Camper Van Beethoven - Cracker

Camper Van Beethoven - Cracker - Una rivoluzione goliardica

Con il suo atteggiamento distaccato e irriverente e la sua patchanka di stili underground, la formazione californiana si è imposta come una delle realtà più originali del variegato panorama alternative rock a stelle e strisce. Una lunga storia, iniziata negli anni 80 e proseguita fino ad oggi, tra pause, reunion, progetti paralleli e ritorni di fiamma

di Mauro Vecchio

Ciascun componente dei Camper Van Beethoven è un cantautore premuroso, un maestro del suo strumento, con una visione totalmente unica, e insieme hanno una chimica equilibrata, priva di ego e con una dinamica che ha creato molte delle nostre canzoni preferite
(R.E.M.)

 

Nella colonna sonora della mia vita. Una band americana unica, con canzoni meravigliose. Sono sempre così felice quando fanno uscire un nuovo album
(Curt Wood, Meat Puppets)

 

California Republic

 

Redlands, California. Una piccola città di quasi 60mila abitanti a una cinquantina di miglia verso ovest da Palm Springs. Siamo nella San Bernardino County, in un’area originariamente occupata dai nativi americani della tribù Cahuilla. Almeno fino all’arrivo della corona spagnola e della conseguente influenza cattolica negli ultimi trent’anni del ‘700. Oltre un secolo dopo, il passaggio della rete ferroviaria Southern Pacific che deve collegare la California del sud con San Francisco. Tra le aree di produzione e distribuzione di arance più importanti al mondo, Redlands gode di un mite clima mediterraneo e accoglie i suoi giovani universitari vogliosi di spaccare il mondo. È da poco iniziato l’anno 1983 e la scena underground della piccola Redlands pullula di aspiranti band chiuse all’interno dei classici garage americani tra fiumi di birra e amplificatori sparati. Una di queste ha un nome decisamente particolare, The Estonian Gauchos, formata e guidata da un cantante e chitarrista di 23 anni di nome David Lowery.
David Charles Lowery è nato in realtà a San Antonio, in Texas, agli inizi di settembre nel 1960. Suo padre insegue una fulgida carriera nell’Air Force, mentre sua madre verrà poi definita “una donna inglese della working-class”. La prima giovinezza in Texas dura poco, perché David si trasferisce con tutta la famiglia proprio a Redlands per iniziare gli studi liceali. Una volta raggiunta la maggiore età, Lowery si appassiona alla musica punk, così imbraccia il basso e decide che il suo futuro è nel mondo della musica. Addirittura formando due gruppi, The Estonian Gauchos e Sitting Duck, che mescolano punk e acid-rock con quella che lo stesso David definirà fake russian-sound music. A formare i Sitting Duck, oltre a Lowery, ci sono il polistrumentista Chris Molla, il batterista Bill McDonald e successivamente anche Victor Krummenacher, che suona il basso e permette così a David di spostarsi alla chitarra ritmica.
Pur provando i primi brani a Redlands, Lowery ha i suoi studi universitari da portare a termine, alla University of California Santa Cruz, dove la scelta è caduta su una sua altra grande passione, la matematica. Nel tempo libero, quando è a Santa Cruz, suona in una terza band chiamata Box O’ Laffs, insieme agli amici locali Richie West, Anthony Guess e Chris Pedersen. Quando arriva la pausa estiva nel 1983, David torna nell’assolata contea di San Bernardino per unificare tutti gli sforzi creativi in un unico progetto, dal nome pirotecnico: Camper Van Beethoven and the Border Patrol. Sarà lo stesso Lowery a spiegare la genesi della band: “McDaniel era fissato con questa roba, cose solo apparentemente dotate di un significato. Guardava tantissima tv, ingollandosi tutto ciò che producevano i mass-media. Finché non ha sputato fuori questo. Tutto quello che caratterizza il mio senso dell’assurdo lo devo a lui”. La prima incarnazione del nuovo gruppo vede Lowery (chitarra e voce), Molla (polistrumentista), Krummenacher (basso) e McDonald (batteria), a cui si aggiungono Mike Zorn all’armonica e Daniel Blume al violino. Perché i Camper Van Beethoven di strano non possono avere solo il nome.

Lassie sulla Luna

 

Camper Van BeethovenLa prima esperienza di gruppo dura pochissimo, appena tre mesi, il tempo di far trascorrere a suon di musica l’estate del 1983. Lowery torna per completare il ciclo di studi universitari a Santa Cruz, riabbracciando i vecchi compagni nei Box O’ Laffs. Durante una delle tante serate in giro incontra Jonathan Segel, un polistrumentista originario di Marsiglia, in Francia, e cresciuto tra Davis e Tucson. Anche Segel è iscitto all’Università di Santa Cruz, dove studia composizione musicale sotto la guida del compositore elettronico Gordon Mumma. Abilissimo con violino, chitarra e tastiere, Jonathan ha quel tipo di personalità tra l’eccentrico e il geniale che serve a Lowery per dare la spinta propulsiva ai Camper Van Beethoven and the Border Patrol, che di fatto si riformano proprio a Santa Cruz con il batterista Anthony Guess al posto del sagace McDonald. Nel 1985, al termine del percorso di laurea in matematica, David è pronto a fare sul serio. Decide di “accorciare” il nome della band in Camper Van Beethoven e registrare un primo disco, avendo sufficiente materiale su cui lavorare dopo circa due anni di prove nei garage californiani.

 

In appena due mesi, gennaio e febbraio, Lowery e soci registrano ben 17 tracce ai Samurai Sound Studios di Davis, California, senza la guida di alcun produttore. L’etichetta scelta per il disco d’esordio è la Independent Project Records, fondata cinque anni prima a Los Angeles con l’obiettivo di lanciare la carriera di band emergenti. L’album Telephone Free Landslide Victory esce a giugno sul mercato americano, aperto dagli scarsi 3 minuti strumentali della spiazzante “Border Ska”. La sghemba ballata psichedelica “The Day That Lassie Went To the Moon” è il vero manifesto d’intenti di Lowery e soci, ovvero farsi gioco dello status quo americano mandando in orbita il cane che più incarna i valori a stelle e strisce. Dal violino stridente sulla marziale “Wasted”, cover di scarsi due minuti dei Black Flag, alle sinuose melodie tra reggae e tex-mex di “Yanqui Go Home”, l’album d’esordio dei Camper Van Beethoven non potrebbe essere più spiazzante ed eccentrico, come una patchanka dell’underground/alternative rock.
Il nuovo gruppo mostra subito una estrema padronanza di strumenti e generi differenti, spaziando dal beat sixties di “Oh No!”, che picchia sulle tastiere, alla deriva strumentale in salsa noise di “9 Of Disks”. In “Payed Vacation: Greece” è come planare in terra balcanica, per poi tornare subito dopo negli States, sulla giravolta country & western “Where The Hell Is Bill?”, dove Lowery ironizza sul movimento punk. Se da un lato il gruppo insiste sulla world music – il sound cosacco di “Vladivostok”  e “Balalaika Gap” – l’altro filo conduttore è rappresentato da un umorismo paradossale e nonsense. Questo gusto quasi zappiano è evidente sia a livello strumentale – come in “Mao Reminisces About His Days In Southern China” che fonde ritmo ska, danza orientale e arrangiamenti morriconiani – che testuale, fino al capolavoro “Take The Skinheads Bowling” che si snoda su un tappeto raga alla Velvet Underground, facendo letteralmente esplodere le chitarre jingle-jangle.
Se Telephone Free Landslide Victory verrà elencato da molti nella classifica dei dieci migliori album dell’anno, non è affatto solo una questione di gusti personali di critici e addetti ai lavori. È un disco dove tutto gira a meraviglia, come una macchina che sfreccia al ritmo beat di “I Don’t See You” su un saliscendi di emozioni tra amatorialità noise da pogo (“Opi Rides Again - Club Med Sucks”) e ballate folk da primi della classe (“Ambiguity Song”).

 

Pochissimo tempo dopo l’uscita del disco d’esordio, i Camper Van Beethoven accolgono un nuovo chitarrista originario di San Francisco, Gregory Allen Lisher. A lasciare il gruppo è però il batterista Anthony Guess, che costringe solo temporaneamente Lowery e Molla ad alternarsi alla batteria per un nuovo ciclo di registrazioni. Se il nuovo drummer Chris Pedersen si unirà alla band solo nel corso del 1986, le sedute non possono certo fermarsi sul più bello, perché l’etichetta Pitch-a-Tent è in fervente attesa del successore di Telephone Free Landside Victory.
II & III esce all’inizio del 1986 e segna un passo diverso sul sentiero della band, innanzitutto abbandonando parzialmente lo spirito amatoriale e lo-fi dell’esordio per una cura maggiore delle parti strumentali e in generale una professionalità più spiccata nel lavoro in studio di registrazione. A partire dalla giravolta raga di “Abundance”, il nuovo sound è decisamente più atmosferico, pur nella continua ricerca dell’assurdo. Lo spirito punk viene così assorbito da tipiche sonorità a stelle e strisce (l’adrenalinica “Cowboys From Hollywood”), mentre si continua a spingere sulla patchanka di stili, dal valzer di “Sad Lovers Waltz” al ragtime supersonico di “Goleta”. Rispetto al disco d’esordio, II & III vira maggiormente verso il genere definibile come Americana, come nello spassoso country & western “Turtlehead” o nell’impazzita cover in salsa bluegrass “I Love Her All The Time”, dal repertorio dei Sonic Youth. Un totale di ben 19 brani che spaziano sullo spettro del roots-rock, partendo dalle gighe celtiche (“No Flies On Us”) per poi girare intorno al garage-beat (“Down And Out”) e finire nuovamente in terra cosacca con il violino ska di “No Krugerrands For David” e “4 Year Plan”.
La svolta tra A e B side è quantomeno drastica, perché Jonathan Segel prende il comando del microfono e si lancia in un blues a pallettoni, “(We’re A) Bad Trip”. Apparentemente nessun senso per l’ascoltatore che si ritrova immediatamente catapultato nell’affascinante raga indiano “Circles”, con tanto di sitar e acidità ai livelli dei Grateful Dead. In realtà, i Camper Van Beethoven riescono nella più che ardua impresa di trasformare l’attitudine punk in qualcosa di più intellettuale e postmoderno, dimostrando di essere dei musicisti fenomenali (le cosmiche “Dustpan” e “Cattle”) e pur sempre dei gran burloni, come sulla presa in giro dei giri classici del rhythm & blues straziati dal violino infinito della surreale “ZZ Top Goes To Egypt”.
Nonostante la mancanza di una hit come “Take The Skinheads Bowling”, i Camper Van Beethoven sembrano voler iniziare a fare sul serio, citando l’acida jam finale “No More Bullshit”. Manca forse l’esplosività del debutto, certo, ma II & III è un disco che segna un passaggio verso l’età adulta dei garage-punk rocker californiani.

La Cadillac di Joe Stalin

 

Camper Van BeethovenSubito dopo l’uscita di II & III, il gruppo torna in studio in compagnia del chitarrista e banjoista Eugene Chadbourne, originario di New York ma cresciuto a Boulder, Colorado. Chadbourne ha iniziato a suonare fin dall’adolescenza, quando ammirava i Beatles e cercava di rimorchiare qualche ragazzina della sua età grazie alla musica. Appassionato di giornalismo e critica musicale, Eugene viene convinto da Anthony Braxton ad abbandonare definitivamente la penna per imbracciare lo strumento e allontanarsi dai perimetri troppo convenzionali del pop-rock. Per scampare all’arruolamento nella Guerra del Vietnam, fugge in Canada, per poi tornare a New York gravitando nella cricca di John Zorn. Amico e compagno di band del batterista Jimmy Carl Black – che lavora con Frank Zappa – Chadbourne sperimenta il più ampio spettro musicale dopo la prima cotta per i Beatles, dal country & western all’avantgarde jazz. Un profilo del genere non può certo esimersi dal lavorare con uno dei gruppi più assurdi degli anni 80.

 

Nell’estate del 1986 viene dato alle stampe il terzo disco, Camper Van Beethoven, pubblicato nuovamente dalla Pitch-a-Tent senza un produttore di riferimento. Fin dalla sua copertina, sembra quasi ovvio un velato riferimento al capolavoro beatlesianoSgt. Pepper’s”, e quando attacca la neo-psichedelia della satirica “Good Guys And Bad Guys” i nuovi “cuori solitari” dell’alternative americana sono all’apice della creatività. Lo spensierato organetto del brano è chiaramente l’ennesima provocazione verso una cultura hippie che non esiste più, proiettando la psichedelia verso nuove frontiere, proprio come il cane Lassie. Quando sul brano successivo – “Joe Stalin’s Cadillac” – il banjo di Chadbourne si lancia in una sorta di hillbilly da fuori di testa, ecco che Camper Van Beethoven (inteso come disco) si propone in realtà come il “Sgt. Pepper’s” degli anni 80, destrutturando in modalità dadaista come solo Lowery e soci sono in grado di fare.
Dalla litania folk “Five Sticks” al beat di doorsiana memoria “LuLu Land”, il disco impila in 16 tracce una babele dell’eccentricità e dell’assurdo, mescolando gighe medievali (“Une Fois”) con riff anthemici da college-rock (“We Saw Jerry's Daughter”). Come passare schioccando le dita dalla musica celtica all’acid-rock à-la Greatful Dead o al blues più riffato in stile Jefferson Airplane (“Surprise Truck”). Rispetto ai primi due dischi, Camper Van Beethoven è molto più incentrato sulla voce di Lowery, meno strumentale ma non per questo più banale. Il gruppo si diverte a decostruire in salsa mistica la zeppeliniana “Stairway To Heaven”, per poi lanciarsi in picchiata verso l’amato territorio roots americano con la piccola epopea “The History Of Utah”.
Sull’avantgarde sonica di “Still Wishing to Course”, il disco si apre come un ventaglio orientale, con atmosfere probabilmente mai raggiunte prima, dal blues di frontiera di “We Love You” al bluegrass ubriaco di “Hoe Yourself Down”. La ricerca strumentale del gruppo è sempre al centro, questa volta spingendo sul reinventare con piglio satirico la psichedelia anni 60, come nel perfetto connubio tra tastiere minimali e spoken-word lisergico di “Peace & Love” o sulla cavalcata di oltre 7 minuti di “Interstellar Overdrive”, cover meravigliosamente acida dei Pink Floyd. Poi, sul finale, la firma “Shut Us Down”, un garage-punk armonico e scintillante per ricordare all’ascoltatore che in fondo si tratta solo di rock’n’roll. O forse no.

Intermezzo I: l’arrivo dei Monaci del Destino

 

Monks of DoomDopo l’uscita del terzo disco Camper Van Beethoven, acclamato dalla critica e apprezzato dagli ascoltatori americani, diversi membri della band decidono di lanciarsi in una nuova avventura musicale. Lisher (chitarra), Krummenacher (basso e voce) e Pedersen (batteria) lasciano temporaneamente Lowery per formare il side-project Monks of Doom, con l’intento di esplorare interessi e gusti personali che non riuscirebbero a esprimere nei Camper. Al terzetto si aggrega subito David A. Immerglück, che si è fatto le ossa nella Bay Area partendo dalla chitarra – insieme al futuro frontman dei Counting Crows Adam Duritz in una band chiamata Mod-L Society – e successivamente sperimentando con strumenti meno mainstream come il mandolino e il sitar elettrico. Soprannominato Immy o Immer, Immerglück si unisce ai Monks of Doom nel 1986 per abbracciare una filosofia sonica che vorrebbe mescolare il post-punk con una estetica progressive e folk. Come spiegato dal bassista Krummenacher, “eravamo interessati nel produrre musica che andasse leggermente oltre, con tendenze più dure e progressive. Il progetto era una espansione verso il fuori, una possibilità di andare dove ci portasse la nostra immaginazione”.

 

I Monks of Doom esordiscono con una colonna sonora fittizia intitolata Soundtrack To The Film Breakfast On The Beach Of Deception, che, al di là delle indubbie qualità strumentali, è più una prova improvvisata di registrazione in studio in un marasma strumentale tra funk (“In Anticipation Of The Pope” e “Facts About Spiders”), alternative-blues (“Blues On Sunday”) e acid-rock (“Ukranian Technological Faith Dance”). Un disco slegato, che raggiunge pochi picchi, su tutti la jam “Jim Gore And The Ghost Of Missouri”, il riff in stile The Who “Save Me From Myself” e il progressive-folk di “Visions From The Acid Couch”.

 

Il vero esordio è su etichetta Pitch-a-Tent nel 1989, dal titolo The Cosmodemonic Telegraph Company, con l’inserimento di parti vocali divise tra Krummenacher e Immer. L’album è decisamente più strutturato e foriero d’intenti, a partire dall’incedere hard-progressive dell’iniziale “Vaporize Your Crystals”. Le atmosfere sono effettivamente lontane anni luce dall’assurdità dei Camper, assorbite da una serietà strumentale verso una sperimentazione estrema (“The Vivian Girls”).
I Monks of Doom hanno evidentemente consumato i solchi dei Pink Floyd (“All In Good Time”), disposti a cedere qualsiasi velleità commerciale in nome dello strumento. È un gioco a somma zero, perché da un lato la sperimentazione feroce colpisce nel segno (la sinistra e marziale “Trapped”), dall’altro finisce con lo scimmiottare le pietre angolari degli anni 70, dalla psichedelia dei Pink Floyd al Grand Guignol di Alice Cooper (“Voodoo Vengeance”).

L’occhio di Fatima

 

Camper Van BeethovenDopo il tour americano del terzo disco Camper Van Beethoven, Chris Molla lascia la band che si ritrova nuovamente in studio come quintetto. Il ruolo di Lisher come primo chitarrista diventa più saldo, evidente nel successivo Ep Vampire Can Mating Oven, pubblicato alla fine del 1987 con i produttori Wally Sound e Harry Parker. Un totale di sei brani per poco più di 20 minuti di nuova musica, dallo spensierato ritmo ska di “Heart” alla cover in salsa pop di “Photograph” (Ringo Starr). Il mini-disco è modesto e aperto a un sound più mainstream, non aggiunge granché all’estetica dell’assurdo del gruppo, perso tra la cadenza beat di “Never Go Back” e le tastiere elettroniche di “Ice Cream Everyday”. Ma i Camper non sono un gruppo banale: ecco che piazzano comunque il colpo “Seven Languages”, superba miscelazione tra psych, new wave e kraut-rock, seguito dall’affascinante loop strumentale “Processional”.

 

All’inizio del 1987 i Camper Van Beethoven decidono di accettare una fruttuosa offerta dell’etichetta Virgin Records, cedendo di fatto alle dorate lusinghe di una major. Tra l’estate e l’autunno dello stesso anno, tornano in studio, questa volta con un produttore esterno, Dennis Herring, che ha da poco iniziato la sua carriera con il disco d’esordio delle American Girls. Orfana di Molla, la band viene spinta verso una maggiore pulizia nel sound, riducendo le parti strumentali e inserendo molti più brani cantati e meno psichedelici (ovviamente) per andare incontro alla commercializzazione “suggerita” dalla Virgin. Di sicuro il quarto album Our Beloved Revolutionary Sweetheart – pubblicato nel maggio 1988 – è lontano dalle sperimentazioni folli degli esordi, ma il nuovo approccio mainstream è smorzato dalle idee sempre geniali del gruppo, che non rinuncia per nulla alla sua patchanka sonica.
Diviso in due parti, “Eye Of Fatima” è il nuovo capolavoro, tra sventagliate folk-rock e una memorabile coda elettrica in salsa raga affidata all’istrionico Greg Lisher. L’ineluttabile violino di Segel guida la versione marziale del classico degli Appalachi “O Death”, scatenandosi nel successivo pop metafisico “She Divines Water”. Anche se il nuovo approccio del gruppo è più spensierato e pulito nel sound, la cadenza mediorentale di “Devil Song” è come quel seme che germoglierà in un giardino più curato di prima. La mixology è dunque sempre al top del gusto, quando la ballad “One Of These Days” scioglie ritmo ska, violino celtico e cantato soul. Lo stesso Lowery sembra prendere le distanze dall’estetica dell’assurdo, normalizzando il suo stile, come nella fanfara punk “Turquoise Jewelry” o sul rock energico “My Path Belated”.
Il secondo lato del disco si apre con “Waka”, che si concede al riffone hard-rock nell’ottica di ampliare le schiere di fan, mentre il successivo stornello country “Change Your Mind” torna allo spirito americano già esplorato da II & III. Finale col botto, sulla polka vorticosa “Tania” e con “Life Is Grand”, che raccoglie in poco più di tre minuti alcune tra le principali caratteristiche fondanti dei Camper, dal ritmo ska agli squarci chitarristici condotti dal canto sgangherato di Lowery.
Alla prova della major il gruppo non cade, ma continua il suo percorso verso l’immortalità dell’alternative rock a stelle e strisce.

 

Apprezzato dalla critica – la rivista Rolling Stone definirà il nuovo sound della band “un party casalingo alle Nazioni Unite” – l’album viene suonato dal vivo in un lungo tour americano nell’estate del 1988. La band non ha alcuna intenzione di fermarsi, supportata dalla Virgin e dal nuovo produttore Dennis Herring. All’inizio del 1989 è in programma una nuova session di registrazioni in studio per la pubblicazione del quinto Lp, ma le differenti personalità di Lowery e Segel sono già diventate insanabili. Divisioni artistiche e personali portano i due leader allo scontro frontale, convincendo il violinista a salutare tutti per stabilirsi a San Francisco, dove fonda una band di musica sperimentale, Hieronymus Firebrain, poi riformata con il nome Jack & Jill. Ovviamente Lowery non può fare a meno di un violino per il suo sound, così assolda Don Lax come semplice musicista da studio, a cui si aggiunge Morgan Fichter, che viene effettivamente integrato nel gruppo.
Per le sedute che porteranno a Key Lime Pie – pubblicato a settembre – vengono inclusi diversi attori non protagonisti che seguiranno i Camper dal vivo, dall’organista Garth Hudson all’armonicista Hammer Smith. In sostanza, quando esce il quinto album, i Camper Van Beethoven diventano una creatura esclusivamente accudita da Lowery e Lisher (che si ritaglia un ruolo ancora più esteso) con il contributo in produzione di Dennis Herring.
Aperto dalla danza macabra est-europea “Opening Theme”, il nuovo lavoro è il più severo nell’intera discografia dei Camper, quasi a voler riflettere in musica una dissoluzione imminente. Persino i numeri più umoristici, come il superbo jingle-jangle “Jack Ruby”, sembrano pregni di un’atmosfera plumbea, prodotta dal canto monocorde di Lowery. In generale, il disco vira con decisione sulla rotta del songwriting in salsa country (la melliflua “Sweethearts”), definendo ancora di più i perimetri di una ricerca verso il roots-rock a stelle e strisce. Questo inedito approccio dark alla composizione trova un climax abbagliante nella struggente “When I Win The Lottery”, che fonde l’amato umorismo surreale con un ritmo ipnotico a base raga, Balcani e infiniti orizzonti alternative-folk. In poco oltre tre minuti e mezzo, c’è la semplice spiegazione del perché nessuna major potrà mai fermare la verve creativa del gruppo, forse troppo geniale per essere capito dal pubblico di massa.
Dalle furiose chitarre garage di “(I Was Born In A) Laundromat” allo ska di frontiera in “Borderline”, il nuovo disco scivola sinuoso sui cinquanta minuti di ascolto, arricchito da nuovi strumenti e backing-vocals, fino allo sconfinamento verso un sound addirittura orchestrale nel valzer “The Light From A Cake” o nella ballad “June”, che inizia come numero power-pop per finire in un crescendo dissonante tra l’elegiaco e il marziale. “All Her Favorite Fruit”, ispirato al libro “Gravity’s Rainbow” di Pynchon, è una dolcezza country in stile Neil Young; “Flowers” una reminiscenza psichedelica con un chorus da arcobaleno dopo la pioggia torrenziale. Poi, sul finale, il pezzo da novanta che catapulta il gruppo per la prima volta in testa alle classifiche americane: dal repertorio degli Status Quo di Francis Rossi, il violino metafisico combinato con la chitarra hard-rock di “Pictures Of Matchstick Men” ricorda la leggenda di “Who’s Next”, restituendo (in parte) a livello commerciale quello che Lowery e soci hanno dato al mondo dell’alternative in poco meno di cinque anni di musica geniale.

Intermezzo II: Cracker

 

CrackerPer un paradosso, la storia dei Camper Van Beethoven finisce qui, dopo l’ennesimo ottimo album e un singolo spacca-classifiche pubblicato con una major di tutto rispetto. Nel settembre 1989, David Immerglück – già nei Monks of Doom insieme a Lisher e Pedersen – viene invitato da Lowery a stabilirsi con il gruppo durante il nuovo tour tra Stati Uniti ed Europa. L’ultima data prevista è nella città svedese di Örebro, atto finale nella primavera del 1990. È Lowery a prendere la decisione, dopo gli addii di Molla e Segel, per ricominciare da zero e tornare all’amore per il demo tape, le prove in garage e la sperimentazione di nuova musica. Si trasferisce in Virginia, dove ritrova un vecchio amico d’infanzia, il chitarrista Johnny Hickman, con cui inizia a provare nuovo materiale. Il nome della band sarà Cracker e vedrà subito l’ingresso del bassista Davey Faragher, uno dei più quotati sulla scena californiana.

 

Ovviamente, la storia dei Camper non si cancella in un amen, cosa che permette a Lowery di contattare nuovamente la Virgin per produrre un album d’esordio nell’estate del 1991. Prodotto da Don Smith agli studios Hollywood Sounds, con il contributo dei batteristi Rick Jaeger e Jim Keltner, il disco omonimo Cracker esce nel marzo 1992, ripagando la spasmodica attesa dei fan più incalliti, ormai orfani dei Camper Van Beethoven. Ma il sound del trio è decisamente diverso dal postmodernismo surreale a cui sono abituati, perché Lowery abbandona in un solo colpo la patchanka sonica per tornare a un rock’n’roll muscolare, molto più vicino ai Guns N’ Roses che a Frank Zappa. Il nuovo inno è la robusta “Teen Angst (What The World Needs Now)”, che infatti arriva subito al primo posto della classifica Usa dedicata al Modern Rock.
Cracker venderà in tutto oltre 200.000 copie entro la primavera del 1994, guidato dalla funkeggiante “This Is Cracker Soul” che appare come una sorta di nuovo manifesto artistico per Lowery e compagni. Se da un lato viene così tracciato un sentiero verso un hard-rock sudista seventies-style – “I See The Light” in puro stile Black Crowes con un ritornello killer; “St. Cajetan” in chiave southern-blues ballad; “Satisfy You” sulla falsariga di John Mellencamp o Tom Petty – dall’altro brilla ancora la luce dell’ironia sagace dei vecchi Camper, in cui Lowery prende (e si prende) in giro il mondo intero. Si parte con il power-folk dylaniano “Happy Birthday To Me”, proseguendo sul fiume dell’alternative-country dissacrante (“Mr. Wrong”) per chiudere il cerchio con un altro omaggio stralunato al Dylan più elettrico in “Can I Take My Gun To Heaven?”. A chiudere, la struggente ballad “Another Song About The Rain” – con tanto di coro vagamente zevoniano – il power-pop “Don't Fuck Me Up (With Peace And Love)” e soprattutto il valzer “Dr. Bernice”, a ricordare un certo gusto per il freak. Considerata una intenzione così netta di scostamento dai Camper, Lowery riesce in pochissimo tempo a confezionare una band nuova di zecca, che presenta un disco robusto, divertente e ben suonato.

 

A pochi mesi dall’uscita dell’omonimo album di debutto, i Cracker si ritrovano in studio di registrazione con un obiettivo ambizioso: produrre un nuovo disco in presa diretta, dal vivo. Per farlo c’è bisogno di calma, Los Angeles non è adatta. Prendono così in considerazione una casa a Palm Springs appartenuta a Frank Sinatra, poi un teatro di posa cadente nell’area di Pioneertown, già usato in passato nel cinema per girare sceneggiati televisivi e film western a basso budget. La location è in stato di completo abbandono, ma è sufficientemente grande per fare entrare una imponente unità mobile di registrazione, in modo da chiudersi per quasi due mesi. Le sessioni iniziano in pieno inverno, tra la fine di febbraio e quella di marzo, tanto che Hickman porta dentro dei vecchi materassi per cercare di isolare la struttura dal giardino esterno. Alla batteria si accomoda Michael Urbano, nativo di Sacramento e già membro della band Bourgeois Tagg. Il risultato di tanta fatica logistica premia la band: nell’estate del 1993 esce Kerosene Hat, che schizza al top della classifica Billboard arrivando a vendere quasi mezzo milione di copie.
A livello puramente commerciale, i singoli che spingono la band sulle orecchie di mezza America sono una fusione perfetta tra chitarre grunge e cadenza alla Dylan (“Low”) e il rock’n’roll scatenato di “Get Off This”. A partire dal riff incendiario di “Movie Star”, Kerosene Hat è il disco che sancisce – e per certi versi celebra – il commiato di Lowery dai vecchi Camper per un ritorno massiccio al rock più brutale e divertente. Un album fiume, di oltre 70 minuti, registrato alla perfezione tra ballate country blues spettrali (“Kerosene Hat”), pure elegie americane in stile The Band (“Take Me Down To The Infirmary” e “I Want Everything”) e schitarrate panoramiche degne del miglior Tom Petty (“Nostalgia”).
Il disco è spassionato, onesto al limite del maniacale, figlio di un approccio un tempo intellettuale e ora trasformato in una ricerca delle radici americane per un pubblico moderno, quasi un proto-grunge. In evidenza il lavoro di chitarre e basso – la divertita “Sweet Potato” che sembra uscita dal repertorio dei Little Feat – guidati dall’inconfondibile nasalità di Lowery, a raccontare un sound americano che non esiste più o meglio può rivivere e tornare in classifica verso la metà degli anni 90. Se il ritmo da saloon ubriaco di “Lonesome Johnny Blues” può essere giustamente giudicato anacronistico, il boogie supersonico di “Let’s Go For A Ride” è adrenalina per scatenarsi sottopalco.
Alla fine, due colpi di genio: la cover ipnotica di “Loser” (Grateful Dead) e il capolavoro stralunato di oltre otto minuti “Eurotrash Girl”, che racconta le continue umiliazioni di un giovane uomo in giro per l’Europa. Il brano viene rifiutato dalla Virgin già preoccupata per l’eccessiva durata del disco, così il gruppo decide di infilarlo con il numero 69 nel gruppetto di hidden tracks insieme allo scatenato punk-rock di “I Ride My Bike” e a una breve versione acustica della title track. Con “Eurotrash Girl” Lowery piazza il suo nuovo gioiello sonico, a dimostrazione che sotto la nuova veste più mainstream c’è tanta roba.

 

Come anticipato, Kerosene Hat si rivela un successo clamoroso, portando migliaia di nuovi fan ai concerti del tour seguente, l’ultimo con Faragher che lascia inaspettatamente insieme al batterista del disco, Urbano. Lowery e Hickman assoldano Bob Rupe (The Silos) con l’aggiunta di Charlie Quintana (già con Bob Dylan) alla batteria. Dopo un cameo nel disco tributo ai Led Zeppelin Encomium, dove partecipano con una versione decisamente fedele di “Good Times Bad Times” in seguito a una giudicata “troppo strana” di “When The Levee Breaks”, i Cracker si fermano per tre lunghi anni. Tornano sulla scena solo nella primavera del 1996, quando viene dato alle stampe il disco The Golden Age con il ritorno in cabina di regia dello storico produttore Dennis Herring.
Atteso a lungo, il nuovo album non convince per nulla la critica che lo definisce “auto-indulgente, arrogante e poco ispirato”. Il primo singolo estratto è “I Hate My Generation”, che al di là di un riff decisamente riuscito non riesce a bissare la potenza dissacrante di “Teen Angst” o la fusione dylaniana di “Low”. Il ritmo indiavolato dei chitarroni di “I'm A Little Rocket Ship” e “Nothing To Believe In” mostra come la band abbia subito il peso di un fermo di tre anni, mentre i velocissimi anni 90 hanno modificato il guitar-sound per sempre.
Anche il formato ballata (“Big Dipper”) diventa fine a se stesso, così come il tanto amato ritorno al country americano (“The Golden Age”) questa volta è più una copia carbone che una rielaborazione intuitiva. Se alcuni brani sono completamente fuori fuoco – la distorta “100 Flower Power Maximum”, il chilometrico sottofondo jazzato “Dixie Babylon” o il folk intimista di “I Can’t Forget You” – altri sono decisamente più ispirati, dal blues in stile Creedence “Sweet Thistle Pie” a “Useless Stuff”, forse l’unico momento del disco in cui Lowery torna davvero ai fasti dell’alternative-rock.

 

The Golden Age è un fiasco commerciale, a distanza siderale dall’enorme successo di Kerosene Hat. I Cracker assoldano un nuovo batterista, Frank Funaro, e tornano in pista nell’estate del 1998 con Gentleman's Blues, lanciato dal singolo “The Good Life” che rispolvera il catalogo dei Camper con un robusto mix di power-pop e country alternativo. Dopo il flop del disco precedente, Lowery preferisce andare sul sicuro, tornando al roots-rock a stelle e strisce tra blues orecchiabili (“Seven Days”), atmosfere ipnotiche di frontiera (“James River”) e nuovi anthem a velocità doppia (“The World Is Mine”).
Ovviamente ben suonato, Gentleman’s Blues è il nuovo lavoro di un Lowery sempre meno ispirato, praticamente obbligato a innescare il pilota automatico per tornare alle radici americane ed evitare così figure barbine. Parliamo così di un disco onesto – il gospel di “Lullabye”, il country & western di “Trials & Tribulations”, il blues sonnolento della title track – ma privo di picchi, di brani che possano convivere serenamente con quelli dei primi due dischi. Solo il valzer circense di “I Want Out Of The Circus” potrebbe stare negli scaffali dei Camper, ma è decisamente troppo poco per un gruppo che ha promesso tanto e sta mantenendo poco dopo l’exploit di ormai cinque anni prima.

Intermezzo III: il caos non è morto

 

Mentre Lowery abbandona i Camper Van Beethoven per formare i Cracker, il resto della band ha già avviato il progetto Monks of Doom proprio per sperimentare musica propria. A due soli anni da Cosmodemonic, Lisher e soci pubblicano il successivo Meridian per l’etichetta Baited Breath, che continua la ricerca di un nuovo sound a partire da una oscura vena progressive (“Cherry Blossom Baptism”) per poi sconfinare pesantemente nel territorio del funk con “Riverbed” e “Door To Success”. Al contrario di Lowery, i Monks of Doom non hanno alcuna intenzione di arrivare al successo commerciale, perché restano ancorati a un miscuglio sperimentale di generi non sempre dal gusto preciso e liscio. Ecco che Meridian passa da cupe atmosfere alla Roger Waters (“The Traveler”) a giocate latin-ska (“Argentine Dilemma”) che risulterebbero anche importanti se fossero eseguite con maggiore convinzione. Invece i Monks of Doom vogliono solo divertirsi a suonare e sperimentare fino all’estremo, dalla giga celtica strumentale “Follow The Queen” alla lunga marcia finale “Circassian Beauty”.

 

Il 1992 è un anno particolarmente attivo per la band. Prima esce l’Ep The Insect God, suite ispirata all’omonimo libro illustrato dello scrittore statunitense Edward St. John Gorey, celebre per i suoi disegni macabri. Composto da soli cinque brani, il disco è paradossalmente il più riuscito perché completamente slegato dal formato canzone, imbevuto di atmosfere progressive in stile Zappa e perfettamente calato a livello musicale nella storia del dio insetto narrata da Gorey. Successivamente viene pubblicato Forgery,  prodotto da Dan Fredman su etichetta Irs e anticipato dal video-singolo “Flint Jack”, una sorta di pop-beat al rallentatore molto più simile ai lavori dei Camper che alle folli sperimentazioni finora intraprese.
I Monks non rinunciano al funk più strippato (“Flow”), avventurandosi in un tributo strumentale ad Astor Piazzolla (“Tanguedia”), tanto interessante quanto completamente avulso dal resto del disco. A spingere sull’acceleratore è la corposa “Dust”, che mescola ritmi hard and heavy sulla linea tonitruante del basso progressive. Giudicato da una parte della critica troppo cerebrale – una “moderna psichedelia per la smart drug generation” – Forgery è in effetti un album auto-referenziale, combinato per apparire volutamente complesso, come nelle mini-suite “Cigarette Man” e “Chaos Is Not Dead”.
Terminati i lavori per Forgery, Immerglück lascia la band per concentrarsi su altri progetti, prestando la sua chitarra al songwriter John Hiatt e poi accasarsi definitivamente nella famiglia dei Counting Crows. Partito David, Lisher e compagni decidono di fermarsi e dedicarsi ad altro, mentre Pedersen si trasferisce addirittura in Australia.

I figli del nuovo Occidente dorato

 

Camper Van BeethovenAnno 1999. A una decade dall’ultimo disco, Key Lime Pie, i Camper Van Beethoven decidono di tornare in pista, per la gioia di molti fan accaniti. Torna l’amore tra Lowery e Segel, che si rimettono al lavoro insieme per produrre nuova musica originale. I primi esperimenti sono embrionali, raccolti nel box di rarità Camper Van Beethoven Is Dead. Long Live Camper Van Beethoven, pubblicato nel 2000 dalla Pitch-A-Tent, la storica etichetta dei primi dischi del gruppo. La raccolta mescola vecchie esibizioni live remixate, demo non ancora pubblicati ufficialmente e nuovo materiale.
Dallo scatenato ritmo tex-mex “L’Aguardiente” a una versione orchestrale di “All Her Favourite Fruite”, l’album è più una chicca per intenditori che un vero e proprio disco di ritorno. Interessante la psichedelia schizoide dello Zappa di “Who Are The Brain Police?” e la marcia funerea “Klondike”, in una raccolta che sta benissimo nella discografia della band, solo forse in un momento peculiare, visto che è la prima pubblicazione subito dopo la reunion di Lowery e soci.

 

All’inizio del nuovo millennio, Segel, Krummenacher e Lisher seguono i Cracker in alcune date live, dove i fan possono ascoltare le prime canzoni dei Camper suonate dal vivo dopo la rottura. Il vero e proprio reunion tour inizia nel 2002, con l’inclusione di Immerglück, Frank Funaro e - in alcune date californiane - anche Pedersen di ritorno dall’Australia. Nello stesso anno esce lo spiazzante doppio album Tusk, un rifacimento brano per brano dello stesso disco dei Fleetwood Mac uscito nel 1979. Sulla genesi del disco c’è discordanza: alcuni membri dei Camper sostengono che sia un vecchio lavoro in studio prima del passaggio alla Virgin nel 1988. Krummenacher – che sparerà a zero sull’album – dirà che in realtà è un progetto partorito durante il reunion tour come esperimento, per capire se il gruppo fosse ancora in grado di suonare insieme e produrre materiale davvero originale. Al di là del quando e del perché, Tusk è un doppio album fiume tra versioni ska, country & western e manipolazioni d’avanguardia. Quasi un’ora e mezza per rimettere mano (in modo noioso) a un disco pubblicato oltre vent’anni prima da una band completamente diversa.

 

In seguito all’uscita di Tusk, i Camper tornano in tour negli States e danno alle stampe un’altra raccolta, il mastodontico box-set Cigarettes & Carrot Juice: The Santa Cruz Years che include i primi tre album pre-Virgin e un quarto album live risalente all’ultimo anno prima della rottura. Pare dunque che il gruppo si sia riunito più per divertimento che altro, quando nel 2004 esce New Roman Times, a ben quindici anni di distanza da Key Lime Pie, il vero ritorno sulle scene discografiche dei Camper Van Beethoven.
Pubblicato a ottobre con l’inatteso ritorno su alcuni brani del vecchio socio Chris Molla, New Roman Times è un concept-album concepito da Lowery in un universo alternativo dove gli Stati Uniti sono divisi in due nazioni ostili. Il Texas, cattolico e destrorso, contro l’utopia di sinistra della California. Il personaggio principale è un giovane texano che si arruola dopo un evento molto simile a quello del World Trade Center, pronto a perdere una gamba per il suo paese. Tornato in patria da disabile, il protagonista del disco cede al fascino dei ribelli californiani, dipinti come un mix tra hippie e surfer, guerriglieri ecologisti alleati con il Messico e con una federazione di alieni provenienti dallo spazio più lontano. “’New Roman Times’ era inteso come una sorta di commento alla finta narrativa a stelle e strisce – commenterà Lowery qualche anno dopo – emersa dai media prima della guerra in Iraq. I folli elementi cospiratori sono stati inseriti perché si trattava di un album dei Camper Van Beethoven. Il fatto che la nostra descrizione irreale del 2003 corrisponda alla realtà del 2018 dovrebbe infastidirci tutti”.
Musicalmente parlando, New Roman Times è un disco tremendamente influenzato nello stile dalle esperienze Cracker e Monks of Doom – non a caso sono arruolati anche Hickman e Immerglück – come se ormai i Camper Van Beethoven fossero diventati una sorta di entità astratta, un contenitore di musicisti e idee diverse. L’incedere hard-progressive di “Sons Of The Golden West” è più simile ai lavori dei Monks of Doom, dove l’unica nota distintiva in stile Camper è affidata al violino apocalittico di Segel. Il riffone heavy-pop di “White Fluffy Clouds” è invece più vicino ai primi due dischi dei Cracker, esattamente come la country-ballad “That Gum You Like Is Back In Style”.
Ma i fan dei Camper non devono disperare, assolutamente. Il ritorno al roots-rock dell’assurdo è segnato dalla gemma sinfonica “51/7”, mentre “Might Makes Right” fa brillare le orecchie con lo ska di frontiera, “Militia Song” si scatena a ritmo hillbilly e la velocissima “R’n’R Uzbekistan” viaggia verso l’Est Europa. Una parentesi di follia al centro di un disco che diventa nuovamente più serioso, sul progressive-rock “The Poppies Of Balmorhea” e “I Am Talking To This Flower”. Poi, improvvisamente, il lalala demenziale sulla cavalcata elettrica alla Neil Young di “The Long Plastic Hallway”, seguito dalle manipolazioni sonore di “Come Out” e dagli altoparlanti tex-mex di “Los Tigres Traficantes”.
È un disco spiazzante, New Roman Times, probabilmente sfilacciato per essere un concept-album, ma tremendamente divertente da ascoltare tutto d’un fiato, dalla psichedelia pop di “Hippy Chix” alla parodia della disco-music “Discotheque CVB”.

 

Tornati definitivamente in pista, Lowery e compagnia suonano in ogni parte degli Stati Uniti, con la data di Seattle registrata dal vivo per l’album live In The Mouth Of The Crocodile - Live In Seattle, seguito nell’anno successivo dall’Ep Discotheque CVB: Live In Chicago. La calda accoglienza dal vivo, alimentata dai fan dei Cracker, porta i Camper a scegliere la strada della super-compilation per ricordare i fasti del passato.
Nel 2008 esce infatti Popular Songs Of Great Enduring Strength And Beauty, aperto dalla surreale storia del cane Lassie che parte per la Luna. Il greatest hits contiene i grandi classici della band e presenta una peculiarità, come al solito: a causa dei pessimi rapporti con l’etichetta Virgin, i Camper decidono di registrare nuovamente alcuni brani chiave, in modo da poterli includere nel disco senza passare per la vecchia major. Tornano quindi letteralmente in vita l’hard-rock di “Pictures Of A Matchstick Men”, la cavalcata raga di “Eye Of Fatima” in un unico brano e l’infinite-folk “When I Win The Lottery”.

 

Nel 2011 inizia un breve tour in cui i Camper suonano dal vivo l’intero Key Lime Pie insieme a Immerglück, annunciando l’intenzione di registrare un nuovo disco a quasi dieci anni da New Roman Times.
La Costa Perdida esce all’inizio del 2013, prodotto dall’etichetta 429 Records e anticipato dal singolo “Northern California Girls”, che mostra subito la nuova direzione sonica, un rimando ai Beach Boys del periodo Holland. L’album presenta un folk-pop gentile e atmosferico (“Come Down The Coast”), prendendo direzioni senza strappi verso il soul della California (“Too High For The Love-In”) e concedendosi nuovamente alla psichedelia più moderata in “Someday Our Love Will Sell Us Out”.
Rispetto al concept-album precedente, La Costa Perdida non presenta guizzi creativi, finendo col perdersi anche nei numeri più alternativi, come il punk degli Appalachi “Peaches In The Summertime” o lo stornello country & western “La Costa Perdida”. A quasi dieci anni da New Roman Times sarebbe stato lecito aspettarsi di più da una band sempre sopra le righe, ma impelagata in una ricerca delle radici californiane che non riesce ad andare oltre il melenso folk-pop della finale “A Love For All Time”.

 

Avendo registrato più brani di quelli poi inclusi nel disco, Lowery e soci decidono di dare alle stampe poco tempo dopo una sorta di seconda parte, questa volta dedicata ai suoni più intriganti della California meridionale. El Camino Real viene pubblicato nel 2014 e già dal robusto incalzare di “It Was Like That When We Got Here” fa ascoltare cose migliori. Il sound è leggermente più abrasivo – il progressive-punk “Classy Dames And Able Gents” o il pop marziale “The Ultimate Solution” – e include elementi atmosferici alla Cracker (“Camp Pendleton”) e un pugno di nuove ballate country-style, da “Sugartown” a “Goldbase”. Il disco scorre via in maniera godibile, ma è ovviamente lontano anni luce dai tempi d’oro dei Camper. Tracce come “I Live in L.A.” hanno il sapore agrodolce della malinconia alternative di fine anni 80, senza picchi creativi o la tanto apprezzata verve surreale del gruppo. Lowery sembra volersi godere una meritata pensione artistica – pur cercando ancora di ruggire sulla sinuosa eleganza di “Out Like A Lion” – e surfare lento sulle onde californiane della melodia cristallina “Grasshopper”.

Finale I: l’alba sulla terra del latte e miele

 

Camper Van BeethovenLa reunion dei Camper Van Beethoven nel 1999 non ferma l’attività dei Cracker, che l’anno successivo danno alle stampe il loro primo greatest hits, Garage d’Or. L’album include alcune novità, come il power-pop “Shake Some Action” (dalla colonna sonora del film “Clueless”), una cover live del classico di Dylan “You Ain’t Going Nowhere” (con Adam Duritz) e la inedita ballad blues “Hollywood Cemetery”. Dopo l’introduzione del nuovo bassista Brandy Wood, i Cracker lavorano all’uscita del nuovo disco, Forever, prodotto dallo stesso Lowery e pubblicato all’inizio del 2002.
Aperto dalla malinconica ballata “Brides Of Neptune”, il disco risulta un flop commerciale, dividendo la critica tra chi parla di un grande ritorno e chi di un sound diventato ormai troppo mainstream. Il rock-pop “Shine” è forse uno di quegli episodi che meglio testimoniano questa divisione di vedute. Se brani come “Guarded By Monkeys” fanno tornare alla mente i vecchi, esplosivi Cracker – sulla chitarra quasi hardcore di Hickman – tracce come “Miss Santa Cruz County” e “Ain’t That Strange” sono solo un ricordo del vecchio suono americano in stile The Band.
Il nuovo obiettivo dichiarato di Lowery è quello di produrre “musica intelligente, per adulti”, ad esempio nel country-soul “Sweet Magdalena Of My Misfortune”. Una trasformazione ormai radicale per il songwriter californiano, che sembra ormai puntare al repertorio di Tom Petty, pur concedendosi delle divagazioni alternative (la drum’n’bass orientale “Superfan” e addirittura l’hip-hop “What You’re Missing”).

 

Decisamente più intrigante – ai limiti di una bizzarria geniale – il successivo O' Cracker Where Art Thou?, uscito nel 2003 con la presenza della Leftover Salmon, jam-band di Boulder, Colorado specializzata in arrangiamenti bluegrass, country e cajun. Lowery e Hickman sono gli unici due musicisti provenienti dai Cracker, che si divertono a riarrangiare in chiave bluegrass i loro successi. Da “Euro-Trash Girl” a “Low”, i classici della band prendono nuova vita con il vecchio sound dell’America rurale, operazione particolarmente apprezzata dalla critica perché puro divertimento, senza pretese. E l’ascolto vale solo per la presenza della Leftover Salmon, istituzione a stelle e strisce dal 1989 tra gli amanti della musica tradizionale. Con una versione hillbilly scatenata del primo successo “Teen Angst”.

 

Il recupero delle radici country della musica statunitense continua nello stesso anno con il nuovo album in studio, Countrysides. Pubblicato su etichetta Bmg dopo la rottura con la Virgin, il disco è in realtà una raccolta di cover, dalla malinconica “Sinaloa Cowboys” di Bruce Springsteen alle versioni di “The Bottle Let Me Down” e “Reasons To Quit” dal repertorio di Merle Haggard. Le otto tracce sono sicuramente ben suonate, ma peccano di monotonia e ripetitività perché arrangiate allo stesso modo, un country & western ormai anacronistico nel nuovo millennio. Sul finale, l’unico brano originale è “Ain't Gonna Suck Itself”, un pop-beat fresco ma completamente slegato dal resto del disco.

 

Legato ormai a due band, Lowery decide di organizzare nel 2005 un evento live di tre giorni ricorrente, il Campout, al Pappy and Harriet's Pioneertown Palace in California. Si esibiscono dunque sia i Cracker che i Camper Van Beethoven, in una grande festa con altre band sempre diverse come Built to Spill e The Bellrays. Sostituito ancora una volta il bassista – a Wood subentra proprio Krummenacher – i Cracker tornano in studio per registrare (questa volta) un vero e proprio album di musica originale. Il titolo scelto è Greenland, un non meglio esplicitato omaggio alle fredde terre del Nord Atlantico che in realtà è un nuovo viaggio sonico di Lowery a richiamare l’antica patchanka dei Camper.
Anticipato dal robusto stornello country-rock “Something You Ain't Got”, l’album è sicuramente il più ispirato dai tempi di Kerosene Hat, dal momento che la band torna in maniera brillante alla ricerca del roots-rock. “Where Have Those Days Gone”, ad esempio, è una road-song atmosferica da vento tra i capelli sulla highway; mentre l’acustica “Fluffy Lucy” ha quel sapore tipicamente alternative e lo-fi che sembra uscito da un disco degli Sparklehorse. Gradito, poi, il ritorno a trame più esotiche, sul binomio tabla e sitar della breve filastrocca “I'm So Glad She Ain't Never Coming Back” e soprattutto con la gemma “Sidi Ifni”, a metà tra blues psichedelico e sonorità raga.
Il disco è decisamente sorprendente viste le ultime uscite dei Cracker, come in “Better Times Are Coming Our Way”, con il suo dub-reggae sincopato che sembra uscito dall’ultimo Joe Strummer. Anche i numeri più hard-rock, in linea con il sound distintivo della band, sono incisivi e riusciti, dal riff oscuro di “Minotaur” a “Gimme One More Chance”, impreziosita da uno dei ricami più interessanti dalla chitarra di Hickman. Grande finale poi con “Everybody Gets One for Free”, che richiama le sonorità dei Rolling Stones con l’organo suonato alla maniera di Billy Preston. Dopo diversi esperimenti di dubbia utilità, un grande ritorno in un album vitale e appassionato.

 

L’uscita di Greenland anticipa un lungo tour, terminato nel 2007 quando la line-up dei Cracker vede l’uscita di Krummenacher e Margolis con il conseguente ingresso dell’ex-Roxy Music Sal Maida al basso. Nel 2009 esce per la 429 Records il nuovo disco Sunrise In The Land Of Milk And Honey, che riesce a entrare nella classifica Billboard 200 con più di tremila copie vendute in una sola settimana grazie al singolo “Turn On, Tune In, Drop Out With Me”, nostalgica ballad in stile college-rock inserita nella colonna sonora della serie televisiva “Californication”. Dopo Greenland, i Cracker risorgono come l’araba fenice con il nuovo lavoro in studio, che rilancia la band sia da un punto di vista commerciale che di critica.
Dopo il ritorno al roots-rock nel disco precedente, il sound è decisamente più rovente, a partire dal miscuglio tra hard e punk-rock in “We All Shine A Light”, con il contributo alla voce del co-founder degli X John Doe. Tutto il disco è suonato con i motori accesi e rombanti, dagli scarsi due minuti di furia punk losangelina in “Hand Me My Inhaler” all’altrettanto breve “Time Machine” che sembra uscita diretta dalla discografia dei Black Flag. Intrigante sin dal primo ascolto il ritmo marziale dell’iniziale “Yalla Yalla (Let’s Go)”, mentre “Darling One” rallenta sullo stile più country/pop/lo-fi dei Counting Crows (non casuale la presenza di Adam Duritz alla seconda voce). Finale esplosivo con un altro riff killer di Hickman (la title track) che chiude un ottimo lavoro, forse meno coraggioso di Greenland ma sicuramente appagante.

 

All’inizio del 2011 David Lowery si mette per la prima volta in proprio, producendo con la 429 Records l’album solista The Palace Guards. Come ampiamente ipotizzabile, l’album è un mix di brani che suonano come i Cracker o come i Camper, dal clapping country & western “Raise ‘Em Up All Honey” al tipico gusto nineties della title track, come una cartolina ricordo del tempo che fu. Lowery confeziona il disco come un vero one-man band, in rotta con le piattaforme di streaming – su tutte Spotify – accusate di aver rubato interi cataloghi senza compensare adeguatamente gli artisti. Negli spazi intimi della sua stessa abitazione, inizialmente con un Pc e poi con il contributo di una vera etichetta, David dipana le sue atmosfere psichedeliche (“Deep Oblivion”), dandoci dentro con le chitarre in stile Cracker (“Baby, All Those Girls Meant Nothing To Me”) per poi rallentare sul valzer atmosferico “I Sold The Arabs The Moon”, versione purtroppo annacquata del surrealismo geniale del suo progetto più importante e innovativo.

 

Nella primavera del 2011 viene annunciato il Campout East, da tenersi in Virginia come controparte a est del festival di tre date semplicemente noto come Campout. I Cracker continuano a esibirsi dal vivo in lungo e largo, dal 2014 senza il batterista Frank Funaro infortunatosi a un braccio. Nell’estate dello stesso anno viene organizzato un reunion tour in Cina per l’esecuzione dal vivo dell’intero Kerosene Hat, con il ritorno del bassista storico Davey Faragher e del batterista Michael Urbano.
I quattro si divertono talmente tanto insieme sul palco che decidono di tornare anche in studio per la pubblicazione del doppio album Berkeley To Bakersfield, uscito a dicembre per la 429 Records. Con oltre 70 minuti di musica, il disco è sorprendente fin dal primissimo ascolto, quando la line-up originale si lancia a manetta sull’onda sinuosa del mare californiano. Dal martellante ritmo marziale di “March Of The Billionaires” a quello supersonico pop-punk di “Beautiful”, che aprono il primo disco, “Berkeley”, interamente dedicato all’anima garage e rock and roll della band. Lowery e soci ritrovano un’alchimia che sembrava ormai perduta, nonostante gli ottimi ultimi album da Greenland in poi. Ma il ritorno di Faragher e Urbano garantisce quel sapore speziato e fresco aggiuntivo, servito sul rock di frontiera (“El Comandante” ed “El Cerrito”) e sul rock’n’roll della Baia, da “Reaction” alla bluesy “You Got Yourself Into This”. Se gli ultimi dischi dei Camper non hanno soddisfatto critica e fan, Lowery sembra concentrare tutti i suoi sforzi compositivi negli ultimi Cracker, come sul glam-boogie rollingstoniano “Life In The Big City” che farebbe battere il piede anche al più scettico degli ascoltatori.
L’album, come detto, è diviso in due, ripartendo con il titolo di “Bakersfield” sul sound di Nashville “California Country Boy”. La seconda anima dei Cracker è quella che risale sulle radici soniche a stelle e strisce, spinta dal banjo di “Almond Grove” e dalla più classica delle chitarre country in “King Of Bakersfield”. L’album è praticamente ribaltato, dalla furia elettrica alle dolcezze atmosferiche di “Tonight I Cross The Border”. A differenza di alcuni lavori passati, i nuovi brani sono decisamente tirati a lucido, ora corali e armonici (“Get On Down The Road”) ora scatenati sul ritmo hillbilly (“The San Bernardino Boy”). Un disco di una onestà esplosiva, che racchiude tutta l’essenza della band californiana.

Finale II: l’ultimo Leviatano

 

È il 2003. Dopo l’addio di Immerglück e Pedersen, i Monks of Doom tornano all’improvviso sulle scene americane con una serie di concerti. Tre anni dopo pubblicano il disco di cover What's Left For Kicks?, aperto dall’oscuro post-punk di “The 15th” (Wire). Dalla versione prog di “Light In The Sky” (Steve Hillage) al folk intimista di “Forever” (Roy Harper), l’album è un divertissement per amanti del gruppo e della musica sperimentale in generale, scorrendo via amabilmente tra lunghe cavalcate strumentali (“New Saigon” del gruppo di Portland Pell Mell), intense preghiere gospel (“The Calvary Cross” dal capolavoro di Richard and Linda Thompson “I Want To See The Bright Lights Tonight”) e riffoni hard-blues (“Oh Well, Part 1” dai Fleetwood Mac).
Sarà per la selezione insolita dei brani – “La Dolce Vita Suite” passa dal blues di Rahsaan Roland Kirk al compositore Nino Rota – o per l’eccelsa abilità del gruppo con i propri strumenti, l’album è fresco quanto originale, quasi come un disco di nuovo materiale. Con alcune chicche imperdibili, la “King Kong” dei Kinks, l’avant-rock di “Hurricane Fighter Plane” (Red Krayola) e la psichedelica “Calvary” (Quicksilver Messenger Service).

 

Dopo aver partecipato al Campout organizzato da Lowery con Camper e Cracker, la band torna dal vivo a New York nel 2009 e si chiude in studio di registrazione ben otto anni dopo, nel 2017, per lavorare al primo album di inediti dai tempi di Forgery. Il risultato è The Brontë Pin, introdotto dal mix strumentale di progressive, psichedelia e hard-blues nella mini-suite in due tempi “The Brontë Pin, Part 1 & 2”. Un ritorno alle atmosfere più oscure e sperimentali del gruppo – la pinkfloydiana “The Bastards Never Show Themselves” o il tribalismo ossessivo di “Up From The Cane” – con alcune gradite novità, in primis il desert-rock psichedelico “Duat! Duat!”.
La forma di Immerglück è buona, quando si lancia in solitaria nel folk scheletrico “Boar’s Head” o guida il progressive-funk-jazz “23rd Century Hard Bop” insieme al prezioso e sofisticato lavoro di basso di Krummenacher. Se alcuni brani del disco tornano ad antiche complicazioni (la melodica “John The Gun”), nuove tracce come “The Last Leviathan (Interpolating Rabbit's Foot)”, cavalcata tra progressive e psichedelia, si rivelano tra le migliori mai realizzate dal gruppo.

Camper Van Beethoven - Cracker

Discografia

CAMPER VAN BEETHOVEN

Telephone Free Landslide Victory (Independent Project Records, 1985)

9

II & III (Pitch-A-Tent, 1986)

8

Camper Van Beethoven (Pitch-A-Tent, 1986)

9

Vampire Can Mating Oven (Pitch-A-Tent, 1987)

6

Our Beloved Revolutionary Sweetheart (Virgin, 1988)

7,5

Key Lime Pie (Virgin, 1989)

7

Camper Van Beethoven Is Dead. Long Live Camper Van Beethoven (Pitch-A-Tent, 2000)

Tusk (Pitch-A-Tent, 2002)

5

Cigarettes & Carrot Juice: The Santa Cruz Years (Cooking Vinyl, 2002)

New Roman Times (Pitch-A-Tent, 2004)

7

In The Mouth Of The Crocodile – Live In Seattle (Pitch-A-Tent, 2004)

Discotheque Cvb: Live In Chicago (Pitch-A-Tent, 2005)

Popular Songs Of Great Enduring Strength And Beauty (Cooking Vinyl, 2008)

La Costa Perdida (429 Records, 2013)

4,5

El Camino Real (429 Records, 2014)

5,5

MONKS OF DOOM
Soundtrack To The Film Breakfast On The Beach Of Deception (Pitch-A-Tent, 1986)

5,5

The Cosmodemonic Telegraph Company (Pitch-A-Tent, 1989)

6

Meridian (Baited Breath, 1991)

6

The Insect God Ep (C/Z, 1992)

6,5

Forgery (I.R.S. Records, 1992)

5,5

What’s Left For Kicks? (Pitch-A-Tent, 2006)

7

The Brontë Pin (Pitch-A-Tent, 2018)

6,5

CRACKER
Cracker (Virgin, 1992)

7

Kerosene Hat (Virgin, 1993)

8

The Golden Age (Virgin, 1996)

4,5

Gentleman’s Blues (Virgin, 1998)

5,5

Garage D’or (Virgin, 2000)

Forever (Virgin, 2002)

5

O’ Cracker Where Art Thou? (Pitch-A-Tent, 2003)

6,5

Countrysides (Bmg, 2003)

5

Greatest Hits Redux (Cooking Vinyl, 2006)

Greenland (Cooking Vinyl, 2006)

7

Get On With It: The Best Of Cracker (Cooking Vinyl, 2006)

Sunrise In The Land Of Milk And Honey (429 Records, 2009)

6,5

Berkeley To Bakersfield (429 Records, 2014)

7

DAVID LOWERY

The Palace Guards (429 Records, 2011)

6,5
Pietra miliare
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