Ora non accalcatevi tutti sotto l’albero. Quest’anno i regali si scartano in anticipo. La strenna della strega. Lei: la “befana” più sexy del mondo, scende giù per il camino con un fagotto pieno di sorprese fatalisticamente intitolato “Easy Come, Easy Go”. Cofanetto con opzione doppio cd, più Dvd confezionato dal celebre Jean-Baptiste Mondino. Il tutto sotto l’egida e la supervisione del solito Hal Willner, già (mari)annoso produttore di “Strange Weather” e del live “Blazing Away”, nonché mogul dei tribute-album multimediali (fra cui si ricordano i film-concerto “September Song: The Music Of Kurt Weill” del 1995 e “Leonard Cohen: I’m Your Man” del 2006).
La sua ricetta è inconfondibile: diversi interpreti che rendono omaggio a un unico artista o un unico interprete che rende omaggio ad artisti diversi, assetto strumentale calibrato al millimetro sulla voce dell’interprete (o sull’opera dell'artista), canzoni che attingono al patrimonio della musica popolare anglo-americana (dal jazz al rock), comparsate di stelle a profusione neanche fosse la notte di San Lorenzo o uno di quei film kolossal degli anni 60 tipo il “D-Day” o “L’inferno di cristallo”.
Un galà d’alta sartoria musicale, uno spettacolo nello spettacolo, appena un po’ impomatato. Discutibile quanto si vuole (che senso ha, ad esempio, scomodare gente come Nick Cave e Cat Power per registrare una seconda voce così flebile e poco distinguibile che potrebbe averla incisa chiunque?) ma con un suo fascino e un’efficacia indubbia.
Nel caso di Marianne, però, due cose fanno la differenza. Primo: la sua voce. Così poco intonata, lamenteranno i puristi, così sgranata e sofferta, tenera e rugosa come una vecchia, inestimabile pergamena, irriducibile alla retorica dell’arena celebrativa, capace di evocare un asintoto di ricordi in un intervallo esiziale. Secondo: la scelta delle canzoni. Pochi i titoli altisonanti, ancor meno i cavalli di battaglia, il dedalo della scaletta va a comporre una sorta di raccolta epistolare che ripercorre gli amori, i tormenti e gli incidenti di “una vita al massimo”.
Una geografia sentimentale solcata in doppio senso dall’Inghilterra (le fedeli versioni di “Many Miles From Freedom” dei Traffic e “Flandyke Shores”, traditional portato al successo in patria da Nic Jones) agli Stati Uniti (“Down From Dover” di Dolly Parton, trasformata in una specie di acid rock per big band, e “Sing Me Back Home” di Merle Haggard, con la “carrambata” di Keith Richards che duetta con lei), dalla prima metà del secolo scorso (l’omaggio a due grandi figure del jazz e del blues come Sarah Vaughan e Bessie Smith, rispettivamente con “Black Coffee” e la title track) agli inizi di questo (“Salvation” dei Black Rebel Motorcycle e “The Crane Wife” dei Decemberists, altra interpretazione riuscitissima), dai musical di Weill (via Randy Newman con “In Germany Before The War”, ispirata a “M” di Fritz Lang) a quelli di Leonard Bernstein (“Somewhere(A Place For Us)” affiatata con Jarvis Cocker) passando per l’elogio funebre di due vite spezzate che avrebbero potuto essere la sua (“Kimbie” di Jackson C. Frank e “The Phoenix” di Judee Sill, due splendide e tragiche figure di culto).
Ad alimentare ulteriormente lo spessore dell’opera contribuiscono infine la versione di “Hold On, Hold On” di Neko Case, quella regale di “Children OF The Stone” degli Espers (con Rufus Wainwright, che, sarà un caso, ma in questo genere di tributi autocelebrativi non manca mai), “Ooh Baby Baby” di Smokey Robinson (accompagnata da Antony, altra presenza fissa, in una performance fluviale e incandescente).
D’altronde a Natale siamo tutti po’ più buoni. Anche i fantasmi di quelli passati.
16/12/2008