When you catch the light, the flood changes direction
and darkens the lens that projects by the skies
As you fly alongside you'll discover my weakness
I'm not fighting for your freedom
I am fighting to be wise
Non devono essere stati anni facili per Neko Case, questi ultimi. Dopo lo scintillante successo e le due nomination ai Grammy di “Middle Cyclone”, ormai quasi un lustro fa, soltanto l’apparizione nell’ultimo dei New Pornographers e qualche comparsata in lavori altrui. La morte di entrambi i genitori e di una nonna cui era molto legata l’ha sprofondata in uno stato di sconforto che è trascolorato presto in vera e propria depressione. Il nuovo disco, intimamente autobiografico, è la reazione a questa lunga fase di torpore emotivo, un risveglio che ha i contorni dell’esorcismo e per il quale la cantante ha voluto con sé un nutrito cast di amici musicisti (diversi membri del supergruppo canadese, i Calexico al completo, M. Ward, Steve Turner, Marc Ribot, Tommy Larkins, Howe Gelb, il grande Steve Berlin e Tracyanne Campbell, a ricambiare la visita di cortesia della virginiana nel recente Camera Obscura) oltre a una terna di produttori d’eccezione, tra cui Craig Schumacher e Tucker Martine. Inevitabilmente, ora che il tornado raccontato in precedenza sembra essersi placato, Neko sceglie di soffermarsi su di sé e sul senso di perdita (“There’s no mother’s hands to quiet me”, canta nel brano d’apertura), pur non rinunciando alla rivendicazione della propria dimensione più selvatica, l’istintualità. “Wild Creatures” è l’immediata conferma delle sue doti: con sensualità misteriosa e confidenziale, la rossa di Alexandria ritrova la dimensione a lei più congeniale, merito anche di un sound al solito corposo, del dinamismo e la ricchezza degli arrangiamenti e della sua interpretazione ancora una volta calda, volitiva, pur senza strafare o eccedere in pose troppo affettate. Tralasciando voli pindarici e architetture inutilmente lambiccate, o riuscendo piuttosto a far apparire tutto assai più semplice di quel che è nei fatti, la Case ammalia con naturalezza invidiabile, sobria ma risoluta e per nulla superficiale.
Tra delicati sussurri e slanci di puro estro, la statunitense intrattiene con classe immutata dando il meglio di sé grazie alle sfumature del suo canto magico, specie quando – in più di un refrain – si esprime in una serie di impennate oltremodo pregevoli. Il suo sonar prende letteralmente corpo verso la fine (“Where Did I Leave That Fire”) e non può fare a meno di imbattersi in qualche ombra, con la fragilità di chi si senta disarmato all’improvviso, tutt’attorno l’incombere minaccioso di un oceano di solitudine. C’è però l’orgoglio a riscattarla, il suo proverbiale carattere, così le suggestioni restano luminose in virtù di una voce limpida e potente che nella tranquillità sembra davvero potere tutto. Il seducente numero di virtuosismo a cappella di “Nearly Midnight, Honolulu” ne è la prova tangibile, visto che è proprio quella benedizione vocale (unita alla perizia delle altre tre interpreti e del fidato A.C. Newman) a permetterle di sconfiggere i propri dolorosi fantasmi, qui rappresentati dal vuoto ma altrove dalla pienezza persino invadente di sonorità e strumenti perentori, per quanto orchestrati a meraviglia come sempre. Tra parentesi d’elegante intimismo (“Night Still Comes”, il quadretto raccolto e tradizionalista di “I’m From Nowhere”) e episodi più incalzanti come “Man”, elettrizzato dai formidabili ricami del chitarrista dei Mudhoney, si prefigura una discreta varietà di opzioni formali con il solo convincimento che sia ormai lontanissima la cifra alt-country degli esordi, rimpiazzata da un sontuoso pop-rock opportunamente non compromesso da tentazioni radiofoniche e modaiole.
E’ il clima turgido ma morbido, lussureggiante, di “Bracing For Sunday” a rappresentare l’ideale comfort zone in cui giostrare con la massima disinvoltura, mentre altrove si fanno apprezzare soluzioni in parte inattese, sigilli tutti assieme di una performer di razza: l’essenzialità sghemba ma fascinosa di “Afraid” (l’unica cover del disco, dalla Nico di “Desertshore”), dove è il tono da placida ninnananna a incantare davvero; il mirabile folk al cristallo di “Calling Cards” (con i delicati interventi di Bo Koster al Wurlitzer e alla fisarmonica diatonica), convincente prova d’artigianato in cui la bella grafia non ha modo di togliere forza all’appassionata scrittura della virginiana. “The Worse Things Get, The Harder I Fight, The Harder I Fight, The More I Love You” si configura allora come un’opera infarcita di dettagli espressivi gustosi e, nel contempo, come una nuova declinazione di grandissimo temperamento per il cantautorato al femminile. Restano rimarchevoli le fragranze acustiche su cui svettano gli svolazzi cantati dell’autrice, sensazionale nel non andare mai sopra le righe anche in fatto di gusti e miscela stilistica.
Tantissimi strumenti si incontrano senza fare a pugni, senza inzavorrare il songwriting o farlo scivolare nell’enfasi barocca, nel kitsch. Non era facile, considerate le premesse, ed è la riprova della maestria della Case. Manca forse il pezzo da knock-out tecnico ma l’insieme si conferma di alto profilo, privo di giri a vuoto o riempitivi sfacciati. La fantastica apoteosi conclusiva di “Ragtime” – ospiti i “trombettieri” della famiglia Calexico, Wenk e Valenzuela – certifica la qualità superiore del lavoro e della sua ideatrice, tornata sugli standard d’eccellenza della deliziosa bomboniera “Fox Confessor Brings The Flood”.
Rispetto al passato c’è meno visceralità, e questo era un fattore da mettere in conto. L’equilibrio tra tutte le forze in gioco evidenzia tuttavia una giustezza, un’armoniosa maturità, che a questi livelli prima era forse mancata. Il risultato è quindi un album intenso ma preciso, alimentato da quella saggezza preziosa che Neko ha inseguito a lungo e per approdare alla quale ha dovuto vestire i panni della combattente. Il rimedio cruciale, evidentemente, nei giorni non facili della propria afflizione.
09/10/2013