Ci sono personaggi per i quali la bassa fedeltà è qualcosa di molto più che una semplice necessità data dalla ristrettezza dei mezzi: è una vera e propria dimensione dell'anima. Mettete loro a disposizione tutte le risorse che si potrebbero desiderare per la realizzazione di un disco, e la loro musica finirà col perdere il proprio fascino più sincero.
Così, da quando il nome di Vic Chesnutt ha cessato di essere un culto per pochi intimi, il geniale songwriter di Athens non sembra aver più raggiunto il livello di capolavori come "West Of Rome", "Drunk" e "Is The Actor Happy?" o del suo lavoro di debutto con una major, "About To Choke".
Non c'è quindi da stupirsi che, dopo gli alterni risultati della collaborazione con i Lambchop per il concept-album "The Salesman and Bernadette" nel 1998 e dopo la pubblicazione di una raccolta di rarità ("Left to his own devices") e di un connubio con il duo Kelly e Nikki Keneipp ("Merriment"), il ritorno di Vic Chesnutt sia affidato a un disco di ottima fattura, ma che raramente riesce a toccare quelle corde segrete dell'animo che un tempo gli risultava così facile tormentare.
Registrato in una dozzina di giorni in uno studio dell'omonima località californiana, "Silver Lake" si avvale dell'apporto di una vera e propria band e della produzione di Mark Howard, ma il risultato è quello di un suono fin troppo patinato per permettere alla voce intensa e pungente di Vic Chesnutt di esprimere tutta la sua terribile autoironia.
I nuovi brani del cantautore americano, giunto ormai alla soglia dei quarant'anni e confinato su una sedia a rotelle a causa di un incidente stradale fin da quando ne aveva diciotto, godono di un'atmosfera più solare che in passato, pur senza rinunciare a versi pieni della consueta e sarcastica inventiva letteraria. E' tuttavia la veste musicale di anonimo "roots rock" che le avvolge ad andare decisamente stretta alle sfumature del songwriting di Chesnutt, tanto da far preferire i momenti più scarni del disco a quelli che cercano di trovare una maggiore ricchezza strumentale, tra echi di Tom Petty e di CSN&Y.
Il tono dimesso che introduce l'iniziale "I'm through" e che si innalza nel crescendo del chorus lascia infatti ben presto spazio alle poco convincenti armonie vocali westcoastiane di "Stay inside" e alle chitarre acide di "2nd floor", di ispirazione dichiaratamente Crazy Horse.
La sensazione è quella di trovarsi di fronte più a un nuovo capitolo del progetto parallelo dei Brute, nati dalla collaborazione tra Chesnutt e la band southern rock dei Widespread Panic, che non a gemme grezze del calibro di quelle che nel 1996 spinsero gente come R.E.M., Smashing Pumpkins, Sparklehorse e persino Madonna (!) a dedicare a Vic Chesnutt lo splendido album-tributo "Sweet relief II".
Molto meglio, allora, il tono di sorridente nostalgia di "Band camp", lieve e arguto come certi brani dell'ultimo Paul Simon, o il divertente dialogo-siparietto tra universo maschile e femminile di "Girl's say". Non mancano anche stavolta episodi eccentrici, come "Zippy Morocco", introdotta da percussioni e archi arabeggianti, che narra le avventure di un marinaio "with nobody to send exotic postcards to", e soprattutto la lunga "Sultan, so mighty", in cui un languido falsetto dà vita ai pensieri di un eunuco tra le donne dell'harem, che può comprendere gli intimi segreti femminili con una profondità che al potente sultano non sarà mai paradossalmente concessa.
Il gioiello del disco è però racchiuso tra gli arpeggi acustici e la morbida melodia di "Styrofoam", con i suoi interrogativi che emergono prepotentemente dall'abisso: "So raise your hand/ and ask yourslef a question/ but make it the powerful one".
Dietro l'apparente spensieratezza dei coretti pop di "Fa-La-La", degni dei R.E.M. di "Out of time" (non a caso è stato proprio Michael Stipe a scoprire il talento del suo concittadino Chesnutt…), si svela il contrasto tra il senso di prigionia di un letto d'ospedale e la leggerezza di una misteriosa figura femminile, capace di donare una tale grazia a quel luogo da rendere insopportabile persino l'idea di tornare alla propria casa.
Ma in "Silver Lake" la struggente consapevolezza del limite e l'inestricabile complessità dei rapporti umani non sono mai l'ultima parola e si trasformano alla fine in un orizzonte di sicura speranza. "In my way, yes", con il suo gioco di domande e risposte con il coro, è una dichiarazione di fiducia nella vita e nella sua inesorabile positività: "Bursting into song at first light/ sharing breakfast from one plate/ holding hands over loved ones graves/ do you think you deserve it?/ I say yes, in my way, yes".
Affidato soltanto alla voce e alla chitarra di Vic, avrebbe potuto essere un disco da ricordare.
27/10/2006
1 I'm through
2 Stay inside
3 Band camp
4 Girl's say
5 2nd floor
6 Styrofoam
7 Zippy Morocco
8 Sultan, so mighty
9 Wren's nest
10 Fa-La-La
11 In my way, yes