Come Quentin Tarantino con i due volumi del suo "Kill Bill", Devendra Banhart ha lasciato trascorrere appena pochi mesi tra il celebrato "Rejoicing In The Hands" e il suo nuovo "Niño Rojo", che a tutti gli effetti si presenta come il secondo capitolo dell'album precedente. Non un'appendice, insomma, ma un vero e proprio gemello, proveniente dalle medesime sessioni di registrazione, ospitate dalla villa di Lynn Bridges a Westpoint.
Una cinica operazione commerciale? Quel che è certo è che l'impatto di un doppio album con la bellezza di 32 bozzetti acustici sarebbe risultato facilmente prolisso e dispersivo all'ascolto, anche se è impossibile prescindere dal diretto predecessore per affrontare questo nuovo disco.
Il panorama che si presenta è quindi un orizzonte dai confini già familiari, delineati dal labirinto di nitidi arpeggi con cui Banhart accarezza le corde della propria chitarra: i brani sono tanti quanti quelli raccolti in "Rejoicing In The Hands" e anche in questa occasione si spingono solo in un caso oltre i tre minuti di durata; ancora una volta c'è un episodio cantato in un bizzarro spagnolo ("Ay Mama") e ancora una volta la bassa fedeltà fa da comune denominatore allo scorrere dei pezzi.
E' vero che, rispetto a "Rejoicing In The Hands", sono più numerosi i frangenti in cui gli arrangiamenti vanno oltre il semplice binomio voce/chitarra, ma si tratta comunque di rifiniture che non vogliono intaccare la sostanza del disegno, bensì semplicemente arricchirne i tratti con qualche sfumatura di piano, qualche accento di batteria, qualche volteggio di archi… Pennellate essenziali come quelle degli strambi schizzi di Devendra, che anche stavolta illustrano l'artwork del disco e che, secondo il loro autore, sono una componente visiva inscindibile dalla sua musica.
Sin da subito, però, l'atmosfera che si respira tra le tracce di "Niño Rojo" appare più lieve e rilassata rispetto a quella dell'album precedente, persino più godibile, come testimonia l'aria giocosa e svagata di brani come "We All Know", con i fiati del suo sgangherato finale, e l'irresistibile "At The Hop", che rappresentano i momenti più coinvolgenti del disco. A dire di Devendra Banhart, "Rejoicing In The Hands" dovrebbe rappresentare la madre e "Niño Rojo" il figlio, "exuberant and foolish"… Sarà anche la boutade di un personaggio sempre più consapevole del fascino della sua apparenza stralunata, ma bisogna ammettere che mai come stavolta Devendra pare proprio voler affrontare il mondo con gli stessi occhi di quel bambino del titolo, che si guarda intorno pieno di un'insaziabile curiosità, la bocca spalancata di fronte all'evidenza di ciò che lo circonda, incurante della propria fragilità.
Non è un caso, quindi, che l'album si apra con "Wake Up, Little Sparrow", cover di un brano della leggendaria autrice di nursery rhymes e canzoni per bambini Ella Jenkins: la musica di Devendra Banhart, con la sua folle leggerezza sospesa a mezz'aria e le sue liriche naïf e surreali, vive di una semplicità infantile che le dona quel naturale senso di stupore di chi scopre per la prima volta l'esistenza delle cose.
Tra la cantilena di "Owl Eyes" e il morbido madrigale di "Horseheadedfleshwizard", Banhart si diverte così a mettersi a nudo nelle proprie fantasie più istintive, intessendo la danza di "A Ribbon" intorno al semplice sogno di cantare, ballare e dormire con la propria bella…
Si è parlato molto di pre-war folk, in questi mesi, per definire la musica di questo barbuto freak texano e della scena che intorno a lui si è illuminata improvvisamente di luce riflessa. Si sa, creare nuove etichette è la fatale tentazione dei critici... Del resto, non è difficile riconoscere i demoni e i fantasmi che popolano le ballate dell'American Anthology Of Folk Music trasformarsi nel bizzarro zoo di "Little Yellow Spider" o le acque intrise di blues del Delta scorrere limacciose tra le tinte scure di "Sister" o "An Island".
Ma, in realtà, il fenomeno Devendra Banhart, per essere compreso davvero, non può essere ridotto semplicemente alla tradizione dei bluesman e dei folksinger della Grande Depressione. C'è una molteplicità di elementi, intessuta nella particolarissima personalità di Devendra, dalla quale non si può prescindere nell'affrontare la sua musica: dal folk hippie della "Summer of love" all'eccentricità del genio barrettiano, sino al gusto per certe atmosfere da orchestrina dei ruggenti anni Venti, è una sarabanda di voci fuori dal tempo quella che riecheggia nella voce del folksinger texano.
La sua sensibilità ricorda, per affinità di approccio, quella dei "canti del bivacco" di Michelle Shocked, e in effetti è quasi sempre a modelli femminili che Banhart dichiara di ispirarsi, da Vashti Bunyan, presente in un duetto nel disco precedente, fino a Billie Holiday. Proprio la tendenza a indulgere sui tratti del proprio lato femminile, sottolineato anche dall'uso di un falsetto incline al vibrato che molti hanno paragonato al timbro del primo Marc Bolan, è un altro di quegli aspetti indispensabili per afferrare il senso di ciò che Devendra Banhart vuole esprimere. Secondo Devendra, infatti, la maggior parte della musica al maschile è accumunata da un mascherato egocentrismo, mentre quella creata dalle donne ha la capacità di essere "honest, revealing, and strong and soulful all at once"…
A emergere con più evidenza rispetto a "Rejoicing In The Hands", poi, è il senso di appartenenza di Banhart a una sorta di comunità artistica, i cui accoliti sembrano avere cancellato dal loro calendario quantomeno l'ultima quarantina d'anni: nelle tracce video comprese nel cd, si vede Devendra suonare (il sitar!) e ballare con la sua aria da slacker, circondato dai personaggi di una comune in stile flower power , tra travestimenti da indiani e immagini che sembrano uscite da un documentario sull'era dell'Acquario. Una trama di rapporti che dà i suoi frutti in "At The Hop", scritta e interpretata insieme a Andy Cabic dei Vetiver, e "Be Kind", dedicata a una "lovely Bianca" che ovviamente - per chi ancora ignorasse il gossip sulla sua liaison con Devendra - altri non è che Bianca Casady delle CocoRosie… per non parlare della partecipazione come vocalist di Siobhán Duffy (sì, proprio quella di "This Beard Is For Siobhán", inserita in "Rejoicing In The Hands"), fidanzata dell'uomo a cui si deve la scoperta del texano, Micheal Gira.
Insomma, dell'eredità dei Sixties, Devendra Banhart sembra in questo disco essere riuscito a trattenere solo l'originaria ingenuità, senza portare con sé quella perdita dell'innocenza che ha presto trasformato in utopia la positività dello slancio iniziale. Durerà questo delicato equilibrio? Nel dubbio, Devendra proclama solennemente, insieme al coro da ubriachi di "The Good Red Road", di voler "vivere in Giamaica"…
Rispetto al diligente scimmiottamento del passato che sembra oggi andare per la maggiore, quella di Devendra Banhart non è insomma una semplice imitazione, ma una vera e propria immedesimazione: è lo stesso Devendra, infatti, a definire il nuovo album "not observing but participating". Un atteggiamento, questo, già perfettamente racchiuso nei versi di "It's A Sight To Behold", da "Rejoicing In The Hands": "It's like finding home/ in an old folksong/ that you've never ever heard/ still you know every word/ for sure you can sing along".
Considerati finalmente nel loro complesso, "Rejoicing In The Hands" e "Niño Rojo" si presentano quindi come un'opera dalla portata ben più ponderosa di quanto ci si potesse attendere da un quasi-esordiente, nonostante la loro essenziale monocromia di fondo: un'opera di fronte alla quale viene spontaneo chiedersi cos'altro potrà dire ancora, domani, questo strano hobo d'altri tempi. Ma a giudicare dalle sue ultime esibizioni, in veste elettrica e con tanto di band alle spalle, oltre che dalle dichiarazioni in cui annuncia, con la stessa disinvoltura, di avere in progetto un album di glam-rock e di voler dar vita a un non meglio identificato space-raggae , c'è quantomeno da credere che Devendra Banhart non abbia alcuna intenzione di accontentarsi di ripetere per sempre la stessa formula. Nel frattempo, questi due album (o uno?) rimangono un punto dal quale difficilmente si potrà prescindere nel raccontare le vicende del folk americano del nuovo millennio.
15/11/2004