Chi mi conosce, sa quanto io ami le gatte da pelare. Chi mi conosce male sostiene che io lo faccia per via di un'atavica frustrazione, dettata da non si sa bene cosa. Chi mi conosce bene sa altrettanto bene che lo faccio per un'unica motivazione: la ricerca della notizia.
In sé per sé, l'uscita del nuovo disco dei Converge, tutto è fuorché una notizia. Facendo i musicisti, e non i pizzicagnoli, dal 1990, è normale che il gruppo di Salem ogni tanto sforni un disco. Sarebbe una notizia se si mettessero a fare sculture di carta vetro. Invece continuano a pubblicare dischi (in media) ogni tre anni.
"All We Love We Leave Behind", edito lo scorso 9 ottobre, segue questa consolidata trafila. Allora, vi starete chiedendo, dove sta la gatta da pelare, e dove la notizia? La gatta da pelare è che i Converge ormai hanno uno zoccolo duro di fan che, per ottusità e idolatria, è secondo solo a quello del Teatro degli Orrori (e certe uscite qui e lì, per assurdo, non sono neanche troppo dissimili tra le due band). La notizia è che questo disco è poco più che un riempitivo, in una discografia arenatasi dieci anni fa.
In un passato ormai remoto il significato “di maniera” aveva un'accezione positiva; divenne poi trasformato in “manierismo” fin dai secoli XVII e XVIII, assumendo una connotazione decisamente negativa. I manieristi erano infatti quegli artisti che avevano smesso di prendere a modello la natura, secondo l'ideale rinascimentale, ispirandosi esclusivamente alla “maniera” dei tre grandi maestri del Rinascimento: Da Vinci, Michelangelo e Raffaello.
I Converge, che con il Rinascimento hanno ben poco a che spartire, fanno un'ulteriore capriola di senso mica da ridere: posizionato in "Jane Doe" (Equal Vision, 2001) il proprio spannung evolutivo, da lì la loro opera è stata così progressivamente banalizzata come sterile ripetizione dell'apice raggiunto, veicolata spesso da un'alterazione del dato di fatto per mezzo delle solite note facce-da-culto. Le uniche rimaste disposte ad arrampicarsi sugli specchi, pur di salvare il salvabile – e mettere i “quasi 9” all'ennesima dimensione parallela della band.
"All We Love We Leave Behind" ha una title track che potrebbe diventare un nuovo inno per tutte le teenager con velleità hard-core e dura in tutto meno di quaranta minuti, come "You Fail Me" (Epitaph, 2004): queste le uniche differenze riscontrabili rispetto agli ultimi lavori. Per il resto è intransigenza pura. Ennesima prova glaciale, come la copertina anticipa alla perfezione, per una band senza pietà e senza redenzione (“Aimless Arrow”). Il solito Ben Koller dall'incedere poderoso (sentite il finale della conclusiva “Predatory Glow”) trascina la musica verso scenari epidemici (“Empty On The Inside”) e apocalittici (“A Glacial Place”).
Concessioni alla melodia nessuna, se non per il minuto e mezzo strumentale di “Precipice” e la febbrile “Coral Blue” nella quale, nei suoi quasi cinque minuti, si concede a Jacob Bannon di adagiarsi con maggiore varietà nei suoi deliri. Poi si torna senza fiato con “Shame In The Way” e così via.
Tutto molto bello. Peccato solo che questa potrebbe benissimo essere una disamina valida per tutti gli ultimi quattro dischi (non buoni quanto "Jane Doe", seppure simili a "Jane Doe"). Se siete tra i fan-atici non farete senz'altro fatica a goderne, ma se siete fan-atici non avete neanche bisogno di recensori e recensioni.
02/11/2012