Daniel Johnston

Daniel Johnston

Il Van Gogh del rock'n'roll

È stato il più grande outsider dell'ultima scuola di cantautori americani. Ha reinventato, nel fervore del post-punk, il termine lo-fi, adattandolo ai grandi della canzone pop d'autore. Storia di un bambino che sognava di diventare i Beatles, e invece è diventato Daniel Johnston

di Andrea Liuzza

Sono passati oltre vent'anni da quando si chiudeva in garage con un organetto giocattolo e un mangianastri da 59 $, registrando delle cassette che poi dava a chiunque, non per denaro né per una recensione, ma perché qualcuno le ascoltasse. Oggi, nonostante sia quasi impossibile trovare i suoi dischi, Daniel Johnston è un classico. A dimostrarlo, l'omaggio dei suoi colleghi più celebri, che gli hanno dedicato nel 2005 un disco-tributo, Discovered Cover, in cui rendono omaggio alle sue canzoni senza eguagliarle. Fra gli appassionati: Kurt Cobain, i Sonic Youth, i Rem, Beck, Tom Waits, i Pearl Jam, David Bowie, Matt Groening, Steven Spielberg...
Il 2005 è stato anche l'anno del multipremiato documentario sulla sua vita, girato da Jeff Feuerzeig, "The Devil and Daniel Johnston": un onore cinematografico che raramente tocca ad artisti appena quarantenni, o ancora vivi. Non ultimo, numerose gallerie in America ed Europa si sono accorte dei suoi disegni e hanno organizzato delle esposizioni.
Tuttavia, poco è cambiato nella vita di Daniel Johnston: vive con i suoi genitori, in Texas. Si presenta ai concerti da solo, con una chitarra vecchissima, si prende interi minuti per scegliere la scaletta, a volte incespica o piange cantando. Baby, non è solo un rock'n'roll show. Passa la maggior parte del tempo in casa, guardando film horror e sci-fi anni 50, ogni tanto va alle funzioni religiose. E continua a entrare e uscire dagli istituti psichiatrici, perseguitato da una psicosi maniaco-depressiva che gli ha minato la salute, impedendogli di avere una vita personale accettabile e una vera carriera artistica.
Lascia così che a fargli da manager siano suo padre, ottantenne, e suo fratello. E le sue canzoni sono popolate dagli stessi demoni di vent'anni fa: prodotti di una mente intuitiva e ipersensibile come quella di un bambino, ma ipocondriaca come quella di un adulto.

Daniel Johnston canta, scrive e disegna per sopravvivere: il dolore, l'humor, l'esecuzione approssimativa e il totale rifiuto dell'industria discografica che lo rendono un eroe sono anche la costante manifestazione della sua impossibilità a integrarsi e ad accettare le regole del gioco, da ostaggio di un inferno privato. Un critico americano l'ha paragonato a Van Gogh. In effetti le affinità sono molte: la bipolarità mentale, l'ansia religiosa, la solitudine, la vitalità mescolata a un forte impulso autodistruttivo, ma anche la lucida coscienza artistica. Daniel Johnston è ancora oggi un outsider, questo è il suo fascino, e questa è la sua dannazione.

Registrazioni casalinghe

Daniel Dale Johnston nasce nel 1961 a Sacramento (California), in una famiglia cristiana metodista. L'educazione religiosa non gli va stretta, anzi. Legge la Bibbia, divora le storie di Capitan America, comincia a strimpellare colonne sonore per film horror immaginari. Da adolescente, si appassiona alla musica: Bob Dylan, Neil Young, Sex Pistols, ma soprattutto i Beatles. "A 19 anni volevo essere i Beatles - racconta - Ci rimasi male quando mi accorsi che non sapevo cantare". Eppure comincia a cantare lo stesso, e a scrivere canzoni.

A vent'anni registra con un pianoforte e un mangianastri Songs Of Pain (1981), un esordio straordinario, in cui trovano sfogo tutti i suoi talenti: la spontaneità esecutiva, l'intuito melodico, l'abilità verbale. Il disco nasce dal suo grande trauma affettivo: Laurie, la donna che per caso o per destino si chiama come la musa di Petrarca, il suo unico amore, sposa un imprenditore. Daniel ha un crollo nervoso. Nonostante la gravità delle condizioni, la musica ha una freschezza eccezionale: il piano accenna vivaci ritmi ragtime o scandisce accordi trasognati. La voce, nasale e nervosa, snocciola versi lunghissimi e rime sorprendenti, intonando con la più schietta nonchalance melodie orecchiabili che la maggior parte dei cantautori non saprebbe scrivere.
Lo stile, se tradisce influenze beatlesiane, si ricollega più profondamente alla tradizione blues di Robert Johnson o a quella folk di Hank Williams. Qua e là irrompono frammenti di dialoghi, colpi di tosse, pezzi rumoristi. Alcune canzoni ("Wicked World", "Lazy", "Urge") sarebbero dei gioielli pop dalla melodia perfetta, se li arrangiasse un produttore. "A Little Story" ha il tono dello spiritual, ma il punto di vista è quello di un bambino di cinque anni. "Never Relaxed" è un racconto sadico e nevrotico, perfetto come colonna sonora per un film surreale girato in casa. "An Idiot's End" è una ballata di proporzioni epiche, in cui l'incapacità di comunicare sfocia nella commiserazione più spietata ("credo che il mio interessamento/ farebbe sanguinare anche il cuore di un cane morto").
Già colpisce la capacità di Daniel di raccontare i fatti più drammatici senza scadere nel patetismo, piuttosto con una sincerità che non trova ragione di vergognarsi, toccando corde universali. Un verso in particolare sembra profetico ("Grievances"): "Beh, ci ho provato ma alla fine ho fallito/ se non potrò essere un amante allora sarò una peste".

Dello stesso periodo sono altre registrazioni amatoriali per voce e pianoforte.
More Songs Of Pain
(1983) prosegue gli spunti del disco precedente: colpisce soprattutto la tenerissima ballata di S. Valentino "You Put My Love Out The Door", tesa come un grido di dolore nel freddo invernale. Il senso di alienazione dilaga, a partire dai titoli: "Phantom Of My Own Opera", "More Dead Than Alive". Seguono dischi più malinconici: Dont Be Scared (1982), in cui spiccano la desolante e lennoniana "Cold Hard World" e "The What Of Whom (1983), con una "Blue Clouds" ai vertici del lirismo.

I primi successi

Abbandonata la classe di arte, nel 1983 Daniel scappa di casa e si unisce a un carnevale itinerante come venditore di pop-corn. "Tutto il tempo era come un film" ricorda, "Per la prima volta imparai come ci si sente a essere liberi". Il carnevale approda ad Austin (Texas) dove Daniel trova lavori occasionali, ma soprattutto diventa una leggenda, tanto da venir segnalato allo show itinerante di Mtv Cutting Edge. La breve apparizione sul canale musicale più famoso d'America lo trasforma in una celebrità della scena underground, accendendo l'interesse dei Sonic Youth e convincendo alcune label a pubblicare le sue registrazioni. Nonostante il momento fortunato, i due dischi dell'epoca vengono registrati durante l'ennesimo crollo, ragion per cui, nella musica, l'elemento frammentario, surreale e nevrotico prende il sopravvento.

Yip/Jump Music (1983) è il disco delle contraddizioni: nella maggior parte dei casi l'accompagnamento è affidato a un organetto afasico, suonato con tale vigore che il rumore dei tasti acquista funzione percussiva. Così le confessioni dei testi guadagnano un tono stralunato, da tragedia mutata in farsa. "Speeding Motorcycle", una filastrocca querula e sbilenca, trasmessa anche alla radio, diventa la sua prima hit. "Casper The Friendly Ghost" narra la vicenda del fantasma gentile, imitando le cadenze rock di "Helter Skelter". "Sorry Entertainer" è un autoritratto grottesco per voce e ukulele. "King Kong", tre note intonate all'infinito, è un lamento funebre a cappella per il mostro buono, vittima dell'amore e dello show business.
L'elemento religioso è onnipresente, rafforzato da dirette citazioni bibliche: in "Love Defined", Daniel canta più vulnerabile che mai un inno che cita S. Paolo ("L'amore sopporta ogni cosa/ Crede in ogni cosa/ Spera ogni cosa/ Fa' durare ogni cosa/ L'amore non finisce mai"). "God" è un'ode francescana in 4/4, filante come un pezzo punk. "Don't Let The Sun Go Down On Your Grievances", altra ripresa scritturale, ha l'andamento dell'inno protestante, ma la freschezza della perfetta melodia pop: "Non lasciare che il sole tramonti sui tuoi problemi/ Rispetta l'amore del cuore sopra le voglie della carne/ Fai a te stesso un favore, diventa il tuo salvatore/ E non lasciare che il sole tramonti sui tuoi problemi".

Hi How Are You (1983) tradisce lo stato di disordine in cui venne registrato. Filastrocche dementi si alternano a confessioni disperate, gioielli pop ("Walking The Cow" su tutte) a trovate geniali, come quella di usare un disco jazz per accompagnamento: è la straordinaria "Keep Punching Joe", in cui Daniel mette in scena un programma televisivo interpretando conduttore e ospite, con straordinaria verve comica. Il rumore domina sull'armonia.
Sullo stesso tenore si allineano gli altri dischi degli anni 80, arricchiti dall'intervento di qualche amico che regala arrangiamenti minimali. Di "Continued Story" va ricordato il folgorante frammento quasi grunge "Funeral Home", che nei live Daniel fa intonare al pubblico, nell'imbarazzo generale: "Dimora funebre/ sto andando alla mia/ dimora funebre/ Mi compro una bella bara nera e luccicante/ Vado alla mia dimora funebre/ e non tornerò mai più indietro".

Con la fama vengono le prime collaborazioni: It's Spooky (1988), registrato con Jad Fair, è un vero capolavoro di creatività spettrale: i due si divertono come matti a suonare tutti gli strumenti, comprese batteria e tastiere giocattolo, dando vita a piccoli miracoli di cacofonia, a sketch surreali ("Tongues Wag In This Town", per canto e xilofono giocattolo), a tenere narrazioni folk ("I Did Acid With Caroline") e a desolatissime melodie lennoniane ("Nothing Left"). "Kicking The Dog" usa la voce di un cane, tratta dai libri sonori per bambini, vent'anni prima delle Cocorosie. "I Met Rocky Erickson" si avvale di un accompagnamento ripetitivo ma schizofrenico, in cui la batteria e la chitarra seguono due tempi diversi. In "The Chords Of Fame" viene lanciata una polemica contro l'industria discografica, segno che Daniel Johnston è meno sprovveduto di quanto il mito del "genio pazzo" potrebbe far credere: dietro alle sue registrazioni, in realtà, nasconde una ben determinata coscienza artistica.

Gli anni 90

Ad aprire il nuovo decennio, un titolo programmatico: 1990. E' il disco della rivelazione internazionale, essendo stato pubblicato da una label che si è preoccupata anche di distribuirlo. Ma è anche il disco della maturità: mai il songwriting di Daniel è stato così conciso ed efficace. Eliminati gli episodi rumoristi, rimane soltanto la sua voce, su accompagnamenti minimi di tre accordi, a intonare le ballate più cupe e fataliste della sua carriera. Anche il tema è ridotto all'osso: la battaglia dell'uomo contro il male. Satana, similmente ai blues del Missisippi, compare in tutte le canzoni. L'apertura è affidata a "Devil Town", un canto a cappella più disarmato che mai. "Held The Hand" è poco più di un frammento, ma la melodia è perfetta. Il momento più commovente è l'incedere lento e tragico di "Lord Give Me Hope", sei minuti di preghiera a Dio per voce e pianoforte. La speranza dell'amore non è ancora morta, come dimostra la ballata per voce e chitarra "True Love Will Find You In The End", uno dei pezzi favoriti dai fan e una delle cover preferite di Beck. I Sonic Youth regalano una chitarra a "Spirit World Rising", altra preghiera di sei minuti. L'ansia di redenzione pervade tutto il desco e ispira ogni nota, ogni pausa, ogni accordo. Potrebbe essere il primo passo verso la rinascita.

Due anni dopo Daniel ha un'etichetta, una band, il sostegno pubblico di Kurt Cobain, e sfodera il suo disco più spensierato: Artistic Vice. Prevale su tutto la voglia di suonare. Attaccata la spina all'amplificatore, Daniel scopre una sincera vocazione elettrica. La musica, registrata in presa diretta, rispolvera sonorità sixties, energici rock'n'roll come "My Life Is Starting Over Again" ("sempre meglio che il suicidio" tiene a precisare nel ritornello), ballate con riverberi psichedelici ("I Feel So High"), spunti blues, e alcuni divertissment noise che strizzano l'occhio nientemeno che ai Velvet Undergound ("A Ghostly Story" e la conclusiva "Fate Will Get Done", la cui pulsazione ossessiva viene condotta alla disgregazione). Perfino la rievocazione di "Laura" assume l'andamento di una ballata serena. Il rock filante di "Happy Soul", tuttavia, insinua il dubbio che si tratti di un tragico scherzo: "I'm so happy" viene ripetuto all'infinito, finché la voce non cede e diventa un lamento.
La semplicità e il tono personalissimo con cui Daniel affronta il rock sono quelli di un bambino che fa un disegno per sua mamma.
Artistic Vice ha successo: gli procura un contratto con un teatro di New York, per cui compone un balletto rielaborando alcune canzoni di Yip/Jump Music, e l'occasione della sua vita. Un contratto con l'Atlantic Records.

A rovinare il contratto con l'Atlantic è l'ennesimo crollo, uno dei più tragici della sua vita. In un momento di disperazione, Daniel finisce col rompersi un braccio.
Riesce a completare le registrazioni del disco, intitolato ironicamente Fun (1994), ma non può promuoverlo. Il risultato, pur nella inevitabile discontinuità, è fra i migliori di sempre, con una decisa virata verso il folk voce-e-chitarra e almeno tre canzoni indimenticabili: "Life In Vain", una ballata acustica finemente realizzata, con tanto di violino e violoncello, e cantata col cuore in gola. Il testo è memorabile: "Non so più distinguere gli alti e i bassi/ E non c'è più amore qui intorno/ Ognuno indossa la sua maschera/ In attesa che Babbo Natale torni in città/ Ci arrendiamo così facilmente/ Stiamo vivendo invano/ E per cosa poi?/ Dobbiamo solo continuare a tentare/ Provare a tener duro/ Ma per cosa poi?".
A metà del disco, Daniel imbraccia l'acustica col braccio rotto e intona la sua melodia perfetta: "Silly Love", lasciata alla purezza lo-fi, è l'equivalente johnstoniano di "Imagine". Dopo diversi sketch sgangherati ("Jelly Beans"), noise-psichedelici ("Psycho Nightmare"), o folk, fra cui spicca "Happy Time", per voce e violoncello, con un'incredibile parodia di Ginsberg ("Holy! Holy! Holy! Holy! Holy!"), arriva "Rock'n'roll/EGA". È il gran finale, la perfetta sintesi di tutte le bipolarità umorali: strofa folk, ritornello rock. La lunghissima coda, una cavalcata rock'n'roll all'ennesima potenza, con la voce doppiata e spinta su registri altissimi, è il momento più epico della sua carriera.
Fun è sicuramente il primo disco da procurarsi, per chi voglia conoscere Daniel Johnston.

Un nuovo inizio

Daniel torna a vivere con i suoi genitori, si sottopone a cure specialistiche. Riemerge dopo sette anni, in buona forma. Rejected Unknown (2001) ha la qualità del songwriting di Fun e la vivacità di Artistic Vice. Gli episodi surreali ed eversivi della giovinezza hanno lasciato posto a canzoni che sembrano scriversi da sole, tanto sono naturali nel rielaborare i medesimi spunti. "Impossibile Love" non è una canzone, è lo schema di tutte le canzoni possibili, arrangiato in chiave folk-rock, con un overdrive che geme.
Ogni brano nasce da un'intuizione peculiare, come "Devinare", che prende in giro "Every Breath You Take", o "Billions/Rock", che si diverte a mettere in scena un live indiavolato di fronte a una folla oceanica e, ovviamente, immaginaria. Oppure "Funeral Girl", che viene tenuta in sospeso per tre minuti, e improvvisamente decolla nel finale in stile vaudeville. "Dream Scream" mette addosso la paura che il cantante osi scoppiare a piangere prima della fine. "Party" è uno shuffle dal ritornello perfetto, con un bellissimo assolo.
Un disco in cui nessuna canzone è essenziale, ma tutte sono ben riuscite.

Del 2003 è invece Fear Yourself. L'album, lanciato dalla Gammon, ha il pregio e l'ovvio difetto di rendere commerciabile la musica di Daniel. La produzione di Mark Linkous trasforma, attraverso batterie, chitarre e tastiere a volontà, le melodie strappacuore di Daniel in rapidi brani pop-rock felicemente assimilabili, sufficientemente bizzarri, da ascoltare sempre con piacere. Si passa dal power-pop tiratissimo di "Mountain Top", alla strampalata energia naif di "Fish", alla canzone indie per eccellenza ("Love Not Dead", trasmessa anche da Mtv), al manifesto "Living It For The Moment", in cui la voce anticipa la rincorsa della batteria stonando a livelli massimi.
L'altra faccia del disco sono le ballate per voce e pianoforte, arricchite di violini, grancassa, corni, gemiti di theremin: ma non è difficile intuire, sotto gli arrangiamenti, la stessa persona che registrò Songs Of Pain. "The Power Of Love" riesce a essere una delle canzoni d'amore più maestose e ben costruite della sua carriera. Ma il momento emotivamente più alto è "Syrup Of Tears", in particolare nella lunga coda, in cui Daniel rimane solo col suo pianoforte, a ripetere a Laura: "Ti amo più di me stesso/ ti amo più di me stesso/ ti amo più di me stesso/ e mi piacerebbe rivederti".

Nel 2006, dopo una lunga attesa, e dopo il successo internazionale dei precedenti lavori, esce Lost And Found. Si tratta di 14 brani recuperati da varie session nei garage di casa Johnston, o del produttore Brian Bettie. Il suono è saturo, schietto, rauco. Nessuna canzone ha qualcosa da aggiungere all'ormai stranota abilità pop di Daniel, alla sua esecuzione stentata e strappacuore, al caratteristico incedere zoppicante. "Rock This Town", un rock'n'roll rallentato e aggraziato come un brontosauro, colpisce col suo overdrive gemente, la voce che canta con ostinata raucedine. "Try To Love", una ballata per voce, piano e violoncello stonato, assomiglia al pianto d'amore di un mostro tenero, ma spaventoso nel suo lamentarsi.
I due gioielli melodici del disco sono l'amara "Lonely Song" ed "Everlasting love", uno shuffle rapido e coinvolgente. "Country Song" e "It's Impossibile" arrivano a sfiorare la parodia country, con umorismo. "The Beatles", una self-cover di Yip/Jump Music, è sicuramente il brano migliore, ma nonostante il bell'arrangiamento, con i fiati che ripetono il tema di Crudelia De Mon, mette nostalgia. Viene il sospetto che il successo sia la cosa peggiore che potesse capitare a Daniel, nonostante la sua abilità lo meriti tutto.

La folla sempre crescente di ammiratori internazionali è in attesa che il documentario biografico di Feuerzeig esca nelle sale. Intanto, forse per soddisfare le sue esigenze lo-fi, da alcuni anni Daniel ha anche fondato un gruppo di garage-rock, Danny And The Nightmares, che ha come motto "Sympathy for the record industry". Le loro esecuzioni, registrate in presa diretta, sono per lo più incubi noise, o rock'n'roll disgregati. Daniel si permette tutto: urla nel microfono mandano in clip l'audio, suona il basso, imita "Immigrant Song", intona le sue preghiere a Gesù.
Il sound è vicino ai Velvet Underground di "White Light, White Heat", ma l'umore di fondo è quello di un bambino che sembra chiedere "com'è successo tutto questo?".

A sei anni da Fear Yourself, arriva Is And Always Was (2009) in cui Daniel avvera il suo sogno facendosi accompagnare da una band a tutti gli effetti. Fedele al suo stile e al suo modo di essere, Daniel Johnston anima intorno a sé il suo pantheon di figure più o meno mitologiche, da George Harrison a Syd Barrett, ad accompagnarlo nella scrittura e nell'esecuzione di un disco decisamente lineare, nella sua immediatezza pop. Spiccano in questo senso la cavalcata al pianoforte di "Without You", spavalda dichiarazione di (in)dipendenza, e la sbarazzina "Fake Records Of Rock'n Roll", accesa dall'interpretazione nel contempo lucida e istrionica di Daniel. Mettiamoci anche, all'occorrenza, la scampagnata country di "Queenie The Doggie", e abbiamo a disposizione una colonna sonora ideale per l'idillio "indipendente" di Daniel, che irride convenzioni e routine di paese.
Ci mette molto del suo la produzione di Jason Falkner (Beck, Air e Paul McCartney) nel colorare un album a volte un po' vacuo dal punto di vista compositivo, tanto che il Nostro pare occasionalmente arrancare per "tenere" il filo di pezzi anche troppo "arrangiati". Si veda ad esempio gli elaborati ricami che sottendono alla già intrinsecamente complessa "Freedom". Ben più azzeccata la pulizia del pop anni '70 di "High Horse", un recupero filologico che suona, al tempo stesso, fresco e spensierato come se quei trent'anni non fossero mai passati.
"Is And Always Was", dopo un inizio scoppiettante e luminoso, si fa poi progressivamente più imprendibile e oscuro, come giunti ad un imprevedibile vicolo cieco nei meandri cerebrali di Johnston. Si vaga per le ossessioni psichedeliche, borgesiane di "Lost In My Infinite Memory" e i deliri sottilmente post-punk della title track, dal tono di allucinata predicazione. Pare che l'incanto si sia improvvisamente spezzato, come in una favola di Walt Disney.. Si finisce, però, con maggiore sicurezza, con la ballata glam di "Light Of Day", che suona di faticosa riemersione da una delle sue ricadute: del resto, niente è scontato, quando si è Daniel Johnston, niente è prevedibile.

E' la Munster, etichetta di Madrid, che ci permette di tornare a guardare dallo spioncino i primi vagiti del cantautore di Sacramento. The Story Of An Artist è un titolo che pare rifarsi scherzosamente alla magniloquenza di un greatest hits di un qualche crooner sul viale del tramonto.
In effetti "crooner" appare davvero Daniel Johnston, anche se in uno spettacolo allestito nello stanzino di casa propria, inframezzato da dialoghi, telefonate, litigi.
L'iniziativa di questa ristampa, che ripropone i primi sei dischi di Daniel (quelli distribuiti su cassetta "fatta in casa" all'inizio della sua carriera), pare una di quelle operazioni hollywoodiane di riscoperta di personaggi peculiari ma a loro modo vincenti: difficile nascondere che parte del fascino di Johnston derivi dalla sua "americanità" - dal fatto che, nonostante tutto, bastino il talento e la fiducia in sé stessi per emergere.
Che trovino spazio i suoi strazianti sogni d'amore ("I Had A Dream"), o l'ancora più toccante dichiarazione d'intenti di "Story Of An Artist" (capolavoro!), il tocco pianistico di Daniel, insieme infantile e pienamente consapevole, disegna con grazia la scoperta dolorosa di una solitudine ineluttabile. Condizione umana che nella musica di Johnston si fa tangibile, attraverso l'equazione mai scontata - nei risultati - del tradurre in canzone il proprio dolore. Anche con ironia, all'occasione, come in "When You're Pretty".

Nel 2019, la tragica notizia che gela tutti i fan: Daniel Johnston è morto a 58 anni. Il grande cantautore americano non ha superato un attacco cardiaco che lo ha colpito il 10 settembre, come riferisce il The Austin Chronicle. Johnston aveva avuto diversi problemi di salute recentemente, l’ultimo ricovero all’inizio dell’anno, quando era in corso la seconda edizione del concerto-tributo "Hi, How Are You Day" con artisti come Flaming Lips, Bob Mould, Built To Spill, Jeff Tweedy e tanti altri. Lascia un vuoto immenso e un'eredità unica, testimonianza di un connubio di creatività e innocenza quasi senza precedenti.

Contributi di Lorenzo Righetto ("Is And Always Was", "The Story Of An Artist")

Daniel Johnston

Discografia

DANIEL JOHNSTON

Songs Of Pain (Stress, 1981)

Don't Be Scared (Stress, 1982)

The What Of Whom (Stress, 1983)

More Songs Of Pain (1983)

Yip/Jump Music (Homestead, 1983)

Hi How Are You (Homestead, 1983)

Retired Boxer (Stress, 1984)

Respect (Stress, 1985)

Continued Story (Homestead, 1985)

The Lost Recordings (1987)

Merry Christmas (1988)

It's Spooky (with Jad Fair, 1988)

1990 (Shimmy Disc, 1990)

Live At SXSW (live, Stress, 1990)

Artistic Vice (Positive, 1991)

Frankenstein Love (live, 1992)

Fun (Atlantic, 1994)

Why Me? (live, Trikont, 1999)

Live In Berlin (live, 2000)

Rejected Unknown (Gammon, 2001)

Lucky Sperms (with Jad Fair & Chris Bultman, 2001)

Fear Yourself (Gammon, 2003)

Discovered Cover (2004)

Lost And Found (Sketchbook, 2006)

Is And Always Was (Eternal Yip Eye, 2009)

The Story Of An Artist (raccolta, Munster, 2010)

DANNY AND THE NIGHTMARES

Danny And The Nightmares (Eternal Yip Eye Music, 1999)

The End Is Near Again (Cool Beans, 2002)

Freak Brain (Sympathy for the Record Industry, 2005)

Pietra miliare
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