". Ancora non lo si perde abbandonandosi nella bucolica "Hazy Paradise", contrappuntata dal mellotron e con il guitar-hero Kurihara in grande spolvero, né nella lunga strumentale vagamente jazzata "Ganagmanag", dal sorprendente epilogo tribale, né nella ballata epica "Feed" tra David Bowie e secondi Pink Floyd.
L'ideale chiusura è affidata a una dolce e personalissima versione della barrettiana "Dominoes", nobilitata dall'ingresso dell'organo a metà pezzo circa. Insomma, per farla breve, praticamente tutte le tracce, nessuna esclusa, sono formalmente perfette e traboccanti purezza, e la lunghezza del lavoro contribuisce alla sua qualità.
P.S. Menzione speciale a un (estremamente) piacevole di più, costituito dalla splendida confezione.
14/12/2006