16 Horsepower - Woven Hand

16 Horsepower - Woven Hand

Sermoni southern-gothic

I 16 Horsepower, creatura del misterioso e atipico songwriter David Eugene Edwards, sono i fautori di un genere che unisce la tradizione folk e country americana con atmosfere gotiche. Un'avventura proseguita poi da Edwards sotto le nuove insegne di Woven Hand. Resoconto di una carriera che ha visto la pubblicazione di alcuni tra i dischi più profondi e spirituali di sempre

di Francesco Buffoli, Alessandro Nalon + AA. VV.

Il contesto indie-folk contemporaneo, secondo molti addetti ai lavori, ha la stessa consistenza di un bicchiere d’acqua. Giudizio piuttosto pesante ma, ad avviso di chi scrive, in molti casi non troppo lontano dalla realtà: in fin dei conti, si tratta spesso di un revival stanco, privo di spunti di interesse e financo povero di composizioni memorabili.
Per fortuna però, come spesso accade, non mancano alcune felici eccezioni. Se si fa un piccolo passo indietro nel tempo, e si decide di mettersi alla ricerca delle radici più nobili e dei maggiori precursori del movimento, si rischia infatti di imbattersi in grandissimi artisti, solo vagamente imparentati con il revival attuale, e muniti invece di grande personalità e originalità. Artisti dimostratisi in grado di scrivere canzoni memorabili e incidere capolavori, e spesso colpevolmente sottovalutati dalla critica, che non ha colto la loro statura di "pesi massimi" e si è limitata a inserirli con disinvoltura e superficialità nell’universo indie.
Qualche nome? Basterebbe citare band come Wilco, Black Heart Procession o Okkervil River. Oppure farsi un giro dalle parti di Denver, Colorado, e chiedere dei 16 Horsepower, con ogni probabilità la band più significativa, nonché più sottovalutata, nell’intero panorama folk dell’ultimo decennio.

I 16 Horsepower nascono in California a inizio anni 90. Ma le loro radici, in tutti i sensi possibili, sono da ricercarsi altrove: e più precisamente, per l’appunto, a Denver e nelle distese che la circondano.
Responsabile della fondazione del gruppo, nonché autore di tutte le composizioni, è David Eugene Edwards, figlio di un predicatore metodista che, dopo esser cresciuto ascoltando i lunghi sermoni di nonni e genitori, a 17 anni abbandona la chiesa di famiglia per trovare una propria concezione del Cristianesimo e della spiritualità.
Questi, dopo aver girovagato per gli States cimentandosi nelle brevi ma significative esperienze di RMC (Resteless Middle Class) e Blood Flower, nel 1992 si trasferisce a Los Angeles, e qui incontra il bassista Pascal Humert e il percussionista jazz d’origine francese Jean-Yves Tola, cui presto si aggiungerà Steve Taylor, e inizia a sviluppare una personale concezione della tradizione folk-blues americana: nascono così ufficialmente i 16 Horsepower.

A metà anni Novanta i quattro musicisti hanno affinato il proprio stile, e i tempi sono maturi perché la band pubblichi il primo Ep, che, intitolato semplicemente Sixteen Horsepower, giunge sugli scaffali d’America nel 1995. Nonostante siano ancora evidenti una certa immaturità e l’incapacità di concepire composizioni realmente memorabili, il lavoro possiede tuttavia il pregio di mettere in chiaro le intenzioni della band. Edwards infatti, già nel disco di debutto, dimostra la rara capacità di convogliare tutte le esperienze maturate in giro per gli States, proponendo una personale versione delle loro più antiche tradizioni musicali, ovvero di country, folk e blues; senza tuttavia scadere, come accade con molte band contemporanee, in una mera riproposizione del tutto priva di originalità e personalità.
I 16 Horsepower, pur potendosi annoverare in qualche modo fra i precursori del folk-revival oggi in auge, dimostrano sin dagli esordi di possedere grande creatività e la capacità di plasmare a piacimento la materia su cui lavorano: la loro versione di country, folk e blues sarà particolarmente oscura, ricca dal punto di vista lirico (arricchita da riflessioni tanto di impronta religiosa quanto sulla condizione esistenziale dei più) e di grandissimo impatto e fascino.

Tutto questo emerge con prepotenza 12 mesi più tardi, quando la band incide e pubblica, per la A&M, il suo primo autentico capolavoro, intitolato Sackloth&Ashes. Il disco, già maturo e perfettamente riuscito, porta a compimento quanto abbozzato con il precedente Ep, ammiccando a tutte le tradizioni rurali degli Usa, e imponendosi come degno prosecutore della scuola dei maggiori cantautori della provincia americana.
A sorprendere è in primo luogo la forte religiosità delle liriche, le quali, retaggio dell’educazione familiare di Edwards, consentono di abbozzare paragoni illustri (ad esempio, con il Nick Cave di "The Firstborn Is Dead"). Ma a stupire è altresì il profumo di "wrong side" dell’immaginario a stelle e strisce che si respira lungo tutti i 14 brani del disco, e che non può non richiamare i grandi cantautori maledetti d’oltreoceano, Tom Waits in primis. Il tutto, condito da un tocco di lirismo (Leonard Cohen), da atmosfere morbose degne dei Joy Division, e da un’epica punk degna dei migliori Gun Club (omaggiati apertamente con la cover di "Fire Spirit" nel 1997). La strumentazione arcaica richiama, infine, band come Violent Femmes o Pogues, ma qui l’atmosfera è decisamente differente e meno "solare".
La ricetta dei 16 Horsepower è, in definitiva, particolarmente suggestiva, e riesce incredibilmente a suonare come unica e originale, nonostante l’impronta "roots" che la contraddistingue. Edwards si dimostra cantautore di grandissimo talento, abile nel rielaborare sonorità e atmosfere roots (con tanto di strumentazione antica: banjo, bandeon), e abile soprattutto nel concepire ballate intese, dal sapore tradizionale e pregne d’America sino al midollo, oltre che arricchite da linee melodiche pregevolissime e da un’interpretazione da brivido.
Qui sta la grandezza della band: i 16 Horsepower riescono nell’impresa di suonare moderni e al contempo evocano mondi ancestrali e tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. I loro pezzi sono dotati di un fascino arcano e straordinario, di una forza seduttrice quasi sciamanica: richiamano i grandi spazi della frontiera così come la tradizione del Delta, ricordano i sermoni dei predicatori più invasati, così come le preghiere più umili dei vinti e degli esclusi d’America e di tutto il mondo.
"I Seen What I Saw", canzone introduttiva, pare in tal senso emblematica: l’incedere marziale della batteria accompagna una melodia, costruita su poche note contigue, declamata quasi fosse il severo ammonimento di un folle predicatore. Il tutto mentre gli altri strumenti costruiscono trame oniriche di grande impatto, riportando alla memoria non solo tutto il background culturale di cui sopra, ma anche il folk più "acido". "Black Soul Choir" è costruita su una solida ritmica in 4/4 e sulle impetuose cavalcate del banjo, e regala la seconda melodia impeccabile, con tanto di controcanto nel ritornello. "Haw" vanta invece la collaborazione di Gordon Gano dei Violent Femmes al violino, ed è un’altra ballata dalle tinte noir che immerge lentamente l’ascoltatore in un marasma di suoni. In alcuni momenti, sembra che Jeffrey Lee Peerce sia tornato fra noi, tanto l’impostazione vocale di Edwards ricorda quella del leggendario performer dei Gun Club.
Le rimanenti composizioni si muovono lungo le medesime coordinate, e a un primo impatto possono apparire piuttosto omogenee. In realtà, il lavoro cela altre perle pregevolissime e degne di nota: basti ascoltare l’elegante e sinistra polka di "American Wheeze", o i demoniaci ¾ di "Harm’s Way", vero e proprio valzer dei dannati, impreziositi entrambi da eleganti fraseggi di violino e fisarmonica. Il disco si chiude sulle note di "Strong Man", ballata costruita intorno a pochi accordi e dall’andamento rilassato, ma al contempo straordinariamente intensa ed epica: Edwards conclude il suo primo capolavoro confermandosi cantautore di grande talento, in grado di evocare immagine arcane e straordinariamente affascinanti.

Nel 1997, Edwards e soci pubblicano il loro secondo lavoro, l’ottimo Low Estate. Alla sua realizzazione collabora in qualità di violinista e chitarrista elettrico Nordlander, mentre la produzione viene affidata a John Parish, anch’egli in grado di cimentarsi con gli strumenti più vari e di contribuire all’arricchimento del lavoro in fase di arrangiamento.
Il disco, pur confermandosi su livelli più che buoni e mostrando una band in piena forma e straordinariamente eclettica (questa volta si guarda anche all’universo folk-rock e alla tradizione spiritual e gospel), perde in parte la magia e l’equilibrio che avevano contrassegnato il debutto, e rischia in alcuni momenti di snaturarsi e di smarrirsi.
Non che vengano meno, in ogni caso, le canzoni memorabili: basti dare un ascolto all’introduttiva "Brimstone Rock" che, con il suo giro di banjo tipicamente blues cui presto si aggiunge una chitarra elettrica, conferma quanto di buono la band aveva realizzato solo un anno prima e, al contempo cerca con successo di intraprendere nuove vie.
Il country&western scatenato di "My Narrow Mind", con la sua melodia ariosa, sembra aprire un varco di luce fra le tenebre del disco, e segnare un momento di rottura con le atmosfere decisamente oscure del precedente lavoro; ma si tratta di una quiete illusoria: il varco infatti si richiude immediatamente con la title track, straordinaria ballata dalle tinte funeree arricchita da un arrangiamento più complesso (con tanto di fisarmonica, xilofono, violino). "Dead Run" è un altro macabro blues dagli umori spiritual, impreziosito dalla solita intensa interpretazione di un Edwards in grandissima forma. La lunga (oltre 5 minuti) "For Heaven’s Sake", con i suoi riff "pesanti", si avvicina con decisione all’universo folk-rock, mentre la conclusiva "The Partisan" è un enfatico spiritual al pianoforte, con tanto di solita eccellente interpretazione dell’autore, ancora una volta capace di conferire grande pathos a tutto ciò che canta; il testo inoltre, conteso fra l’inglese e il francese, sembra voler chiamare a raccolta tutto l’immaginario più macabro messo a disposizione dagli stati meridionali degli Usa, e conferma il debito di Edwards nei confronti dei vecchi bluesmen che per primi l’hanno raccontato. Da segnalare, infine, come l’album comprenda una riuscitissima cover di "Fire Spirit", omaggio del cantautore al proprio grande idolo nonché massimo ispiratore, Jerey Lee Pierce.

Bisognerà aspettare tre anni per avere finalmente il capolavoro assoluto dei 16 Horsepower. La parola capolavoro qui non è usata a sproposito, tale è Secret South (titolo del loro quarto disco), un album maestoso e dalla profondità abissale, degno di stare alla pari di qualsiasi classico del rock.
Il disco non è stato (e tuttora non è) capito, spesso è considerato come un passo falso nella loro discografia, a causa di una produzione che rinuncia agli spigoli delle sonorità più spartane di Sackcloth’n’Ashes in favore di una maggior pulizia nel suono. Questa non è certo una scelta casuale o di mercato: Secret South è il disco di un altro gruppo, di un altro Edwards, un’opera che abbandona il fascino quasi artigianale degli esordi in favore di una forma canzone d’atmosfera, più intimista e fortemente passionale.
Difficile, se non impossibile, trovare negli ultimi anni un lavoro di pari profondità, immediata schiettezza e sincerità, un disco talmente abissale e intenso da togliere il fiato; mai Edwards era arrivato (e arriverà nei lavori successivi) a tali picchi di coinvolgimento, capacità di scrittura e introspezione. Quest’ultima è proprio la via per avvicinarsi a Secret South, che è qualcosa di più di un disco, è un lungo itinerario che esplora l’animo umano nella sua grandezza, che sembra rispecchiarsi negli illimitati spazi aperti del "Sud segreto" che questa musica riesce a evocare.
Ad aprire le danze è la scalmanata cavalcata southern-rock di "Clogger", una canzone semplicemente perfetta in ogni singolo aspetto (ritornelli, pause, arrangiamenti, effetti…) che costituisce uno dei pochi momenti animati del disco, ritornando al furore quasi punk degli esordi. Negli accordi finali viene liberata tutta l’energia che nel prossimo pezzo verrà negata.

I'm just a poor wayfaring stranger
Travelin' through a world of woe
Ain't no sickness, toil, nor danger
In that bright land to which I go

Così recita il testo della successiva "Wayfaring Stranger", il manifesto dell’album: una sorta di diario di viaggio (fisico e spirituale), recitato con voce filtrata su un giro di banjo, con suoni elettronici in sottofondo, quasi a imitare l’eco del vento.
Da qui in avanti, il disco è una continua discesa verso il fondo, un vero buco nero. A seguire è infatti "Cinder Alley", con un ritornello di pura catarsi e dei passaggi di violino (anche a cura della figlia di Edwards e della sua insegnante di violino!) a sottolinearne la malinconia.
Ogni pezzo è una storia a sé: i testi e le atmosfere ricreano un oppressivo senso di solitudine, accompagnato da quell’attrazione morbosa verso la campagna e il fascino che essa esercita. Si prosegue con "Silver Saddle", con arrangiamenti in lontananza, persi nel vento, tra le note del piano che scandisce il lamento di un Edwards sempre più vicino a un predicatore.
Dopo l’abisso ("Burning Bush" e "Poor Mouth"), sembra esserci uno spiraglio di luce, con "Praying Arm Lane", con un altro bel giro di banjo e un ritmo concitato a dare un po’ di colore a un disco che nel mood ricorda un vecchio quadro scolorito. E’ un attimo brevissimo: subito comincia l’epico (e sublime) crescendo di "Splinters", sorta di "vaso di Pandora" che sprigiona tutti i fantasmi di Edwards sotto forma di una malinconia disturbante. C’è spazio anche per una cover di Bob Dylan, "Nobody ‘Cept You", che viene rivisitata secondo lo stile unico dell’album, e per un ulteriore pezzo di eccezionale cantautorato noir, "Strawfoot".

Dopo il capolavoro, Edwards non produrrà più materiale dello stesso livello (sarebbe stato assai difficile del resto), pur lasciando una manciata di ottimi lavori, sia a nome 16 Horsepower che a nome Woven Hand (così si chiama il side-project che avvierà nel 2001).

Gli ultimi lavori a nome 16 Horsepower sono Hoarse e Folklore: due dischi di tutto rispetto che dimostrano la classe e la caratura del gruppo.

Hoarse (pubblicato nel 2001) documenta un’esibizione dal vivo del 1998, e attesta tutta la carica live del gruppo, che riesce addirittura a migliorare le già di per sé esaltanti canzoni che comparivano nei primi due dischi. Sono presenti alcune cover (sempre suonate dal vivo), che mettono a nudo alcune delle loro maggiori influenze: "Fire Spirit" del Gun Club, "Bad Moon Rising" dei Creedence Clearwater Revival e "Day Of The Lords", dei Joy Division. Ogni brano (sia gli inediti, sia le cover) raccolto in questo live sembra splendere di luce propria e trovare la sua perfetta realizzazione, sfoggiando una carica irresistibile e una drammaticità senza eguali, grazie alla splendida voce di Edwards.

Folklore è il capitolo conclusivo della discografia dei 16 Horsepower, uno struggente disco di addio che tenta di approfondire il lato più oscuro e gotico di Secret South.
Pur non arrivando alle vette espressive del predecessore, Folklore riesce a ricreare un’atmosfera funerea e quasi mistica, accennata già dal brano di apertura "Hutterite Mile", uno dei loro pezzi migliori di sempre, una canzone di una desolazione impressionante. Il resto del disco contiene inediti e soprattutto cover (fenomenale quella di "Alone And Forsaken" di Hank Williams), tutte rivisitate nel mood sepolcrale dell’album, che diventano così piccoli capolavori di cantautorato "dark". Non è un disco fondamentale, ma gli arrangiamenti curatissimi, l’interpretazione passionale di Edwards e gli splendidi testi lo rendono un lavoro sincero e commovente, ideale chiusura di una delle migliori parabole della musica rock degli ultimi anni. Sfortunatamente il disco non ha avuto successo (complice il fatto che la maggior parte dei brani sono rivisitazioni di pezzi altrui), nemmeno tra i fan di vecchia data del gruppo, sempre più distanti dalla via intrapresa dai 16 Horsepower nelle ultime prove.

Tra i side-project del gruppo il più noto è Woven Hand, che vede coinvolto proprio David Eugene Edwards. Si tratta di un progetto solista del cantante, inizialmente nato come gruppo parallelo, poi come progetto principale: con esso Edwards tenterà di proseguire il suo percorso spirituale attraverso la musica. Pur non avendo lasciato capolavori o dischi rivoluzionari che eguagliassero i migliori 16 Horsepower, i Woven Hand hanno composto alcuni lavori di sorprendente umanità e spiritualità, confermando tutto il talento del loro leader e la sua qualità della sua scrittura, come autore di testi, melodie e arrangiamenti.

Le prime due prove del neonato gruppo non sono, però, all’altezza delle aspettative: l’omonimo Woven Hand ritorna sui passi dei 16 Horsepower, ma non riesce a rievocarne le atmosfere, né propone melodie e canzoni degne degli standard dell’autore. Edwards tenta di creare un’atmosfera quasi mistica con il cerimoniale di "My Russia" o con la lenta "Blue Pall Fever", due pezzi onesti che però non riescono più a sorprendere; gli episodi migliori sono quelli meno coraggiosi e più diretti, come il robusto country-rock di "Glass Eye", ma appaiono poco significativi, se si considera che sono stati scritti dal creatore di "Black Soul Choir" e "Clogger". La sensazione che si avverte è quella di una carenza di idee nuove, di una stanchezza compositiva: brani come la cover di "Ain’t No Sunshine", "Last Fist" e "Story And Pictures" non sono che pallide imitazioni del sound di Secret South e Folklore. Un disco privo di grandi difetti, ma per nulla ambizioso e piuttosto scialbo.

Blush Music, commissionato da una compagnia teatrale belga, contiene riedizioni di canzoni passate, rilette in un’ottica più sperimentale e avanguardista, con collage sonori e campionamenti. I buoni momenti ci sono, ma il risultato generale è estremamente dispersivo.

Quando sembrava che Edwards non avesse più nulla da dire, eccolo dare alle stampe il suo terzo disco a nome Woven Hand, che è forse il suo migliore album dai tempi di Secret South. Cessate le pretese sperimentali di Blush Music, stavolta Edwards si dedica alla cosa che meglio sa fare: scrivere canzoni di altissimo livello.
E’ molto difficile infatti trovare punti deboli nella struttura di Consider The Birds, un disco che si rivela estremamente fresco e compatto, riuscendo a sposarsi con la rinnovata energia di Edwards, capace di esprimere con una veemenza mai vista il suo senso di religiosità e la fermezza del suo credo; una fede risoluta che si rispecchia nelle liriche dai toni altisonanti e cupi ("Listen Judgement will not be avoided by your unbelief/ By your lack of fear/ Nor by your prayers to any little idol here", canta Edwards in "To Make A Ring"). Lo spettro dei 16 Horsepower si aggira in tutto il disco, ma per fortuna i Woven Hand non tentano di seguire le loro orme, piuttosto sono alla ricerca di una nuova strada, che culmina in un cantautorato estremamente peculiare ed espressivo (è sufficiente sentire la già citata "To Make A Ring", una danza tribale pervasa da un’aura mistica). I pezzi forti della raccolta sono l’impeccabile opening track "Sparrow Falls", l’intimista "Chest Of Drawers" e la stupenda "Tin Finger", con un Edwards così intenso da sembrare posseduto.
Consider The Birds è una delle migliori prove della carriera di Edwards, un lavoro diviso tra la sperimentazione e un songwriting rivolto alle radici della canzone folk americana, ma che trova unità e coerenza nell’atmosfera cupa che ogni pezzo ricrea alla perfezione.

Dopo un disco così bello e interessante, Edwards commette però l’errore di ripetersi in Mosaic. Non mancano anche qui buoni pezzi, ma a latitare è l'originalità: difficile scrollarsi di dosso un senso di déjà-vu durante l’ascolto. "Truly Golden" possiede l’atmosfera dei migliori momenti di Edwards, ma nemmeno la metà del loro valore; "Bible And Bird" scorre innocuo, così come "Dirty Blue". Nonostante la carenza di svolte sostanziali, però, non manca la personalità: "Winter Shaker" esaspera la componente gothic della loro musica, con una batteria quasi tribale, e l’esoterica "Elktooth" - con tastiere in primo piano e ritmi poderosi, quasi industrial – sembra delineare una nuova via; purtroppo, non spesso songwriting e sperimentazione coincidono, è il caso di "Slota Prow – Full Armor", in cui il gruppo perde la bussola, e non sa più dove andare a parare.
Nel complesso è un disco pregevole, sopra la media, ma che fotografa un gruppo indeciso tra l’esplorazione di nuove forme e il ritorno a istanze già consolidate.
Dischi minori come Mosaic confermano comunque lo spessore di Edwards come musicista di grande integrità, lontano da ogni compromesso con mode e tendenze.

Nel 2008 i Woven Hand pubblicano Ten Stones, che certamente non marcherà uno step importante nella ricerca sonora di Edwards, come il primo omonimo o, soprattutto, come Blush Music, ma segna comunque un cambiamento abbastanza netto rispetto a Mosaic. Chiamati alla produzione Daniel Smith dei Danielson e Emil Nikolaisen dei Serena Maneesh, il disco scorre con una certa linearità, ed è molto più roccioso - o rock se volete - dei predecessori tanto da ricordare in più di un frangente i 16 Horsepower, quelli di Secret South soprattutto. Le chitarre per dire, suonano sature di distorsioni, più che avvolgenti come in passato mentre, fatta eccezione per “Iron Feather” e per la bellissima cover del classicone “Quiet Night Of Quiet Stars” di Antonio Carlos Jobim, mancano quasi del tutto quei rintocchi atmosferici che avevano reso così peculiare la musica di Woven Hand finora.
E poi ogni volta si ascolta un disco di Dave Eugene Edwards sembra che la fine del mondo sia di lì a un passo dal realizzarsi. Così l’iniziale “The Beautiful Axe”, “Not One Stone” e “White Knuckle Grip” sono i classici midtempo furibondi alla 16 Horsepower, talmente sferzanti e declamatori che paiono schiodare Cristo dalla croce. Tuttavia è sempre il suo songwriting indemoniato a fare la differenza - diciamoci la verità, superiore di almeno due spanne alla media dei cantautori attuali - soprattutto nei prezzi più lenti e meditabondi (“Cohawkin Road”, “Horsetail), mentre a chiudere il cerchio pensano gli incubi sudisti alla Erskine Caldwell di “Kingdom Of Ice” e “His Loyal Love”. Una nota di merito particolare va alla tenuta complessiva del disco. Se gli album precedenti, infatti, presentavano qualche caduta di tono, Ten Stones mostra una qualità uniforme per l’intera durata. E che il Signore sia con noi.

The Threshingfloor (2010) segna un netto ritorno alle origini e non a caso è di nuovo registrato nella natia Denver, in Colorado, città con esplicita dedica alla quale il lavoro si chiude con uno stralunato boogie nel quale la voce ebbra di Edwards affoga tra le note accentate da un battito di mani decisamente glam.
Anche per la produzione di questa piccola gemma, torna dietro al banco della regia Robert Ferbrache, già suonatore di chitarra lap steel nei 16 Horsepower e proprietario degli studi Absinthe, a Denver, appunto.
Straordinaria la title track, epica, ricorda certa new wave post-punk dell'area di San Francisco, che ancora conservava qualcosa di hippie, di fine anni 70, guidata da una chitarra ostinata e oscura, degna del più trascendente Jesus Acedo prigioniero in deserti mesopotamici, in contrasto con atmosfere sospese tra neofolk e psichedelia come in "A Holy Measure", venata di suggestioni lisergiche. "Sinking Hands" apre l'album nel segno di un country-folk cupo e luciferino. Atmosfere etniche pellerossa, percussioni tribali a battere, pulsazioni sinistre e foriere di oscure imminenze epifaniche, un po' come accade nei Current 93 di David Tibet, specie in brani ove un arpeggio sulla chitarra acustica accompagna in lande assai perigliose, come in "Singing Grass", tra le tracce migliori dell'album. Tamburi primitivi percossi con incalzante progressione aprono la nuova epica di "Behind Your Breath" e pelli ancor più tese vibrano pelviche assieme al basso ostinato nella tesa "Truth", cover dei New Order, percorsa da caldi venti mediorientali, suonata con urgenza interpretativa. Ancora psichedelia e onde lisergiche nella colta "Terre Haute", o nell'arcana "Orchard Gate".
Pur collocandosi tra le opere più riuscite e certamente ispirate della sua produzione, questo sesto album di Edwards calca l'acceleratore su quel senso sacro malato, perversamente allegorico, che - nonostante l'esser cristiano praticante - dà del nostro suggestioni messianiche decisamente crepuscolari. Di questa specie è certamente "Raise Her Hand", liturgica a cominciare dal titolo. Più solare e diretta, "His Rest" potrebbe essere un singolo perduto, almeno nelle apparenti intenzioni.

Nel 2012 i Woven Hand si ripresentano con The Laughing Stalk, ed era dalla vertiginosa “The Beautiful Axe” di Ten Stones che David Eugene Edwards non ci regalava un’apertura così. Addobbando i quattro cavalieri dell’Apocalisse come se fossero cowboy (o piuttosto Cherokee, a sentire le grida di caccia finali) al servizio di Sergio Leone, DEE si lancia con la sua nuova band – rinnovata dall’arrivo di Chuck French (chitarra) e Gregory Garcia jr. (basso) – in una delle sue espressioni più intense e potenti dal punto di vista del suono, forse la più vicina alle pulsioni dei 16 Horsepower (la title track su tutte).
Insomma, DEE ci consegna qui, probabilmente, il suo disco più “in forma” dai tempi di Consider The Birds, sconfessando tutto quel bagaglio di evocazione acustica, di riverbero fiacco, che zavorrava l’ultimo The Threshingfloor, nel quale il Nostro sembrava metter su l’abito talare, trasformandosi da sciamano cavalcante “a pelo” a sacerdote acciaccato.
Il lavoro fatto dalla band e dal produttore Alexander Hacke – degli Einstürzende Neubauten – è davvero impressionante. The Laughing Stalk è definito, non a caso, album “in forma” per l’intensissimo muro sonoro creato, composto con precisione e potenza dal dimenarsi bestiale delle sue chitarre, dal tambureggiare forsennato della batteria, richiamo tribale in “Coup Stick” e “Maize”; non ultimo, dal vociare imperioso di Edwards, con interpretazioni forse ancora più lucidamente allucinate del solito (ancora nell’invocazione di “Maize”, pezzo stupendo con tema pianistico che percorre timidamente il risuonare percussivo, anche di chitarra).
Rombi motoristici introducono il country-punk di “As Wool”, mentre il tema della radiosa “In The Temple” – che si erge sulle ceneri di quello distrutto in “Not One Stone” – si rivela curiosamente orientaleggiante. Poi si finisce a contemplare il rituale sacrificale di “Closer”, pervaso di pulsioni ataviche e di quella tensione alla rappresentazione qui amplificata dal forte elemento percussivo, che spegne gli altri strumenti, a eccezione di un sottile riverbero e dell’inquietante tema di viola.
Insomma un disco di quelli che “si impongono” per pura forza bruta, nella potenza della propria espressione e della propria evocazione, un disco che schiaccia sulla sedia e fa tabula rasa delle proprie remore e diffidenze, agguantando l’ascoltatore per il bavero. Quasi un’esperienza fisica, in fondo.
Ormai non dovrebbero esserci dubbi: David Eugene Edwards ha recuperato l’equilibrio di una volta.

E’ in viaggio, non si è mai fermato, il passo è quello di sempre. La frontiera scelta come campo d’elezione si conferma sterminata, come le astrazioni della sua natura errabonda, ben contrastata e alla costante ricerca di un eremo da cui contemplare il cielo. E continua a proporre Americana da ossa e nervi, folk primordiale, country nerissimo ed espressionista, accreditando chi trovi sensato accostare l’aggettivo “gotico” all’universo yankee. Se la sua musica ha incontrato un’eccelsa trascrizione visuale, è in “There Will Be Blood” che si deve continuare a cercarla: nelle sue tensioni, nel suo manicheismo di grana grossa, nella polvere lasciata sul terreno dall’umana miseria. Ten Stones puntava a recuperare e tradurre in urgenza creativa tali spunti, The Threshingfloor tendeva a rielaborarli in chiave spirituale, per mostrarne senza incertezze la sostanziale attualità nell’ambito della fede, lontano anni luce dagli stereotipi tristi del rock cristiano, insofferente al cattivo catechismo e agli insulsi intenti moralistici delle maestranze clericali con chitarra e amplificatore.

E’ in questa fase che ha saputo esprimersi in tutta la sua pienezza la vocazione all’incontro con universi musicali apparentemente molto distanti per svelare affinità impensabili, come quando un puntiglioso bouzouki affiorava dalle tenebre per scandire la litania della misericordia. Anche nel nuovo Refractory Obdurate (2014) si riaccendono a tratti quelle sottili suggestioni mediorientali ed esteuropee in episodi magari stizzosi, gravati da ombre angosciose e come in preda a una febbre devozionale (“Salome”), oppure più fragili e ugualmente misteriose (“Obdurate Obscura”): turbamento e anelito alla luce convivono magistralmente in una prova di cantautorato desertico dalle inattese inflessioni mediterranee. E che dire allora del vizietto di DEE nel flirtare con l’ascetismo dei nativi d’America, quasi si trattasse di un moderno sciamano? Non si è perso anch’esso, e ne è una prova l’accigliato e ribollente esorcismo che chiude l’album. Nessuna contraddizione, solo la ricerca di una via nuova a un misticismo senza tempo, capace di stillare concretezza e sentimento contemporanei da salmi antidiluviani o di dissolvere in respiri limpidi le asprezze di quella sua scorza da profeta.
Già, la limpidezza. The Laughing Stalk riproponeva al suo meglio l’inflessione declamatoria e le tinte nette del visionario, il piglio coriaceo del fervente. Qui avviene con minor frequenza, magari quando un magnifico ordito acustico si offre come intelaiatura per nuovi slanci sermoneggianti che rappresentano sempre Edwards al massimo della forma, agre, pungente e irrequieto come un puledro selvaggio (“The Refractory”): atmosfere non certo inedite ma che, con una tale pienezza di suono e galvanizzate da tanto ardore, destano ancora una discreta impressione. Rispetto al recente passato c’è però più nerbo elettrico e si bada molto più al sodo, privilegiando un’impronta scarna e non di rado brutale (emblematico l’assalto punk che chiude “Masonic Youth”), sfrondando del superfluo il songwriting, limitando i ricami decorativi e, semplicemente, affondando il colpo. Inevitabile che si rinunci a qualcosa in termini di nitore e concretezza, ma così indomito e selvatico il disco guadagna qualche punto, se possibile, sul versante dell’istintualità. Già qualche attimo prima, in realtà, si aprivano le danze con un bel pezzo vibrante, in straordinario equilibrio tra tellurica irruenza (il finale superbamente incendiato) e grande vigore lirico.
Mentre le pelli dei tamburi scandiscono la marcia, scorci bruciati fanno da teatro a un’altra possente recita del predicatore, stentoreo e sanguigno anche quando – spesso – insista a voler filtrare la sua voce, caliginosa, impoverita e forse un po’ troppo frenata dal credito in bianco concesso agli stessi vecchi cliché di un tempo. Più spesso i brani sono infiammati da sontuose increspature elettriche e irrobustiti nei calibri ritmici come un mare grosso e oltremodo incombente. “Good Shepherd”, “Hiss” e “Field Of Hedon” sono frammenti di granito cinti dall’aura arroventata delle volute rumoristiche, vento caldo di un vitalismo che torna a farsi esasperato. La firma è di Wovenhand (ora è così, una parola sola) in tutta la sua veemenza, realtà torrida, feroce e inesorabile in maniera persino sublime. Fascia tra i capelli, mosca albina, cetra cornuta: oscuro, febbrile, ardente, imperturbabile, folle, arcano, intransigente Edwards, il santone che riscrive – agevolato da ritmi arrembanti, assistito da arrangiamenti poveri ma affilatissimi – la sceneggiatura per le future processioni del cuore nero (con buona pace dello spirito affine Pall Jenkins).

Per raccontare la musica di David Eugene Edwards sono già stati versati fiumi di parole e, si sa, le consuete etichette lasciano con lui un po’ il tempo che trovano. Per ragioni tanto espressive quanto pratiche, non possiamo nascondere la tentazione di un copia e incolla alla pari dalla recensione del precedente Refractory Obdurate (2014) cui rimandiamo i meno avvezzi alla sua arte visionaria e tutti coloro che si fossero persi per qualche ragione l’ultima puntata del suo serial. In effetti la lista delle novità, dopo una mezza rivoluzione heavy che aveva avvicinato l’Americana tutta nervi di Wovenhand al post-hardcore di Daniel Higgs e dei suoi Lungfish (e persino al metal-core e al post-punk), si riduce nel caso di Star Treatment (2014) a un cambio di etichetta negli Stati Uniti (dalla Deathwish del Converge Jacob Bannon alla Sargent House), alle session registrate presso l’Electrical Audio di Steve Albini a Chicago e alla sola new entry dell’esperto Matthew Smith, già compagno del frontman nell’ultimo lavoro a firma Crime & The City Solution. Per il resto, conferme piene per il produttore Sanford Parker e per le preziose maestranze, in testa i due Planes Mistaken For Stars, Sir Chuck French e Neil Keener (chitarre e synth, rispettivamente).
Il titolo di questa decima raccolta del gruppo, da intendersi come richiamo alle pratiche astrolatriche, pone l’accento sull’estrazione da moderno sciamano del cantante statunitense, enfatizzandola. Vale come sincero stupore rivolto al creato, al cosmo nero bagnato di stelle come alla più umile e tormentata terra. E se il formulario e la tempra sono sempre gli stessi, l’artista del Colorado, a tratti ruggente, riesce comunque a ottenere il massimo dalla propria classicità, offrendo all’ascoltatore scenari a tinte fosche, scatenando tempeste elettriche o, più placidamente, incantando con le sue ineguagliabili evocazioni millenaristiche. Il nuovo “Folklore” di DEE passa dai rutilanti barbagli della Rickenbacker di “Crook And Flail”, spogliata della gioia quasi pop delle ascendenze jangle per ritrovarsi condannata a un ruolo di sinistra, allucinata cassandra, in compagnia di un piano, quello di Smith, degno del Cave più tetro: un altro numero di sussultante atmosfera che merita di essere accluso a un repertorio ormai sterminato.
Sin dalla tellurica chiamata alle armi di “Come Brave” – un’invocazione al sole, in realtà – “Star Treatment” parrebbe volersi configurare come opera dai risvolti apocalittici, aspri e impetuosi, anche più del predecessore. Gli scenari sono ancora quelli aridi e scorticati di un Hugo Race, abitati da spifferi d’irrequietezza, vampe, clangori, velenose animazioni (“Go Ye Light”), e resi più profondi dall’ottimo lavoro ritmico (a base di tonanti percussioni) del fido Ordy Garrison. A dirla tutta non ha torto, però, chi ha rilevato come il Nostro si stia evolvendo in una sorta di versione pia del pagano Michael Gira. “Swaying Reed” si muove infatti dalle parti dei maligni (e narcotici) esorcismi di marca Swans. Forse l’incontro nella polvere tra le inquietudini di stampo biblico e l’acceso animismo dei nativi americani non è mai stato tanto armonico, e poco importa se lo scotto di questa sintesi abbia poi le fattezze, rigonfie e tenebrose, di un prolungato incubo sonoro, o se per riuscire ancor più credibile Edwards sia chiamato a mimare i vaneggiamenti di una mente minata e sgretolata, poco per volta, dalla febbre. Quel che è certo è che l’esperienza offerta da un nuovo Wovenhand, al netto dei facili preventivi, si rivela ogni volta più mesmerizzante. A questo giro è concesso ben poco spazio alle divagazioni etniche, all’esotismo curioso. “Crystal Palace” rilascia però echi imprevisti dalla notte dei primi Cure (una subdola incursione in zona “A Forest”), poi volturati a sorpresa in positivo ma senza schiodarsi dal registro teatrale à-la “There Will Be Blood”. In quest’ottica spetta alla magnifica “The Hired Hand”, perfetta concretizzazione del verbo gothic-country, la quintessenziale elezione al trono: agra, declamatoria, inesorabile, memore delle più esaltanti cavalcate dei 16 Horsepower, perché in 20 anni e più si sono avvicendate le stampigliature critiche ma la ricetta non è cambiata granché. Il vento soffia forte sul deserto e disegna vortici di sabbia, senza scalfire lo sguardo ancestrale di Edwards su quel volto lavorato nel bronzo.
Altrove le cadenze si dilatano. Il baritono, filtratissimo, si profonde magari in una specie di brivido salmodiato (“The Quiver”), ennesima preghiera che brama la redenzione e non si fa problemi a barattare la composta estasi devozionale per un nuovo fortunale ascetico; oppure rinuncia al magnetismo d’ordinanza e si perde in vaghe meditazioni senza sangue e senza mordente come “All Your Waves”, perché dalla densità alla rarefazione è sempre un passo. Fino alla fine Edwards si mantiene serafico e inafferrabile nei propri corposi soliloqui spirituali, mentre attorno il subbuglio è totale e, apparentemente, senza ombra di fausti auspici. In realtà il congedo di “Low Twelve”, pur aspro e caliginoso come da copione, non intende prestare il fianco a una disperazione di comodo e preferisce la strada dell’ennesimo straniamento fideistico per trascendere il reale, così come in “Golden Blossom” il sole torna a fare breccia nell’oscurità, preannunciando nuove fioriture e un’armonia tanto ammaliante quanto inattesa. D’altro canto è stato già scritto infinite volte, non solo a proposito di questo talentuoso espressionista della canzone: le tenebre non hanno diritto di cittadinanza nell’arte se non in stretta correlazione con la luce, e la notte stellata non ha eguali come (eterno) promemoria.

Il successivo album Silver Sash (2022) giunge dopo un periodo di lungo silenzio, David Eugene Edwards questa volta non ha rispettato la cadenza biennale del progetto Wovenhand, restando fuori dal circuito per ben sei anni, dei quali quattro trascorsi a sperimentare nuove soluzioni espressive, frutto di un serrato dialogo creativo con Chuck French dei Planes Mistakes For Stars.
La forte componente religiosa e la natura apocalittica dei testi non hanno perso vigore o smalto, ma è evidente che gli anni della pandemia hanno influito non poco sulla genesi di “Silver Sash”. Una più ricca componente elettronica e un’energia più tipicamente psych-rock, hanno in parte stemperato il solenne misticismo, a favore di un tono più confessionale e pragmatico. Questa lieve semplificazione concettuale apre le porte a selvagge incursioni a metà strada tra post-rock e industrial (“Dead Dead Beat”), pronte a tracimare verso un nichilismo in chiave Swans/Scott Walker (“The Lash”).
La struttura delle canzoni è apparentemente meno solida, scelta creativa che va a tutto beneficio delle intense e intelligentemente definite partiture sonore. L’epica e granitica “Temple Timber” detta da subito le coordinate di un viaggio nell’oscurità, che non teme potenziali ostacoli narrativi, abilmente affrontati con sferzanti riff (“Sicangu”) e variazioni sul tema gothic-folk dal seducente e diabolico fascino (“8 Of 9”).
Un trittico di canzoni più solidamente ancorate alle distorsioni rock-noise del passato - “Acacia”, “Omaha” e la temeraria ”Duat Hawk” - risveglia antichi ardori e regala qualche asperità a un disco decisamente più cupo e ricco di oscuri presagi, un progetto compatto ma raramente ripetitivo o titubante, un’altra prova di coerenza e integrità artistica che di questi tempi suona quasi come un trionfo.

La discografia dei 16 Horsepower, di cui Edwards è senz’altro la figura di spicco, e alcune prove a nome Woven Hand sono la dimostrazione tangibile di un talento sconfinato, che, senza azzardo, potrebbe figurare tra i massimi cantautori viventi, o, quantomeno, tra i pesi massimi del rock degli anni 90.

Contributi di Antonio Ciarletta ("Ten Stones"), Massimo Marchini ("The Threshingfloor"), Lorenzo Righetto ("The Laughing Stalk"), Stefano Ferreri ("Refractory Obdurate" e "Star Treatment"), Gianfranco Marmoro ("Silver Sash")

16 Horsepower - Woven Hand

Discografia

16 HORSEPOWER
16 Horsepower (Ep, Ricochet, 1995)

6

Sackcloth’n’Ashes (A&M, 1996)

8

Low Estate (A&M, 1997)

7

Secret South (Glitterhouse, 2000)

9

Hoarse (live, Glitterhouse, 2001)

7

Folklore (Jet Set, 2002)

7


WOVEN HAND
Woven Hand (Glitterhouse, 2002)

6

Blush Music (Glitterhouse, 2003)

5,5

Consider The Birds (Glitterhouse/ Soundsfamilyre, 2004)

7,5

Mosaic (Glitterhouse, 2006)

6,5

Ten Stones (Soundsfamilyre, 2008)

7

The Threshingfloor (Glitterhouse, 2010)

7.5

The Laughing Stalk (Glitterhouse, 2012)

7.5

Refractory Obdurate (Glitterhouse, 2014)

7

Star Treatment (Glitterhouse, 2014)

7

Silver Sash (Glitterhouse, 2022)

7

Pietra miliare
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