Forse è l'alone di leggenda che lo circonda a conferire a Devendra Banhart un fascino tutto particolare: un nome ispirato a quello di un mistico indiano, una vita da "busker" tra Texas, Venezuela, California e New York, una musica che sembra uscire da un tempo dimenticato… A poco più di vent'anni, questo strampalato "hobo" sembra essere uscito da qualche surreale scena della Grande Depressione immaginata dai fratelli Coen di "O Brother, where art thou?". Si dice che la vocazione musicale sia giunta a Devedra mentre cantava "Love me tender" a un matrimonio e che Michael Gira, già cantante degli Swans e ora impegnato con l'etichetta Young God, l'abbia scoperto durante una movimentata serata in un sushi bar… Comunque siano andate le cose, il talento di questo enigmatico folksinger ha la stessa brillantezza delle pagliuzze che rilucono nel setaccio di un vecchio cercatore d'oro.
Il primo disco, dal logorroico titolo "Me Oh My the Way the Day Goes By the Sun is Setting Dogs are Dreaming Lovesongs of the Christmas Spirit", ed il successivo Ep, "The Black Babies", non erano altro, in realtà, che raccolte di stralunati bozzetti acustici, immortalati da un semplice registratore a quattro tracce. La bassa fedeltà è rimasta anche in "Rejoicing in the hands" il marchio di fabbrica di Devendra, ma ora le sue composizioni suonano molto più compiute e ricche di personalità, riuscendo a colpire al cuore con la loro spontanea pazzia.
Registrato nella vecchia villa georgiana di Lynn Bridges con una strumentazione rigorosamente vintage, "Rejoicing in the hands" sembra voler ripercorrere i confini della repubblica invisibile di Greil Marcus, prendendo le mosse dai primi canti intonati alla luna dagli avi appena giunti nel Nuovo Mondo. La voce vibrante ma impastata di follia di Devendra Banhart richiama subito alla memoria il volto di Daniel Johnston e Rocky Erickson, che sembrano specchiarsi tra le acque increspate di questa musica fatta di filastrocche ancestrali. Basta sentire lo svagato "lalalala" di "This beard is for Siobhán" per rendersene conto e venire trasportati in una realtà parallela in cui Syd Barrett si ritrova chiuso in una cantina della vecchia America a incidere i Basement Tapes.
Eppure la follia di Devendra sembra molto più lucida di quella dei suoi stravaganti progenitori, come quando in "Todo los dolores" gioca a cantare in spagnolo con la stessa irresistibile serietà di quel geniale giullare di Jonathan Richman, oppure quando si diverte a citare i classici di Elvis Presley in "Poughkeepsie", come se fossero la litania di uno sciamano degli Appalachi. Forse a conferire profondità alle sue bizzarrie è l'eco delle vecchie ballate rurali della più antica tradizione, che riecheggiano con tutta la loro inconfondibile mitologia nella voce di questo loro nuovo figlio, ora saggio come un centenario, ora fragile come un bambino. Non è certo un caso, allora, che a duettare con lui si ritrovi la storica folksinger inglese Vashti Bunyan, "lo spirito della saggezza e della purezza" secondo Banhart.
A definire i contorni del mondo del ragazzo texano è sempre il fingerpicking con cui accarezza la sua chitarra acustica, anche se stavolta c'è il velo di tulle degli archi di "A sight to behold" a risvegliare il fantasma di Nick Drake, insieme al pianoforte di "Will Is My Friend", alle percussioni di "Fall" e al crescendo di batteria di "This beard is for Siobhán". Tutte tinte appena accennate, ma che contribuiscono ad avvicinare "Rejoicing in the hands" all'ultimo Bonnie "Prince" Billy: non certo perché Devendra Banhart ne condivida la scintillante veste nashvilliana, ma perché nel suo approccio c'è in alcuni momenti quella stessa autoironia con cui Will Oldham ha deciso di rileggere il proprio passato targato Palace.
I brani di "Rejoicing in the hands" sono brevi e fulminanti illuminazioni, che nel solo caso di "Insect eyes" si dilatano fino ai cinque minuti di lunghezza. Ma basta un minuto e mezzo di commovente semplicità per permettere a una canzone come "Autumn's child" di entrare nell'animo per non uscirne più: un rintocco di piano, un verso di stranita ingenuità, quella voce che danza e si inerpica e, alla fine, un arpeggio che sembra sbucare dal nulla e che ti lascia lì a bocca aperta, a chiederti da dove verrà mai questo ragazzo dal nome misterioso…
15/11/2006