I’m not an optimist
I’m not a realist
I might be a subrealist
but I can’t substantiate
It was bigger than me
and I felt like a sick child
dragged by a donkey
through the myrtle
Per nulla a proprio agio. In debito piuttosto, in difetto come sempre.
Non riesce facile spingersi a immaginare il baratro di inadeguatezza in cui Vic Chesnutt sentiva di essere sprofondato, quando all’improvviso le cose iniziarono a girare per il verso giusto.
Non era mai stato un tipo da doppio guanciale, in fondo, se persino dietro un risarcimento simbolico ritrovava il suggello della carità più pelosa. Non era proprio un olimpionico in sorrisi di circostanza, forse perché le asprezze del suo scorrere disastrato avevano finito per privarlo ben presto dello smalto lucente dei conformisti. Nondimeno era una persona deliziosa, e divertente, e grata per tutto l’amore sinceramente ricevuto. Gli pesò senz’altro l’occhiata radiosa tramite cui lo star system lo accarezzò con sospetta magnanimità, una frazione di secondo e via. Non che fosse una cattiva iniziativa, quella di Victoria Williams e della sua Sweet Relief. Semplicemente la beneficienza non faceva per lui, e nel disco in uscita avrebbe avuto modo di raccontarlo:
Bene, devo ammettere che sono lusingato dalla vostra consacrazione
Così tediosa, agghiacciante
e nondimeno commovente.
Ma mentre voi mi adulate in modo maldestro
vedrò di conservare io il fastidio, per me e per voi
e me ne andrò, starò fuori tutta la notte
sotto le familiari luci fluorescenti di un Dunkin’ Donuts
Perché, vedete, non ho proprio il tempo per le carinerie
O, meglio, non è che ci sia mai andato proprio pazzo
Il precedente “Is The Actor Happy?” si era rivelato una pregevole sorpresa. In un paio di anni Vic aveva saputo ripulire la sua dimora spirituale dai fantasmi dell’autocommiserazione più sciatta. Ramazzata la polvere sui pavimenti, accatastati gli autoritratti pure non bugiardi di lui abbruttito, abbandonato o ubriaco, e regalati alle fiamme. Anche la sua musica aveva scoperto risvolti impensati, una ghirlanda pop qua e là, per offrire chiazze di colore agli spazi angusti del suo folk disadorno. Era piaciuto a tutti quel lavoro che in fin dei conti non lo tradiva. Ed era piaciuto agli addetti di un colosso industriale come la Capitol, gruppo EMI, roba da far girare la testa a un modesto indipendente abbarbicato alla sua pidocchiosa etichetta.
Intimorito ma senza darlo a vedere, Chesnutt pose una sola condizione alla label che si offriva di cambiargli la vita. Che l’album per cui stava firmando quel contratto venisse venduto in confezione cartonata, come tutte le sue precedenti opere. Un pallino su cui pareva essersi fissato con capricciosa ostinazione quasi si trattasse di un antidoto alla propria fragilità, in tempi in cui i CD arrivavano nei negozi ancora rigorosamente in case di plastica. “Detesto quegli involucri. Cadono e si rompono. E io ne so qualcosa di cosa significa essere rotti”.
Fu accontentato. Per non disattendere la fiducia in lui riposta e per non offendere la fortuna che, per una volta, sceglieva di bussare alla sua porta, fece quindi del suo meglio. Nell’anno in cui grossi calibri come Madonna, i R.E.M. o gli Smashing Pumpkins si prodigavano nel reinterpretare i suoi vecchi brani con cortesia principesca, Vic ne scriveva e registrava di nuovi per il suo LP in assoluto più ambizioso.
Lontanissimi la bassa fedeltà e il candore ingenuo di “Little”, mitigate le asperità pur grandiose di “West Of Rome”, accantonata forse per sempre la spigolosa disperazione di “Drunk”. “Is The Actor Happy?” sarebbe rimasto invece come il punto fermo su cui fissare il timone: la sostanziale riproposizione del pungente acume autobiografico nelle corde del songwriter di Athens, proiettato tuttavia in una dimensione capace di trascendere la marginale significanza del proprio tormentato esistenzialismo, per guardare oltre. In quest’ottica, “About To Choke” apriva davvero spazi per una riflessione più profonda e matura, spiragli sino ad allora impensati per un cantautore promettente ma astratto, poco calato nella realtà tangibile del suo tempo, quale Chesnutt era sempre stato. Il passo in avanti fu enorme, ma senza superare in lunghezza la gamba che si impegnava a compierlo. Anche per questo Vic volle confermare il cast e lo studio di registrazione del predecessore, limitandosi a cooptare un paio di turnisti per le decorazioni e l’amico Bob Mould tra i produttori. Stravolgere un impianto già valido anche avendone i mezzi sarebbe stata follia pura, per un autore di canzoni meticoloso ma umile come lui; industriarsi per perfezionarne le qualità prometteva invece decisamente meglio. Soprattutto assicurava di tenere ben salda la rotta, ed il senno con essa. Ecco perché il menestrello della Georgia batté per ampi tratti sugli stessi tasti delle precedenti ballate. Non sarebbe stato se stesso fino in fondo se non si fosse rivelato il consueto maestro d’introspezione, il delicato pauperista che quasi sussurrava (“Tarragon”).
Il punto di partenza rimase insomma quello di sempre per quanto, tra invettive morbide e dolente intimismo rigorosamente deviato, veniva ora ad affacciarsi sulla scena un cantastorie diretto, affilatissimo, davvero a fuoco. Che indugiava magari in una più marcata inclinazione nostalgica, ma senza compiacimenti o pose. La natura rude dell’accento e quella sua voce chioccia assicuravano di mantenere l’ascoltatore fermamente ancorato alla dimensione terrena, alla concretezza materiale del vissuto non facile di un artista paraplegico che, con la sua malandata chitarra acustica, prendeva a somigliare – paradosso dei paradossi – a un instancabile camminatore. Non poteva allora mancare un passaggio più doloroso e personale, seppur sviluppato nella prospettiva del fine auto-analista, con una consapevolezza che fino ad allora era mancata. “Hot Seat” affrontava i demoni di sempre, le tentazioni del suicidio, senza filtri o belletti, con la sola forza delle parole, potentissime, del proprio canto sgraziato e del picking scarno sulle corde di nylon. Nonostante questo, l’umore dell’album mostrava di tendere prevalentemente al radioso, agevolato non poco da un equilibrio in odore di miracolo, dalle eccezionali trame acustiche delle chitarre, i cori efficaci e una limpida meraviglia esercitata a tutto campo.
Un sound ben più rotondo che in passato, tra folk e rock delle radici, faceva di “Giant Sands” un passaggio disinvolto e bandistico, ricco di spifferi, slanci emotivi e nervosismo costruttivo. Il contributo della piccola ensemble non avrebbe potuto dimostrarsi più prezioso, col suo approdo di grande partecipazione e calore nella tranquillità, e questo valeva addirittura il doppio nel caso di “New Town”, dissertazione a tutto tondo sulla contemporaneità, le tradizioni condivise e la vita in comunità. Non uno sforzo da nulla per l’introverso Vic, e l’occasione propizia per mettere mano a uno spaccato eloquente e affettuoso, delineato con genuina attenzione agli umori e alle fragranze tipiche dell’Americana. Lo sguardo era quello di un contemplativo dotato di buon senso pratico e insospettabile entusiasmo, per quanto sempre attento a schivare le trappole della facile retorica e del logoro patriottismo alla moda.
Quella di “About To Choke” fu una prova autoriale adulta, precisa, incalzante e lontana dalle derive del pur candido bozzettismo degli esordi. Una carrellata verista capace di sopravanzare con profitto il fatalismo spietato e senza appelli di un tempo, quando il cantante malediceva con fare tetro che non vi fosse un Dio cui addossare tutt’intero il peso dei propri sbagli. “Quasi soffocando”, in fin dei conti, non era lo stesso di “Soffocare”, il titolo che l’album si sarebbe aggiudicato solo un paio di anni prima. E anche la scelta coraggiosa di quella foto in copertina, addolcita dal dinamismo fantasmatico di un tempo di esposizione accuratamente lungo, era un indizio sin troppo parlante. Parziali ripieghi contro lo sconforto più nero, un’amnistia di cui dovevano beneficiare tutti, il folksinger e i suoi affezionati seguaci. Che avrebbero avuto di che rallegrarsi nel trovarlo a riavvicinare certe stravaganze folk ascetiche (“Threads”) già sperimentate in precedenza, e non certo per vezzo ruffiano o per mero calcolo da spregiudicato manierista. La personalità di Chesnutt era in grado di imporsi comunque su qualsivoglia espediente formale e avrebbe reso inservibili le categorie di comodo o gli stereotipi nella dote di quei critici che, non a caso, fecero una fatica dannata per provare a stargli dietro, e nemmeno ci riuscirono.
Non c’era enfasi insincera in “About To Choke”, non c’erano maschere né forzature teatrali. Solo una voce liberata in volo da un cuore pieno di buchi e cicatrici, eppure forte come non mai. Non si sarebbero spiegati altrimenti, proprio nella pancia dell’album, l’ironico alleggerimento di “(It’s No Secret) Satisfaction” (con i suoi organetti sbuffanti, la drum machine, i loop e la vocetta filtrata) e soprattutto la chicca pop di “Little Vacation”, uno dei pezzi più dolci e struggenti della carriera nonché la prima occasione utile per godersi lo spasso della sua finta tromba. La vena passatista che recuperava forse per la prima volta una certa frivolezza dei sixties americani, la straordinaria interpretazione e quel clima di festoso disincanto ne fecero un’autentica gemma – nemmeno la sola – meravigliosamente estiva e vitale. I capolavori dell’album Vic li avrebbe però impiegati a mo’ di cornice, spendendo tutti assieme i gettoni al singolare della sua formidabile prima persona. In apertura il flusso di coscienza di “Myrtle”, semplice ma sorprendentemente evocativo, intimo e nel contempo emblematico della poetica dell’autore. Minimalismo e poesia simbolista fusi con la naturalezza e il respiro dei grandi. I colori dell’infanzia sulla tela di un magico autoritratto. E ogni singola parola pesata come le mattonelle sillabiche in un haiku. Quindi il ritorno agli scorci domestici nel congedo, all’amico fragile intento a scusarsi per i suoi limiti di comunicatore e incapace di registrare come questo sembrasse uno scherzo pazzesco, detto da lui, così significativo sempre e comunque anche suo malgrado, forse.
Il disco fu per Vic una laurea con lode, una confessione commovente e mai patetica.
Fu un percorso netto, ma non portò a medaglia.
Nemmeno se ne parlò molto, e allora l’opportunità venne bruciata per demeriti squisitamente altrui. Alla Capitol dovettero aver pensato di esser stati dei begli incoscienti a voler promuovere quel tizio così brutto e tristanzuolo in sedia a rotelle, ma rimediarono subito dandogli il benservito. Lui non se la sarebbe presa, tornava nel suo mondo dopotutto. Quello schietto e crudele che non regala niente a nessuno, quello dove i peana sono soltanto favole della buonanotte, giusto per non mostrarsi proprio in ambasce al cospetto di un cinismo senza confini.
Sarebbe stata dura ma se la sarebbe cavata, accompagnato per qualche tratto di strada da amici sempre nuovi e sempre più veri.
E si sarebbe anche detto fortunato, alla fine, onorato di aver recitato da protagonista nel grande romanzo della sua vita.
29/09/2013