Della normalizzazione di un freak, parte seconda. Ovvero di come Devendra Banhart, nel breve volgere di qualche anno, si sia trasformato da icona di una nuova stagione del folk americano in una sorta di stereotipo neo-hippie.
In concomitanza con il prevedibile sgonfiarsi del fenomeno pre-war folk, nel 2005 “Cripple Crow” aveva già mostrato il progressivo abbandono della propria eccentricità da parte del barbuto folksinger texano. “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” prosegue nella metamorfosi con un andamento rallentato ed oppiaceo: ma quella che nelle intenzioni dovrebbe presentarsi come un’atmosfera ipnotica, finisce più prosaicamente per risultare soltanto soporifera.
Accompagnato come di consueto da una stramba combriccola di compagni d’avventura degna di qualche film di Ozpetek, Banhart si è rifugiato per la registrazione del nuovo disco nel Topanga Canyon, tra le montagne di Santa Monica, dove all’inizio degli anni Settanta ha visto la luce “After The Gold Rush” di Neil Young. Alla carovana si sono aggregati ancora una volta Andy Cabic dei Vetiver, il fratello di Joanna Newsom Pete e Noah Georgeson, che ha assistito Banhart nella produzione del disco lasciando sapientemente un sottile velo di polvere sui contorni delle canzoni.
“Ai veri hippie non piaccio”, si schermisce Devendra, quasi a voler giustificare il suo cliché. “Loro capiscono subito quando uno è un vero hippie. Io non so neanche che cosa sia”. Fatto sta che, nel making of dell’album, lo si vede suonare con gli amici in barca cullato dalle onde e trascorrere il tempo nel suo buen retiro californiano facendo disegni, creando monili e ballando seminudo in un clima da comune della summer of love.
In “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” la vena psichedelica di Banhart emerge con ancora più evidenza che in passato, a partire da quella “Seahorse” che, dopo un prologo dal sussurro pacificato, si dilata in una pigra allucinazione in cui sembra di scorgere il sorriso baffuto di David Crosby. Tra aliti d’organo, flauti bucolici e visioni di cavallucci marini, Devendra insegue così echi mollemente doorsiani, che lo conducono ad un finale a base di scolastiche elettrificazioni.
Come un camaleontico Zelig, Banhart si destreggia in mezzo ad uno zibaldone di generi, passando senza batter ciglio dalle paillettes dello spumeggiante funky di “Lover” al tropicalismo da cartolina di “Samba Vexillographica”, in cui vagheggia un mondo senza bandiere con Chris Robinson dei Black Crowes al charango, per poi catapultarsi dal reggae in penombra di “The Other Woman” al gospel di “Saved”, con tanto di organo e coriste urlatrici da copione. Ma il suo sfoggio di eclettismo suona sin troppo calligrafico, rivelandosi tanto più prevedibile quanto più vorrebbe essere spiazzante.
Accanto a Gael García Bernal, già interprete di Che Guevara ne “I diari della motocicletta”, Devendra strimpella sognante nella delicata “Cristobal”. Accanto a Rodrigo Amarante, proveniente dalla rock band brasiliana dei Los Hermanos, avvolge di saudade il pianoforte di “Rosa”. E le ritmiche dal taglio newyorchese di “Tonada Yanomaminista” lasciano spazio persino ad una chitarrina alla Television.
La fine della relazione con Bianca Casady delle CocoRosie diffonde un alone malinconico su ballate fluttuanti come “Seaside”, “Freely” e “Remember”, forse l’episodio migliore del lotto. “I’m gonna die of loneliness”, si lamenta Banhart nella conclusiva “My Dearest Friend”, accompagnato dalla sua musa Vasthi Bunyan. In cerca di consolazione, non gli resta che affidarsi ancora una volta alla consueta filosofia a base di amore universale, accettando con fatalismo il ciclo del karma. “I leave my possessions to the wind / And I’m done with ever wanting anything / Well I can die satisfied / No desires do I hide / Not today, not today / Nor for the next one thousand lives”.
Non manca nemmeno qualche tuffo negli anni Cinquanta, come nella morbida cavalcata a fianco del fantasma di Roy Orbison di “So Long Old Bean” o nel doo-wop parodistico di “Shabop Shalom”, che offre anche un cameo a Nick Valensi degli Strokes. Quando poi Devendra si mette a ballare a ritmo di salsa tra gli ancheggiamenti latini di “Carmencita”, verrebbe quasi da pensare che voglia candidarsi ad un improbabile titolo di Manu Chao dell’indie-folk. Il confine tra ironia e farsa diventa sempre più sottile.
Nonostante la lunghezza, a “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” sembra insomma mancare sempre il guizzo decisivo. Banhart si dedica alla costruzione di brani più classici e lineari che mai, smussando gli eccessi del suo inconfondibile timbro vocale: ma il risultato non va oltre una sufficienza stiracchiata, e per uno che aveva fatto della stravaganza il suo punto di forza non c’è peggior condanna che la mediocrità.
24/09/2007