Manu Chao

Manu Chao - Ritratto di un clandestino

Con "Clandestino" - oltre quattro milioni di copie vendute - ha conquistato il pubblico di tutto il mondo, assurgendo a simbolo della battaglia no global. Ma in realtà, dietro la retorica e le facili etichette, il personaggio Manu Chao si rivela più complesso e sfaccettato. In bilico tra le tentazioni propagandistiche e una sensibilità intimista, che scava nella realtà quotidiana con animo dolente e disincantato

di Claudio Fabretti

E' stato per sette anni la voce dei Mano Negra, alfieri del rock latino, quindi con il suo debutto da solista Clandestino - oltre quattro milioni di copie vendute - ha conquistato il pubblico di tutto il mondo. Un successo a metà tra il musicale e il politico, visto che Manu Chao è diventato anche una delle icone dei giovani dei centri sociali e del "popolo di Seattle". La sua storia però ha sempre rivelato una continuità e una coerenza di fondo.

A partire dal 1987 Manu Chao, al secolo Jose Manuel Arturo Chao Ortega, con i Mano Negra, formazione cruciale della scena alternativa francese degli anni 90 condivisa con fratelli, cugini e altri musicisti del panorama parigino, diventa il capostipite, perlomeno a livello europeo, di quello che oggi chiamiamo latin alternative. Se in Sudamerica il genere vedeva i suoi fari negli argentini Los Fabulosos Cadillacs e nei messicani Maldita Vecindad y Los Hijos Del Quinto Patio, il riferimento principale europeo del latin alternative erano infatti proprio i Mano Negra, in simmetria con i rivali Negresses Vertes. La loro miscela incendiaria di rock, canzone d'autore francese, ritmi africani, flamenco, ska, salsa, reggae e blue viene ancora oggi chiamata patchanka, in onore proprio del loro primo disco ("Patchanka" del 1988). Non si tratta peraltro del loro lavoro più significativo, che sarebbe arrivato soltanto l'anno dopo con il titolo di "Puta's Fever".
Dopo altri due dischi, continui cambi di formazione e finanche di denominazione in Radio Bemba (di fatto un'esperienza prodromica al Manu Chao solista), intorno al 1997 i Mano Negra si sciolsero e il loro leader si ritirò temporaneamente a vita privata per darsi a peregrinazioni tra America Latina e Africa.

Ma per capire meglio le scelte di Manu Chao e le ideologie a cui sarebbe stato legato per sempre è fondamentale fare un ulteriore, grande salto indietro. A tempi ben anteriori alle invenzioni rivoluzionarie e insurrezionali dei Mano Negra, ai tempi dunque della sua infanzia.
I genitori di Manu Chao, il giornalista galiziano Ramon Chao e la ricercatrice basca del CNRS Felisa Ortega, lasciarono la Spagna per trasferirsi a Parigi a causa della loro posizione in forte conflitto con la dittatura di Franco. Nato nel 1961, il musicista crebbe dunque nel sobborgo di Boulogne-Billancourt, in una casa che somigliava a una comune, nella quale i genitori ospitavano numerosi artisti esuli e dissidenti delle varie dittature sudamericane.
Il giovane Manu Chao si ritrovò dunque circondato da arte, musica e senso di ribellione. Invece delle favole, a popolare la sua fantasia erano storie di oppressione e lotta, di sofferenza, ma sempre iniettate di un inarrestabile senso di rivalsa e speranza. Tutte caratteristiche lampanti all'ascolto anche di un solo verso o di un solo accordo di "Clandestino". Grazie alla sua esperienza familiare e ai suoi viaggi, Chao avrebbe appreso, oltre al francese, all'inglese, allo spagnolo e al galiziano, anche l'arabo, il portoghese, l'italiano e il wolof (la lingua dell'omonima popolazione del Senegal). Tutti idiomi che mescola sovente, anche in una sola canzone, dimostrandosi un vero e proprio menestrello poliglotta, alfiere di un metodo senza confini linguistici e di genere.

Al tramonto del Novecento, in piena Pre-Millennium Tension, per dirla con Tricky, Manu Chao diventa il paladino barricadero di una generazione antagonista, che rifiuta le leggi consumistiche della globalizzazione e le avide logiche di sfruttamento applicata dalle multinazionali sulla pelle dei popoli del Terzo Mondo. Paradossalmente, proprio colui che incarna la multiculturalità e il cosmopolitismo, con il suo approccio poliglotta e apolide, finisce col divenire il simbolo di quanti vogliono difendere i confini e le radici identitarie dei popoli e delle loro terre. Nulla che abbia minimamente a che fare con il sovranismo contemporaneo, naturalmente, ma all'epoca il fronte politico era spostato su altre coordinate e il nemico non era Trump, bensì il Fondo monetario internazionale e in seconda battuta la stessa Unione europea, o quantomeno la Bce e le istituzioni finanziarie alle quali si mostrava supinamente assoggettata.
Cantando la clandestinità come stato dell'anima (e come condizione di perenne straniamento degli "invisibili", di quanti vivono fuori dalle logiche sociali ed economiche dell'Occidente turbo-capitalista) Manu Chao si faceva cantore di una diversa concezione del mondo globale, inteso come luogo di accoglienza e inclusione, in cui le dinamiche commerciali sono eque e solidali, in difesa dei territori e dei diritti dei lavoratori. La diversità culturale come antidoto al conformismo globale e alle sue logiche di asservimento. Un'utopia, insomma, non molto distante da quella dell'età dell'Acquario e come tale destinata a spegnersi rapidamente. Per un attimo, però, quelle delicate fragranze melodiche e quei versi-slogan diedero davvero il senso di una rivoluzione col sorriso, fatta di resistenza e speranza. Il suo lessico è la succitata patchanka, ibrido meticcio caratterizzato da una commistione di colori, suoni, stili, lingue, musiche e tradizioni diverse - che vede un precedente nei Clash di "Sandinista".
Altro paradosso è che il suo album d'esordio solista - clandestino di nome e di fatto - uscì praticamente senza promozione, come una sorta di silenzioso canto del cigno del cantante franco-spagnolo, diventando tuttavia un bestseller da 5 milioni di copie e il trampolino di lancio per una (lunga) carriera solista, proseguita fino ad oggi, anche se mai più a questi livelli.

Il sipario di Clandestino (1998) si apre su una metropoli caotica, anonima e indistinta: potrebbe essere Parigi come New York o Città del Messico. È "la grande Babylon" dove il "Clandestino" della title track si è perduto ("perdido en el corazón") e vive da invisibile, rassegnato al suo destino solitario e fuorilegge senza alcuna possibilità di riscatto ("Solo voy con mi pena, sola va mi condena/ Correr es mi destino para burlar la ley"). Su una chitarra acustica essenziale, sospinta da un ritmo reggaeggiante, Manu Chao sussurra in tono sommesso, impersonando la voce di chi vive nell'ombra. Uno squarcio di immigrazione illegale e brutalmente negata. Versi come "Soy una raya en el mar" ("Sono una riga nel mare") o "Clandestino por no llevar papel" ("Clandestino per non avere documenti") condensano il senso di sradicamento e l'ansia dell'appartenenza negata. La reiterazione melodica diventa ipnotica, simboleggiando una condizione senza fine. "Clandestino" è una ballata dolceamara, tanto struggente nei suoni quanto inflessibile nel testo, con quell'elenco di nazionalità extracomunitarie relegate all'emarginazione - africano, algerino, nigeriano, peruviano, boliviano - e quella citazione della band-madre ("Mano negra ilegal").
Gli fa seguito senza soluzione di continuità l'altro gioiello "Desaparecido", stessa andatura reggae, frammista a rumba e influenze caraibiche, a puntellare stavolta un inno commovente a tutti i "dissidenti", fatti sparire in silenzio dalle dittature di ogni angolo del globo: senza rumore, senza processi, senza condanne e senza avvocati. L'arrangiamento volutamente scarno, quasi lo-fi, sottolinea l'urgenza del messaggio: "Yo llevo en el cuerpo un dolor/ Que no me deja respirar/ Llevo en el cuerpo una condena/ Que siempre me echa a caminar". L'erranza, dunque, come unica condizione possibile per chi vive con un bersaglio sulla fronte, in un raffronto ideale tra la condizione dei migranti irregolari e quella delle vittime dei golpe sudamericani.
Sono brani che al rock e ai ritmi serrati dei Mano Negra preferiscono i languori di un pop elettroacustico malinconico e morbidamente ipnotico (non distante da quello dei coevi connazionali Noir Desir) e le sfumature di un ethno-folk dolente e groovy al tempo stesso, che tra chitarrine in levare, ottoni distanti e tenui filigrane elettroniche, resta sospeso in una dimensione irreale di quella Malegria (titolo anche di un'altra traccia in scaletta), che, nello spirito di certa musica brasiliana, sposa gioia e tristezza, luce e ombra, in una dialettica permanente. Con quei rumori di strada e quei frammenti radiofonici che attraversano le canzoni, come a voler tenere sempre dritte le antenne sulla realtà contemporanea.
A richiamare l'esperienza dei Mano Negra è anche "Bongo Bong", rilettura vicina al rap di quella "King Of Bongo" che dava il titolo al terzo album della band francese. Se resta il tema di fondo - la fiera rivendicazione dell'autonomia artistica di un suonatore di bongo, popolare nella sua comunità ma ignorato nella grande metropoli - i giri si abbassano dal tribalismo rock della versione originale a una cantilena minimale scandita da un bip, che fluisce naturalmente nella successiva "Je ne t'aime plus", interpretata da Manu Chao in francese, con tono malinconico e disilluso, per dar voce alla fine di un amore. Il titolo ironico richiama la celebre canzone erotica di Serge Gainsbourg, ma qui l'amore perduto diventa un simbolo dello smarrimento d'identità e del disagio personale. Deliziose le cadenze, vagamente bossa nova, con la chitarra a sorreggere un arrangiamento languido e una melodia splendida, che si snoda dolceamara, infondendo un senso di vulnerabilità che rende il brano emotivamente immediato (non a caso sarà oggetto di cover ad opera di Robbie Williams nonché dei tedeschi Max Raabe & The Palast Orchestra). Il francese la fa da protagonista anche in "La viè a 2". Chao lo spoglia però di sensualità e consonanti aspirate per calarlo in un contesto suburbano, dove lo declama con il fare stradaiolo di un mercante

I sedici brani che compongono Clandestino più che a una scaletta assomigliano a un viaggio, un errare ciclico e organico, dove le frasi chiave, ma anche i ritmi e le melodie vanno e vengono arricchendosi di nuove sfumature, diventando parte di un'esperienza che mescola alla musica registrazioni telefoniche, report giornalistici e field recording. Se "La despedida", con i suoi ricami di chitarra e l'elettronica che sfila come una cometa, richiama le atmosfere delle due tracce che aprono il disco, vi è (ad esempio) una stretta connessione anche tra "Mentira" e "Luna y Sol". Approfittando di due liriche interscambiabili e complementari, le due canzoni arringano contro le bugie raccontate dai governi dei paesi capitalisti e di quelli in via di sviluppo per convincere le masse della bontà delle proprie scelte. La prima punta però al cuore con una melodia di chitarra pizzicata splendida e dolente, mentre la seconda è più aizzante, adornata com'è di ottoni da parata e agitata da una ritmica dritta e arzilla. A rendere il combo un manifesto politico vi è poi un azzeccatissimo sample giornalistico sul protocollo di Kyoto, dove viene sottolineato l'atteggiamento negazionista di alcuni leader politici rispetto al surriscaldamento globale.
Il viaggio e gli esperimenti continuano con "Welcome To Tijuana", dove la città messicana, inebriata da "tequila, sexo e marijuana", diventa il teatro più psichedelico della scaletta. Chitarrina incespicante, trombe squillanti, lampi elettronici, basso dub e overlapping vocali vengono impastati da Chao e band in un pezzo sì canticchiabile e ammiccante, ma dalla forte carica psicotropa.
La passione di Manu per le droghe, in particolare la marijuana, pervade poi "Minha galera", una sorta di dolcissima e traballante ninna nanna in portoghese, dove il cantautore gioca con le parole e la loro pronuncia per potersi riferire tanto a una ragazza quanto alla pianta di canapa portatrice di THC: "El viento viene7 El viento se va/ Por la frontera". È il refrain di "El viento", il brano posto a chiusura del disco e delle peregrinazioni del clandestino. Quando musica e parole cessano, rimane soltanto il field recording incessante del vento: è un trionfo immaginifico, dove la natura, attraverso questo elemento, ignora e si fa sberleffo dei confini imposti dall'uomo ai suoi simili, dall'uomo a sé stesso.
È quasi pleonastico scriverlo, ma oltre a rappresentare un capolavoro folk senza tempo, con le sue citazioni, il suo senso d'urgenza e di inguaribile speranza, Clandestino era un disco profondamente attuale tanto quando faceva la sua comparsa quasi trenta anni fa quanto lo è oggi.

Confortato dall'imprevisto successo, Manu Chao tenta di bissare il colpo tre anni dopo con Proxima Estacion: Esperanza (2001). E' un album che non aggiunge pressoché nulla al fortunatissimo Clandestino. Un fratello gemello, anzi, "una sorella", come lo ha definito lo stesso Manu Chao, che lo ritiene più "femminile" del precedente. Diciassette canzoni che ripercorrono i capisaldi del suo repertorio, fatto di ritmi latini, digressioni pop e contaminazioni linguistiche. Tra le tracce, infatti, ce ne sono nove in spagnolo, due in inglese, una in francese, una in arabo ("Denia") e due in "portognolo", ovvero quel curioso ibrido di confine tra portoghese e spagnolo che Chao dice di sentire come la sua vera lingua. Più un brano in tutte le lingue insieme. Una vera Babele, insomma, che nasconde però una monotonia di fondo.
C'è il singolo dal motivetto accattivante ma dal respiro corto ("Me gustas tu"), c'è un omaggio a Bob Marley("Mr.Bobby"), e ritorna il motivo di "Bingo Bong" (uno dei pezzi forti di "Clandestino") con la voce di una rapper brasiliana che canta degli uomini ("Homens"). Una formula di successo, d'accordo, ma quanto potrà durare?

"Non avrei mai immaginato di poter fare un altro disco - ha ammesso candidamente lo stesso Manu Chao - Con i soldi che ho guadagnato in questi anni, potrei vivere viaggiando fino alla fine dei miei giorni".

Ma questo cantore dell'antagonismo in salsa latinoamericana è ancora convinto di potersi rinnovare: "Se sono tornato in studio vuol dire che avevo ancora delle cose da dire", ha precisato. D'altronde Manu Chao porta nella sua valigia un'infinità di influenze musicali. "Sono un campionatore umano - dice -. Assorbo tutto senza rendermene conto e poi tiro fuori le sonorità più diverse. Non so più dire da dove vengano di preciso, se dal Brasile, dal Venezuela o dal Senegal".

Spirito onnivoro, capace di saltare dal punk al flamenco, dal "son" cubano alla "tammurriata" partenopea, Chao non può rimanere ancorato a lungo in un luogo specifico. Manu, infatti, ha trasportato da qualche tempo la sua base a Barcellona, "perché dopo trent'anni di vita a Parigi, città stimolante ma dal cuore freddo, avevo una gran voglia di sole e di caldo". Ma anche lì è quanto mai difficile trovarlo, e lui non ci mette molto a spiegare il perché. "I Mano Negra erano nati perché volevo un gruppo dove poter suonare tutto ciò che mi passava per la testa, e soprattutto soddisfare la mia voglia sfrenata di movimento continuo". "E anche adesso che mi avvicino ai quaranta, questa voglia è sempre presente in me. Infatti non riesco a stare fermo in una città per più di quindici giorni, ma, al tempo stesso, non sopporto i tour canonici, quelli di una sera e via, avanti verso la prossima meta. Perché io ho amici in ogni parte del mondo, e quando capito dalle loro parti ho voglia di salutarli, di stare un po' di tempo con loro, di fare musica insieme a loro. Per questo ho creato Radio Bemba: è la risposta che cercavo a questo tipo di esigenze".

La sua ricetta è chiara: musica meticcia, suonata con strumentisti di ogni razza e colore in ogni angolo del mondo, dal Cile al Senegal, da Cuba all'Italia nostra. Africa e Sudamerica, comunque, sono le sue mete preferite: "Lì il mondo è veramente mischiato come in un gigantesco laboratorio umano. Sembrano in ritardo su tutto, e invece sono avanti di centinaia di anni". Tra le sue attività, anche un progetto avveniristico, nato a Londra da una ricerca a fianco dei cyber-tecnologici Prodigy: "Voglio trasformare la techno da fredda, ipnotica musica da discoteca a ritmo di strada, con i tamburi, tra la gente". Un nuovo vagabondaggio tra le note per questo "campionatore umano" in perenne migrazione.

Radio Bemba Sound System è un live del 2002 che segna il distacco dalla Virgin.

Due anni dopo, il ritorno in studio di registrazione per Sibérie M’Etait Contée, progetto piuttosto ricco e ambizioso, dove a farla da padrone è un'aria popolare catturata tra i vicoli e le bancarelle della metropoli parigina. Uscita in forma di libro con cd allegato, l'opera è impreziosita dagli "schizzi" dell'illustratore polacco Wozniak. 
Il disco, cantato interamente in francese, spazia dal disincanto polemico di "La Valse à Sale Temps" alla desolazione di "Helno est mort", passando per l'ode amorosa di "Je suis fou de toi" e il gelo sentimentale di "Sibérie".
La fisarmonica di Thierry Bartalucci, la tromba e il trombone di Roy Paci imbastiscono suggestivi quadretti di una Parigi spaesata e spiazzante, dove cova l'amarezza e la solitudine, sublimate nella ballata dolente di "Dans mon jardin". E non mancano sprazzi di mazurca ("Madame Banquise"), mambo ("Les rues de l'hivers") ed esotismo tropicale ("Sibérie fleuve amour").
Sibérie M’Etait Contée mostra un Manu Chao diverso, non più ostaggio della retorica no-global, ma amaro indagatore della vita quotidiana nei meandri della metropoli.

Con La Radiolina (2007), tuttavia, riemergono antichi vizi: monotonia, cocktail troppo facili e stucchevoli, testi velleitari. Così, nonostante Manu Chao si impegni ad amalgamare una vasta congerie di lingue (spagnolo, francese, italiano) e stili (rumba, rock, pop, ska) la noia s'impadronisce ben presto dell'ascoltatore, sopraffatto anche dalla logorrea del Nostro. Ventuno brani sono decisamente troppi per il Tramor attuale, che pretende di stiracchiare all'infinito lo stesso copione. Si salvano il vivace singolo "Rainin paradize", con tanto di video girato da Emir Kusturica, la contrita "Tristezza Maleza" e l'ode a Maradona di "La Vida Tombola". Ma l'impressione è che ormai si stia davvero raschiando il fondo del barile.

Per chiunque abbia vissuto gli anni musicali a cavallo tra i due millenni fa stranissimo pensare che Manu Chao sia poi rimasto fermo, perlomeno dal punto di vista produttivo, per ben 17 lunghi anni. Il suo melodiare amichevole e cosmopolita si è infatti imposto con gran forza nel nostro immaginario e radio, televisioni e piattaforme streaming hanno continuato a tenerlo vivo. Solo un anno fa, ci pensava il disco della producer Sofia Kourtesis, con uno splendido remix di “Estación Esperanza" a ricordarci quanto fosse ancora contemporanea la proposta del pioniere (specie con i Mano Negra) latin alternative e quanto ne avessimo ancora bisogno. Dei suoni quanto dei messaggi.
Forse questi giorni di morti in mare e governi pericolosamente tendenti a destra hanno funto da richiamo per il musicista poliglotta, che è dunque tornato con un Viva tu (2024), che suona, come al suo solito, come un solidale abbraccio tra periferie dimenticate. Non sembra un caso che il disco si apra proprio con un brano intitolato “Vecinos en el mar”, dove Manu ci ricorda come sarebbe naturale comportarsi con chi è più sfortunato: "Io tu abriré mi puerta/ Como tu abrio comigo".
Inizia così un disco che suona come un collage. Un mosaico di pezzi decisamente brevi, ai quali sono la scarsa durata e la fuggevolezza impedisce, forse, di ficcarsi in mente. Frammenti in cui c’è tutto il Manu Chao che conosciamo: i suadenti coretti femminili in francese (“La couleurs du temps”), i soffici tocchi elettronici a fare da tessuto nervoso alle canzoni (“Tu te vas”), la proverbiale punteggiatura di chitarra acustica (“Vecinos en el mar”), le schitarrate latineggianti (si pensi ai lampi flamenco della title track). Nessuna addizione impensabile, tolto forse l’inserto country di “Heaven’s Bad Day” e la più lunga e scenografica “Sao Paulo Motoboy”: tutto come lo avevamo lasciato 17 anni fa, ma anche tutto delizioso e rassicurante.

This is not success
This is not progress
This is just a collective suicide

Non mancano numerosi moniti, come quello appena citato, estratto da “River Why”, ma in generale l’atmosfera di Viva Tu è ottimista e rincuorante. Probabilmente proprio quello di cui abbiamo bisogno per non sprofondare in un’implacabile sensazione di cinismo e impotenza che spesso aleggia in questi tempi politicamente e socialmente terribili. Il consiglio è dunque di non fare l’errore di pensare che si tratti di una trappola per nostalgici, del solito ritorno fuori tempo massimo e goderselo con le orecchie e il cuore ben aperti.

Contributi di Michele Corrado ("Viva tu", "Clandestino")

Manu Chao

Discografia

Clandestino (Virgin, 1998)

8

Proxima Estacion: Esperanza (Virgin, 2001)

5

Radio Bemba Sound System (Radio Bemba, live, 2002)
Sibérie M’Etait Contée (Radio Bemba, 2004)

6,5

La Radiolina (Virgin, 2007)

5

Viva tu (Because, 2024)

7

Pietra miliare
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