Anticipato come un ritorno alla forma-canzone pop dopo tante sperimentazioni, a partire da “Evangelista” e poi dalla triade di dichi partorita dalla band omonima (“”Hello, Voyager”, “Prince Of Truth”, “In Animal Tongue”), il “Boy” della genia Carla Bozulich è invece tanto un’essenziale sommatoria quanto un’esasperazione di questi traumi. La sua voce si muove elegante tra ammassi irregolari di suoni e di arrangiamenti fatti letteralmente a pezzi, come farebbe una sadica ma dotta serial killer rimirando il risultato dei suoi misfatti.
L’affinità elettiva con cui riprende e rielabora i conciliaboli più tremendi e insistenti di Nick Cave è forse la più sincera di sempre. L’impasto cupo e astratto di registrazioni deformi e vibrazioni elettroniche di “One Hard Man” si propaga sopra un battito metallico opprimente, fin quando i nastri elettronici aumentano l’intensità e spingono la vocalist a fare altrettanto. La recitazione nuda, labirintica e mentalmente instabile di “Ain’t No Grave” fa il paio con un assortimento di cacofonie vocali e misteriose stilettate strumentali; “Don’t Follow Me”, ancor più scheletrica, è praticamente un maniacale, instabile e asettico monologo accompagnato da tamburi, controcanti grevi e tastiere deformate. L’ottima chiusa di “Number X”, sonata ambientale, svanita, illogica e irreale, è redenta dalla voce dell’autrice solo negli ultimi trenta secondi.
Più tradizionali sono “Danceland”, bolero-blues fantasmagorico, tutto echi e voci di strega, “Drowned To The Light”, refrain dolente e ululato a mezza voce in una soundscape sanguinante, e “Deeper Than The Well”, una cantilena, quasi un salmo-mantra, avvolta in una ambience nera e scarnificata da una batteria epilettica e conati chitarristici, più vicina all’impostazione di gruppo alla Evangelista.
Anche “Gonna Stop Killing”, una vera disdetta, sembra più interessata ad assumere una forma di cantata melodica, ma all’inizio è una processione funebre impastata in un tintinnio psichedelico di chitarra dodici corde a mo’ di clavicembalo, con loop e suoni invertiti, una potente rimembranza della Nico di “Marble Index”. “Lazy Crossbones” è invece talmente sofisticata nel suo noir insistito da richiamare i Portishead.
Scritto, suonato, registrato e prodotto per la maggior parte da sola (persino il disegno di copertina è di suo pugno), con due aiuti: il valente Andrea Belfi alla batteria e il compositore John “JHNO” Eichenseer, responsabile della parte compromissoria e lineare dell’albo. Nei momenti più affilati e meno usuali è, comunque, un’opera d’arte che ambisce a reinventare il cantautorato femminile in un mondo parallelo di sintagmi impossibili. Il singolo scelto, “Lazy Crossbones” è sopravvalutato ma ha un senso: una sbilanciata sintesi delle due anime del disco.
21/03/2014