Ormai non dovrebbero esserci dubbi: David Eugene Edwards ha recuperato l’equilibrio di una volta. E’ in viaggio, non si è mai fermato, il passo è quello di sempre. La frontiera scelta come campo d’elezione si conferma sterminata, come le astrazioni della sua natura errabonda, ben contrastata e alla costante ricerca di un eremo da cui contemplare il cielo. E continua a proporre Americana da ossa e nervi, folk primordiale, country nerissimo ed espressionista, accreditando chi trovi sensato accostare l’aggettivo “gotico” all’universo yankee.
Se la sua musica ha incontrato un’eccelsa trascrizione visuale, è in “There Will Be Blood” che si deve continuare a cercarla: nelle sue tensioni, nel suo manicheismo di grana grossa, nella polvere lasciata sul terreno dall’umana miseria. "Ten Stones” puntava a recuperare e tradurre in urgenza creativa tali spunti, “The Threshingfloor” tendeva a rielaborarli in chiave spirituale, per mostrarne senza incertezze la sostanziale attualità nell’ambito della fede, lontano anni luce dagli stereotipi tristi del rock cristiano, insofferente al cattivo catechismo e agli insulsi intenti moralistici delle maestranze clericali con chitarra e amplificatore.
E’ in questa fase che ha saputo esprimersi in tutta la sua pienezza la vocazione all’incontro con universi musicali apparentemente molto distanti per svelare affinità impensabili, come quando un puntiglioso bouzouki affiorava dalle tenebre per scandire la litania della misericordia. Anche nel nuovo “Refractory Obdurate” si riaccendono a tratti quelle sottili suggestioni mediorientali ed esteuropee in episodi magari stizzosi, gravati da ombre angosciose e come in preda a una febbre devozionale (“Salome”), oppure più fragili e ugualmente misteriose (“Obdurate Obscura”): turbamento e anelito alla luce convivono come sempre magistralmente in una prova di cantautorato desertico dalle inattese inflessioni mediterranee, penetranti anche quando non entri in gioco la proverbiale enfasi dell’artista.
E che dire allora del vizietto di DEE nel flirtare con l’ascetismo dei nativi d’America, quasi si trattasse di un moderno sciamano? Non si è perso anch’esso, e ne è una prova l’accigliato e ribollente esorcismo che chiude l’album. Nessuna contraddizione in fondo, solo la ricerca di una via nuova a un misticismo senza tempo, capace di stillare concretezza e sentimento contemporanei da salmi antidiluviani o di dissolvere in respiri limpidi le asprezze di quella sua scorza da profeta.
Già, la limpidezza. “The Laughing Stalk” riproponeva al suo meglio l’inflessione declamatoria e le tinte nette del visionario, il piglio coriaceo del fervente. Qui avviene con minor frequenza, magari quando un magnifico ordito acustico si offre come intelaiatura per nuovi slanci sermoneggianti che rappresentano sempre Edwards al massimo della forma, agre, pungente e irrequieto come un puledro selvaggio (“The Refractory”): atmosfere non certo inedite ma che, con una tale pienezza di suono e galvanizzate da tanto ardore, destano ancora una discreta impressione. Rispetto al recente passato c’è però più nerbo elettrico e si bada molto più al sodo, privilegiando un’impronta scarna e non di rado brutale (emblematico l’assalto punk che chiude “Masonic Youth”), sfrondando del superfluo il songwriting, limitando i ricami decorativi e, semplicemente, affondando il colpo.
Inevitabile che si rinunci a qualcosa in termini di nitore e concretezza, ma così indomito e selvatico il disco guadagna qualche punto, se possibile, sul versante dell’istintualità. Già qualche attimo prima, in realtà, si aprivano le danze con un bel pezzo vibrante, in straordinario equilibrio tra tellurica irruenza (il finale superbamente incendiato) e grande vigore lirico.
Mentre le pelli dei tamburi scandiscono la marcia, scorci bruciati fanno da teatro a un’altra possente recita del predicatore, stentoreo e sanguigno anche quando – spesso – insiste a voler filtrare la sua voce, caliginosa, impoverita e forse un po’ troppo frenata dal credito in bianco concesso agli stessi vecchi cliché di un tempo. Più spesso i brani sono infiammati da sontuose increspature elettriche e irrobustiti nei calibri ritmici come un mare grosso e oltremodo incombente. “Good Shepherd”, “Hiss” e “Field Of Hedon” sono frammenti di granito cinti dall’aura arroventata delle volute rumoristiche, vento caldo di un vitalismo che torna a farsi esasperato.
La firma è di Wovenhand (ora è così, una parola sola) in tutta la sua veemenza, realtà torrida, feroce e inesorabile in maniera persino sublime. Fascia tra i capelli, mosca albina, cetra cornuta: oscuro, febbrile, ardente, imperturbabile, folle, arcano, intransigente Edwards, il santone che riscrive – agevolato da ritmi arrembanti, assistito da arrangiamenti poveri ma affilatissimi – la sceneggiatura per le future processioni del cuore nero (con buona pace dello spirito affine Pall Jenkins).
Chi se lo fosse perso dal vivo, provveda a rimediare. Queste nuove canzoni non aggiungeranno nulla a un’avventura già tanto coerente e peculiare, ma promettono di tradursi sul palco in un’esperienza autenticamente mesmerica, l’ennesimo irresistibile incantesimo del vecchio DEE.
13/05/2014