E alla fine Devendra Banhart decise di provare a mettere la testa a posto. Viso sbarbato e contratto con una major in tasca, il ventottenne texano sembra avere lasciato da parte i travestimenti più sgargianti, per indossare nel nuovo album i classici panni del cantautore vecchio stampo. Niente a che vedere con la storta genialità dei tempi di "Rejoicing In The Hands" e "Niño Rojo", sia chiaro: l'unico paragone possibile è quello con gli incerti esiti degli ultimi lavori, sempre più pericolosamente inclini ai cliché. Paragone che induce quantomeno a considerare "What Will We Be" maggiormente a fuoco rispetto al diretto predecessore: meno eclettico e più compatto, il nuovo capitolo della discografia di Banhart si rende accessibile anche ai neofiti, senza per questo snaturare la sua personalità. Peccato solo che, nel frattempo, la parte più interessante di quella personalità sembri ormai essersi persa per strada...
"My gadabout days are over", proclama Banhart con il consueto misto di ironia e sincerità. E che effettivamente la sua indole vagabonda si sia concessa una sosta lo si intuisce da una serie di segni ben precisi. Primo, la scelta di relegare le divagazioni più sgangherate ad attività collaterali, come il progetto Megapuss intrapreso l'anno scorso insieme a Greg Rogove dei Priestbird. Secondo, il ricorso alla stessa affiatata compagine di "Smokey Rolls Down Thunder Canyon", dalla chitarra di Noah Georgeson al basso di Luckey Remington, senza indulgere nel coinvolgimento di troppi ospiti illustri e affidando la produzione a un esperto di sonorità pop Sixties come Paul Butler dei Bees. Terzo, l'accasamento alla Warner, che Banhart si affretta a cercare di giustificare a modo suo, prima di incorrere nei prevedibili strali indie-snob: "Vado contro il sistema unendomi al sistema! E poi volevo essere compagno di etichetta di Paris Hilton...".
Più di tutto, però, sono le canzoni di "What Will We Be" a mostrare un sentimento pacificato: da qualche parte tra Donovan e Cat Stevens, sbocciano arpeggi cullanti e tenui melodie che conducono Banhart verso il cantautorato tradizionalista di brani come "Goin' Back" e "Meet Me At Lookout Point". Le tinte Motown di "Baby", che dà il titolo al breve Ep pubblicato come antipasto dell'album, mostrano come anche nei momenti più leggeri ci sia un equilibrio maggiore che in passato. "Spesso mi sento come se le placche tettoniche si muovessero troppo velocemente per avere senso", osserva Banhart, "ma con questo disco mi sono sentito vicino come non mai ad avere davvero il controllo delle cose". Non mancano i brani dai repentini cambiamenti di pelle, ma sembrano trascolorare quasi con naturalezza: la dolcezza un po' stucchevole di "Angelika" si trasforma nella consueta escursione tropicalista, la svagatezza jazzistica di "Chin Chin & Muck Muck" si declina in una cantilena giocosa, l'atmosfera brumosa di "Maria Lionza" lascia spazio a una coda dalle aperture solari.
Reduce dalla recente partecipazione al "Record Club" di Beck per la rilettura collettiva di "Songs Of Leonard Cohen", Banhart sposta come negli ultimi dischi le lancette della sua personale macchina del tempo su qualche data a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma è nella riflessione sulla parabola dell'amore contenuta nelle due parti di "Song For B" che Banhart ritrova la sua ispirazione, abbandonandosi alla folgorazione dell'innamoramento su un palpitare di piano ("Now I take everything as a good sign / Because I'm in love / I take everything as a sign from God"), per poi rimanere a fluttuare a mezz'aria sulle corde della propria chitarra.
Rispetto al tono complessivo dell'album, gli episodi dichiaratamente sopra le righe suonano più giustapposti che mai: è il caso delle velleità quasi Franz Ferdinand di "16th & Valencia, Roxy Music", che si propone sin dal titolo di seguire le orme di Bryan Ferry e soci tra riff plastici e ritornelli appiccicosi, oppure della psichedelia vagamente doorsiana di "Rats", con le sue improvvise svisate elettriche. Incespicando tra l'inevitabile numero in spagnolo (la romantica "Brindo") e lo scherzo reggae posto in conclusione ("Foolin'"), "What Will We Be" mostra la sua parte migliore quando segue la via più lineare. Tutto sommato, non è altro che la conferma di quello che tutti sospettavamo: per suscitare ancora interesse, è meglio per Devendra Banhart lasciare da parte gli eccessi del suo personaggio e accontentarsi di fare semplicemente il songwriter.
30/10/2009