Maggio 2012. Sul palco del Barbican di Londra, e a seguire su quello del Primavera Sound di Barcellona, va in scena l’omaggio a un uomo e a un musicista che ha segnato la vita di molti. Sicuramente di tutti coloro che sono lì in quel momento. C’è Mike Mills dei Rem, un gruppo che forse senza i Big Star non sarebbe mai esistito, o comunque sarebbe stato molto diverso. C’è Norman Blake dei Teenage Fanclub, che dei Big Star sono stati la versione anni Novanta, fino al punto di intitolare un album con il nome di una loro canzone. C’è Jody Stephens che nei Big Star è stato fin dall’inizio, e ci sono Jon Auer e Ken Stringfellow, che hanno contribuito a farli rinascere. C’è Chris Stamey, che conobbe quell’uomo nei suoi anni più disperati diventandone amico per sempre.
Ci sono i Wilco e gli Yo La Tengo, Robyn Hitchcock e persino Ray Davies, l’ultimo con il quale l’omaggiato ha condiviso la traccia di un disco ("Till The End Of The Day", ironicamente su un tributo a Davies di un paio di anni fa). Ci sono giovanissimi come Sharon Van Etten e Django Haskins. Non c’è, purtroppo, Paul Westerberg, che con i Replacements gli dedicò un brano magnifico, chiamato proprio come lui. Quando nel finale arriva una corale "Thank You Friends" (ma forse il titolo è da intendere al singolare) la commozione rompe gli argini, e qualcuno ha gli occhi lucidi. Li capisco, nel mio piccolo. Se mai ho avuto un eroe musicale nella vita, uno solo, quello si chiamava Alex Chilton.
Won’t you tell your dad ‘get off my back’/ tell him what we said ‘bout Paint it Black
Rock’n’roll is here to stay/ Come inside where it’s ok
(Thirteen, Big Star)
Come dice il titolo di uno dei libri più belli mai dedicati a una città e alla sua musica, it came from Memphis. Cosa? In termini musicali, più o meno tutto. O almeno, tutto quello che conta. Da Elvis agli Oblivians, in più di mezzo secolo da queste sponde del Mississippi sono stati lanciati alcuni dei segnali sonori più importanti per la definizione della popular music americana. Oltre alle leggende locali - il Re, certo, ma anche Sam Phillips, la Stax, Booker T, la Hi, per arrivare fino a… ahem… Justin Timberlake - intorno a Memphis hanno gravitato per periodi più o meno lunghi delle loro carriere personaggi come Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, B.B. King, Howlin’ Wolf, Isaac Hayes, Al Green. Per non parlare dei visi pallidi inglesi che hanno provato a succhiare un po’ della magia del posto registrandovi dei dischi, da Dusty Springfield ai Primal Scream agli Spiritualized. Qualcuno a Memphis è andato anche a morire, come Jeff Buckley.
Oggi è probabilmente impossibile cogliere il genius loci aggirandosi tra i negozi acchiappaturisti di Beale Street o andando in pellegrinaggio kitsch a Graceland, ascoltando in localacci senz’anima qualche gloria blues sopravissuta o visitando quel che resta degli studi della Sun o della Stax. Ma quello di Memphis resta comunque un romanzo avvincente. E proprio come un romanzo è stato raccontato in libri come "Sweet Soul Music" di Peter Guralnick e quel "It Came From Memphis" - l’autore è Robert Gordon - cui si è accennato all’inizio.
Centro urbano più popoloso del Tennessee con i suoi quasi 700.000 abitanti, la città ha una popolazione per due terzi composta da neri, ai quali si deve aggiungere una non piccola percentuale di ispanici. Eppure la minoranza bianca, trasferitasi in massa nei sobborghi durante le tensioni razziali degli anni Sessanta, ha contribuito in modo decisivo alla creazione di quel meraviglioso ibrido sonoro che cuoce nello stesso pentolone r’n’b, blues, soul, rock’n’roll, country e swamp. Se esiste un luogo negli Stati Uniti in cui l’integrazione ha funzionato, se non altro a livello artistico, quello è proprio Memphis. Neri e bianchi assieme a fondare etichette, mettere su studi di registrazione, creare esemplari immortali di southern music. L’esatto contrario di Nashville, insomma. Tristemente ironico, e per certi versi simbolico, che ciò sia accaduto nello stesso posto in cui è stato ammazzato Martin Luther King.
Quando il reverendo di Atlanta muore sotto i colpi di un fucile a ripetizione, il 4 aprile del 1968, William Alexander Chilton ha diciassette anni e canta in uno dei gruppi pop più famosi del momento. Nato il 28 dicembre del 1950 in un quartiere della vecchia Memphis, con un imprinting di boheme artistica già immaginabile dalle professioni dei genitori (padre jazzista, madre gallerista), Alex bazzica fin da piccolo i locali più malfamati della midtown, gravitando spesso intorno agli studi della Ardent.
È lì che fa conoscenza di altri teenager innamorati come lui della nuova onda rock britannica (Elvis e il suo pelvis erano già roba per vecchi: le nuove divinità davanti alle quali i ragazzini si genuflettono si chiamano Beatles, Stones, Yardbirds, Who, Kinks). Tra questi, un certo Chris Bell, venuto al mondo quindici giorni esatti dopo Chilton nel sobborgo bianco e borghese (il padre possiede un ristorante bene avviato) di Germantown. Si ritroveranno proprio lì, alla Ardent, qualche anno più tardi.
Prima di quel momento fatidico, che segnerà l’inizio dell’epopea Big Star, il giovane Alex si imbarca nell’avventura Box Tops. Una cosuccia da niente: qualche milione di 45 giri venduti, tre singoli nelle zone altissime delle Top Ten americane e mondiali, quattro album in neanche due anni, tour sfiancanti, decine di apparizioni televisive. E pochi, pochissimi soldi. Per lo meno, molti meno rispetto a quelli che il cantante e i suoi compagni - tutti più o meno coetanei - meriterebbero in base ai dati di vendita. Quello dei Box Tops è uno degli esempi da manuale nella lunga casistica di band implumi manipolate e sfruttate fino all’osso dal business musicale. La parte buona della vicenda è che i mentori del gruppo, pur rivelatisi alla fine dei conti rapaci e burattinai come da prammatica, erano personaggi di grande talento imprenditoriale e artistico, per i quali la musica non era affatto l’ultima delle preoccupazioni.
Gente come Chips Moman, nei cui American Studios i Box Tops incideranno gran parte del loro materiale, e soprattutto come Dan Penn, che da solo o in coppia con Spooner Oldham ha firmato alcuni dei più grandi classici sudisti di sempre (bastano "Do Right Woman" e "Dark End Of The Street"?). Moman e Penn, dopo essersi fatti le ossa nei leggendari studi Muscle Shoals in Alabama, si erano spostati a Memphis in cerca di qualche complessino da plasmare sulla base della loro visione musicale, nonché di certe idee di produzione innovative che frullavano loro in testa. Detto fatto: i due pigmalioni trovano alla fine del ‘66 la loro Eliza Doolitle in un quintetto r&b locale, i Devilles. Da poco la band ha reclutato come cantante il sedicenne Chilton, vittorioso in un contest canterino del liceo con la sua versione di "Sunny" di Bobby Hebb. Intorno a lui figurano - ma solo dal vivo: in studio meglio lasciar fare ai professionisti di fiducia di Moman e Penn, tra i quali il futuro Memphis Horns Wayne Jackson e addirittura Bobby Womack - altri quattro giovanotti di belle speranze e capacità musicali non esattamente da fuoriclasse: il tastierista John Evans, il chitarrista Gary Talley, il bassista Bill Cunningham e il batterista Danny Smythe.
Ribattezzati Box Tops (in onore dei Four Tops, probabilmente), grazie al fiuto di Penn sganciano subito la bomba nell’estate dell’amore del ’67. Si chiama "The Letter" e va dritta al numero uno delle chart, dandosi il cambio con un’altra gemma southern pop del periodo, "Ode To Billy Joe" di Bobbie Gentry. Due minuti scarsi, ma sufficienti per incollarsi al cervello e smuovere qualche parte del corpo meno nobile. Scritta da Wayne Carson Thompson e prodotta magnificamente da Penn (che sarà dietro al banco del mixer in tre album dei Box Tops su quattro), "The Letter" fissa la formula musicale da cui il gruppo non si distaccherà quasi mai, replicata con identico successo in altre hit come "Cry Like A Baby" (aprile ’68) e "Soul Deep" (agosto ’69). Un misto di soul/r’n’b arioso e di pop dall’aroma beatlesiano, perfettamente agghindato in abiti sonori curatissimi, nei quali la pulizia della produzione non va mai a scapito degli intrecci di tastiere, chitarre, archi, cori, campanellini (si ascolti un pezzo fin troppo fru fru come "Fields Of Clover" per conferma).
Punto focale, naturalmente, è il cantato di Chilton: un ruvido vocione da uomo del sud, un po’ manierato per un ragazzino che non ha neppure finito il liceo, ma dietro al quale si avvertono già qualità melodiche non comuni e una innocenza a malapena nascosta dall’atteggiamento da duro, vagamente mickjaggeriano, che Alex tiene a mettere in mostra nelle non poche testimonianze video dell’epoca. In molti hanno sottolineato le affinità con un suo omologo inglese, Steve Winwood, ma ai Box Tops mancava quasi del tutto la cattiveria blues dello Spencer Davis Group. Molto più vicini erano il blue eyed soul degli Young Rascals ("Turn On A Dream", "She Shot A Hole In My Soul") o le orchestrazioni jazz-pop dei Blood Sweat & Tears ("Sweet Cream Ladies Forward March", "Together").
Volendo semplificare, i Box Tops erano l’incarnazione anni Sessanta del concetto di boy band. Il che dimostra perché gli anni Sessanta sono stati il più grande decennio della storia della musica: nessuna boy band degli ultimi quarant’anni, infatti, può vantare la stessa quantità di belle - in alcuni casi splendide - canzoni, gran parte delle quali firmate Oldham-Penn. E se pensate che una compilation possa risolvere agevolmente la questione, beh, think again. Ciascuno dei quattro lp dei Box Tops, tutti originariamente pubblicati dalla etichetta newyorkese Bell, ha i suoi motivi di interesse.
In The Letter/Neon Rainbow (novembre 1967) oltre ai due singoli citati nel titolo (il secondo è un riuscito tentativo da parte di Chilton di vestire panni da crooner) figura una discreta cover, incisa praticamente in tempo reale, di "A Whiter Shade Of Pale" e la marcetta country-soul "Happy Times"; in Cry Like A Baby (estate 1968), peraltro il più debole del lotto nonostante la favolosa title track, a subire il trattamento-Chilton sono "You Keep Me Hangin’ On" e "Weeping Analeah"; Non-Stop (novembre 1968) sfoggia un bel tiro rock-blues nella stantuffante "Choo Choo Train", superba eleganza pop in "People Gonna Talk" (nonostante qualche affettazione black di troppo nella voce) e tentazioni gospel in "I Met Her In Church"; infine Dimensions (settembre 1969) mostra le qualità ancora acerbe ma promettenti del Chilton autore in pezzi come "Together", "The Happy Song" e il bluesaccio "I Must Be The Devil".
Ancora meglio di queste ultime è un lato B dello stesso periodo, uno squisito esercizio tra Glenn Campbell e Burt Bacharach chiamato "I See Only Sunshine", ma le comprensibili ambizioni da songwriter del cantante vengono frustrate dal dittatoriale Penn, che impone non solo i brani ma pure il modo di cantarli. Dopo una penosa tournée inglese alla fine del ’69, Chilton decide che ne ha abbastanza e molla il gruppo (che, ricollegandosi alla sua originaria natura di prodotto prefabbricato, continuerà per diverso tempo senza nessuno dei membri originari).
Ci sarà poi una reunion dei Box Tops negli anni Novanta, con qualche concerto e persino un album (Tear Off!) nei quali Alex e soci si cimentano esclusivamente con cover r’n’r e rockabilly. Ma quello avverrà quasi trent’anni dopo. Alla fine del decennio favoloso per antonomasia, Alex Chilton è pronto a voltare pagina. A diciannove anni appena compiuti, l’unico periodo di successo della sua vita è già finito.
Well, I’m free again, to do what I want
Free again/ to sing my song
(Free Again, Alex Chilton)
Archiviata l’esperienza da… big star che lo ha centrifugato in un’età in cui non si hanno ancora spalle sufficientemente larghe per reggere la pressione, Chilton ha pur sempre bisogno di un punto di riferimento. Se non proprio di una figura paterna, quantomeno un fratello più grande in grado di indirizzarlo e rassicurarlo sulle proprie capacità. Naufragato il rapporto con Dan Penn e Chips Moman, nonostante i buoni risultati artistici, Alex trova la sua nuova famiglia alla Ardent. Prima ancora che un piccolo (ma equipaggiatissimo) studio di registrazione e una rampante etichetta locale, la compagnia fondata una decina di anni prima da John Fry - brillante neo-diplomato appassionato di elettronica, capelli con la riga e completo giacca-e-cravatta agli antipodi di qualunque definizione di coolness - è un punto di ritrovo per aspiranti rocker divorati dall’anglofilia.
Nelle salette della Ardent si apprendono i segreti del mestiere osservando all’opera produttori e ingegneri del suono, ma si commentano anche le ultime recensioni dell’Nme e del Melody Maker, dato che Fry è l’unico in città ad aver sottoscritto un abbonamento ai due settimanali britannici. E naturalmente si sogna di incidere le proprie canzoni. Magari con l’aiuto di una coppia di tuttofare della Ardent, musicisti anche loro, quali Terry Manning e Jim Dickinson. Con il primo, Chilton ha già stretto amicizia nei giorni dei Box Tops, avendolo incrociato durante qualche session. Hanno più o meno la stessa età, si capiscono al volo. Naturale che il primo album solista del cantante venga registrato negli studi Ardent, sotto la supervisione di Manning. Peccato che non diventerà mai il “primo album solista del cantante”: i nastri vengono fatti girare presso varie case discografiche, ma nessuna si mostra interessata.
Nel frattempo nascono i Big Star, e il progetto solistico viene accantonato. Verrà riportato in luce, letteralmente (persino Manning si era scordato dove fossero finiti i master), solo nel 1996, quando la Rev-Ola lo pubblicherà con il titolo non proprio fantasioso di 1970. Recentemente è stato ristampato come Free Again-1970 Sessions dalla Big Beat, con un paio di bonus track. Benché diversi brani avessero fatto capolino qui e là, specialmente nella raccolta doppia "Lost Decade" uscita per la Fan Club a metà anni Ottanta, quando venne pubblicato il disco per i fan chiltoniani di lungo corso fu una rivelazione: eccolo lì, il tassello mancante tra i Box Tops e i Big Star. Tra alcuni brani riciclati dai primi ("I Can Dig It", "The Happy Song") e altri che riappariranno molto più tardi ("Free Again"), tra cover sbrindellate ("Jumpin’ Jack Flash", "Sugar Sugar") che sembrano anticipare il Chilton senza tetto né legge di un decennio dopo, spiccano un paio di canzoni assolutamente magnifiche, finestre su un futuro radioso: una è la dolce "Every Day As We Grow Closer" (che a orecchie attente dischiude le armonie vocali di "Give Me Another Chance", dal primo album dei Big Star), l’altra è la ballata cofirmata con Manning "EMI Song (Smile For Me)", che avrebbe reso orgoglioso Brian Wilson se solo questi in quel momento fosse stato in grado di connettere.
Chissà se questo album fosse uscito davvero, in quei primi mesi del 1970. Forse Chilton avrebbe intrapreso una carriera di successo, i Big Star non sarebbero mai esistiti, Peter Buck avrebbe continuato a fare il commesso in un negozio di dischi, Paul Westerberg oggi sarebbe un piccolo spacciatore di Minneapolis… ok, fermiamoci qui. La storia, una volta tanto, è andata per il verso giusto. Forse nei suoi ultimi anni lo avrebbe ammesso anche Chilton, che ha passato gran parte della vita a far finta che la band alla quale il suo nome resterà legato per sempre fosse stata solo un incidente di percorso.
I never travel far, without a little Big Star
(Alex Chilton, Replacements)
Vi risparmio qui i dettagli sulla genesi dei Big Star, e su come vari progetti orbitanti attorno alla Ardent e al solito Manning (Icewater e Rock City) abbiano fatto da prologo all’apparizione dello stellone. Incrociando booklet e canzoni del box della Rhino "Keep An Eye In The Sky" (il cofanetto definitivo sui Big Star) e del doppio cd antologico "Thank You Friends.The Ardent Records Story" (Big Beat, 2008) si possono ricostruire tutti i passaggi. Ciò che conta è che un certo giorno del 1971 tre di quei ragazzi con l’Inghilterra in testa (Chris Bell, il bassista Andy Hummel, il batterista Jody Stephens) si ritrovano nello stesso studio della Ardent con Alex Chilton, tornato in città dopo un poco fruttuoso soggiorno a New York. Nel Greenwich Village aveva provato a reinventarsi folksinger, ma non ne era venuto fuori nulla, a parte una manciata di canzoni (una di queste si chiama "Thirteen"). Ormai sono altre le suggestioni che muovono il giovane musicista: il nuovo pop che arriva da Oltreatlantico (i Move, i Badfinger), i Velvet Underground ormai in via di dissoluzione ma per i quali ha sviluppato una passione insana, i primi passi come solista di Todd Rundgren dopo la fine dei Nazz, vicenda con la quale per evidenti motivi può identificarsi appieno.
Aggiungete la devozione totale verso il vangelo beatlesiano che anima sia lui che soprattutto Bell, l’attrazione maniacale del secondo per le esplorazione sonore consentite dai 16 piste di casa Ardent, le ottime capacità strumentali (e vocali) di Hummel e Stephens, senza dimenticare la perizia tecnica dello staff agli ordini di Fry e Manning: tutto ciò, mescolato assieme, produce quel miracolo di disco che è l’esordio dei Big Star.
Pochi altri album nella storia del rock hanno fissato con altrettanta chiarezza quell’istante magico e irripetibile - lo ha vissuto ciascuno di noi - in cui l’incoscienza, l’ottimismo, la sfrontatezza della gioventù ti danno la sensazione di poter fare tutto. Di avere ogni porta aperta davanti, basta avere il coraggio di buttarsi. E i quattro ragazzi di Memphis di coraggio, incoscienza, sfrontatezza e gioventù in quel momento ne possedevano in quantità illimitate. Che meravigliosa manifestazione di hybris scegliere di chiamarsi Big Star (denominazione suggerita dall’insegna di un supermercato di fronte agli studi, ma quanto suonava beneaugurante!), e ancor di più intitolare il primo disco # 1 Record. Nessuno, tra chi lo ha ascoltato in questi quarant’anni, lo ha mai interpretato nel senso di “numero uno in classifica”, semmai in quello cronologico di “primo disco”. Ma loro ci credevano, eccome se ci credevano. E, forse, uno dei motivi del fascino che quest’album continua a esercitare su generazioni di amanti della musica pop sta proprio nel contrasto crudele tra ciò che poteva essere e non è stato, tra la gioiosa fiducia nei propri mezzi che prorompe dai solchi e la consapevolezza dell’ascoltatore di quale tunnel degli orrori sarebbe stato il futuro dei Big Star. La hybris punita dagli dei. La potenza destinata a non diventare mai atto compiuto, congelata per sempre in quaranta minuti di magia: esiste qualcosa di più triste, e allo stesso tempo di più poetico?
Tutta la musica dei Big Star, non solo quella racchiusa in questo disco, vive su un equilibrio instabile, pur nella sua armoniosità. Luci e ombre, innocenza e perversione, abbandono sentimentale e cinismo. C’è un nocciolo cupo - qualcuno ha anche detto “malsano” - nelle canzoni della band, un senso di decadenza tipicamente sudista che come un tarlo ne corrompe il romanticismo. Si prendano come esempio i due inarrivabili capolavori firmati da Chilton in #1 Record. "The Ballad Of El Goodo" è una disarmante confessione di vulnerabilità, nella quale proprio mentre il protagonista afferma di potercela fare “against strong odds” (perché “at my side is God”, e sulla religiosità implicita in tanti brani di Chilton e Bell ci sarebbe da aprire un capitolo a parte) qualcosa nella voce ci fa pensare che si sia invece arreso all’ineluttabile. "Thirteen" è invece impregnata di un’ambiguità più sottile: da un lato è forse il più incantevole peana mai sciolto ai palpiti dell’adolescenza, dall’altro c’è qualcosa di inquietante in quel “come inside where it’s okay, and I’ll shake you” rivolto alla fidanzatina (ehi, un attimo: e se lui non avesse tredici anni?). Entrambi i brani, musicalmente, sono quanto di più vicino alla perfezione melodica si possa immaginare. Personalmente posso ancora ricordare il profumo dell’aria che entrava dalla finestra la prima volta che ho ascoltato gli “oooh” e gli “aaah” di "El Goodo", o l’arpeggio iniziale di "Thirteen". Perché queste appartengono a quel genere di canzoni che basta sentirle una volta, e rimangono con te per tutta la vita. Identico discorso per l’armonica che arriva a stemperare la reverie malinconica di "Watch The Sunrise", o per la melodia cristallina e i controcanti che avvolgono la promessa di cambiare - ma di nuovo: fino a che punto ci crede? - di "Give Me Another Chance".
I pochi che all’epoca hanno ascoltato questi pezzi conoscendo già i Box Tops saranno rimasti stupiti dal cambiamento profondo nel modo di cantare di Chilton: spariti i toni baritonali e la ruvidità posticcia, la voce acquista un’inattesa dolcezza, un’inflessione puberale ammantata di fragilità. Come se l’Alex ventunenne fosse paradossalmente più giovane di quello diciassettenne. Molti hanno sottolineato come il dualismo tra Chilton e Bell (anche se entrambi mettono lo zampino nelle canzoni dell’altro) ricordi quello tra Lennon e McCartney. Eppure i pezzi più rock, in teoria quelli più “stile John” è Chris a scriverli. Nelle atmosfere hard di "Don’t Lie To Me" - l’unico pezzo invecchiato male del disco - denuncia tutto il suo amore per i Led Zeppelin, mentre in "Feel" l’attrazione verso il glam-rock nascente è evidente nel riff alla T.Rex e negli inserti di sax & piano che fanno tanto anni 50 rivisitati. D’altra parte la stessa canzone, al pari di "In The Street", potrebbe benissimo essere il parto di ipotetici Fab Four del ’72 dopo il trasloco a Memphis.
I Big Star avranno anche inventato il power pop con questo disco (e ancora di più con il successivo), come ogni enciclopedia non manca di ricordarci, ma tutto quello che volevano era semplicemente che il sogno dei Beatles non svanisse. E visto che gli Scarafaggi avevano lasciato il campo, ci avrebbero pensato loro. #1 record è un lavoro totalmente intriso di spleen post-beatlesiano, persino in pezzi più trasognati e “psichedelici” come "Try Again"; la stessa "India Song", scritta da Hummel, sembra giocare con la mitologia Sixties a partire già dal titolo.
Portando agli estremi il processo di immedesimazione, Bell suggerisce di non andare in tour, proprio come avevano fatto i suoi idoli dopo il ‘66. Il dramma è che la band effettivamente non suona dal vivo, ma non per sua scelta: perché nessuno la chiama. Bastano poche settimane, nell’estate del ’72, per capire che l’album che avrebbe dovuto renderli ciò che millantavano di essere nel nome è il più clamoroso dei buchi nell’acqua. Le recensioni sono quasi tutte entusiastiche, ma la stragrande maggioranza delle copie rimangono nel magazzino della Ardent. La responsabilità del flop è soprattutto della Stax, con cui Fry ha un accordo di distribuzione. La gloriosa etichetta soul non ha la minima idea di come promuovere un prodotto che non capisce fino in fondo, e come se non bastasse ha i conti in rosso. Del resto, a Memphis i ragazzi sono considerati dei reietti anche dal pubblico bianco, troppo invaghito delle cafonate hard-rock, blues e boogie che andavano all’epoca per prestare attenzione a un gruppo che guardava indietro, ai Byrds e ai Kinks, per inventare il pop del futuro. Demoralizzato dalla piega disastrosa degli eventi, disgustato dai maneggi del business e consapevole del fatto che la leadership nel gruppo gli è ormai stata scippata da Chilton, Bell molla tutto. Nel giro di pochi mesi entra in depressione e si abbandona all’abbraccio delle droghe pesanti.
È qui che la storia dei Big Star inizia a volgersi in tragedia. Ma nonostante il gruppo venga messo in stand-by, l’ispirazione di Chilton procede ancora a pieni giri. Alex prova a incidere qualche pezzo con il batterista Richard Rosebrough e il bassista Danny Jones, altri habitué della Ardent, ma è la riunione con Stephens e Hummel, in occasione di un concerto per una convention di giornalisti musicali (vedete che a qualcosa ogni tanto serviamo pure noi?) a convincerlo a tornare in studio con i vecchi compagni.
È così che nell’inverno del ’73 vedono la luce i brani di Radio City. Al contrario del suo predecessore, il disco è un patchwork di incisioni effettuate in tempi diversi, e le stesse canzoni hanno una genesi complessa. "Mod Lang" e "She’s Mover", i pezzi più duri, sono il frutto delle session con Rosebrough e Jones, mentre "Back Of A Car" (forse l’archetipo assoluto del power pop) e "O My Soul" per metà erano state scritte da Bell. Nonostante ciò, il suono d’assieme è più compatto, le atmosfere più coerenti, le chitarre più scintillanti che mai, con cascate di accordi che riempiono in modo quasi tridimensionale lo spazio auditivo. Pochi altri dischi guitar pop possono giocarsela con Radio City, quanto a qualità di registrazione.
Ma i bei suoni senza le canzoni non servirebbero a nulla, e qui si salta letteralmente da una meraviglia all’altra. La prima metà dell’album è un blocco unico di melodie, sostenute da riff insistiti e saliscendi ritmici ("O My Soul"), oppure saltellanti sull’onda di un piano quasi ragtime ("Life Is White"), oppure ancora dilatate e rallentate fino a renderle translucide ("What’s Goin Ahn"). "Way Out West", altra bella prova d’autore di Hummel, intreccia ghirlande di dodici corde su un tema di rassegnata malinconia, "You Get What You Deserve" è puro veleno sentimentale dissimulato nell’illusoria dolcezza degli accordi.
Sul secondo lato, gli inchini al Ray Davies più rockeggiante delle citate "Mod Lang" e "She’s A Mover" fanno da contraltare, con la loro solidità tutta d’un pezzo e i testi costruiti rubacchiando espressioni gergali del blues (“Mod Lang” è la contrazione di “Modern Language”) alla pura e semplice schizofrenia di "Daisy Glaze", brano sublime e terrificante allo stesso tempo, anticipatore di future catastrofi psicologiche con il suo trasformare il pathos romantico della prima metà nella disperazione nichilista della seconda (“And I’m thinking Christ/ nullify my life”). E poi, certo, c’è il trionfo assoluto di Chilton: "September Gurls" è la quintessenza del pop chitarristico, la triangolazione perfetta tra Beatles, Byrds e Beach Boys. Il senso di nostalgia che la pervade non riesce a spazzare via del tutto il consueto strato di sarcasmo e disincanto chiltoniani (“I loved you, well nevermind”: sembra quasi di vederlo scrollare le spalle mentre canta), ma del resto è proprio quella la costante di un disco il cui tema di fondo è l’incapacità di vivere in modo equilibrato i propri sentimenti, per sempre incagliati nella terra di nessuno tra adolescenza e età adulta. Un’impossibilità di essere normali che segnerà profondamente da lì in avanti vita e carriera di Chilton. A cominciare dal disco che sigilla per i successivi trent’anni la storia dei Big Star.
“Il terzo disco dei Big Star? Parla di disillusione e di decomposizione. Puro angst da Memphis est”
(Jim Dickinson)
“I’m in love with a girl, the finest girl in the world”: così, con questa ingenua dichiarazione di appagamento sentimentale, si chiude Radio City. Come se proprio all’ultimo le tensioni psicologiche che corrono lungo tutto il disco si risolvessero in una cartolina da San Valentino. Naturalmente, c’è dell’ironia non dichiarata all’opera. Anche perché la “finest girl in the world” è tale Lesa Aldredge, personaggio problematico e lunatico quanto Chilton, forse anche di più. Con la ragazza, che suona in una band proto-punk chiamata Klitz (“una specie di Shaggs sotto tranquillanti”, così le ricorda Jim Dickinson), Alex intreccia una relazione tumultuosa che spaventa, per la sua natura autodistruttiva, chiunque stia intorno al musicista. Ma non è l’unico elemento preoccupante, nella realtà sempre più instabile che circonda un gruppo che dopo l’ennesima delusione (Radio City vende ancora meno di #1 Record) è ormai in pieno disfacimento. Dopo Bell, se ne va anche Hummel, incapace di reggere la personalità sempre più fuori controllo di Chilton. Al suo posto appare per qualche mese del 1974 un certo John Lightman, ed è con lui che Chilton e Stephens suonano sporadicamente dal vivo. Un paio di concerti di questo periodo sono stati riesumati su cd: Live (Rykodisc, 1992) riporta un’esibizione a Long Island registrata per una radio locale, Nobody Can Dance (Norton, 1999) una all’Overton Park Shell di Memphis. Insieme al live contenuto nel box Keep An Eye In The Sky (inciso in un ristorante pieno di gente che si fa i fatti suoi, sempre a Memphis), testimoniano la solidità del gruppo sul palco e l’abilità - tutt’altro che scontata per quello che è sempre stato considerato un progetto di studio - nel riproporre arrangiamenti così raffinati in un contesto più rock’n’roll.
L’estate del 1974 è una stagione di desolazione, a Memphis. Tutto sta andando in malora. I Big Star, la Ardent, la Stax, la storia tra Alex e Lesa, l’equilibrio nervoso di Chris Bell, i rapporti umani e di amicizia. Quella che fino a pochissimi anni prima era stata un’enclave di creatività ed entusiasmo si è trasformata in uno psicodramma collettivo immerso nell’alcol, nel quaaludes, in una violenza neppure troppo repressa. Un collasso esistenziale globale, fotografato con intensità disturbante in Third. O Sister Lovers, come verrà chiamato nell’edizione definitiva in cd a cura della Ryko del 1992. O "Beale Street Green", come era nelle intenzioni di Chilton. Insomma: nel difficile terzo album dei Big Star. Che poi non sarebbe nella realtà un album dei Big Star, anche se Jody Stephens è presente in tutti i brani, e anzi uno (la ballata con squisito arrangiamento d’archi "For You") lo ha pure scritto. Non sarebbe neanche un album, a dirla tutta. Piuttosto una congerie di registrazioni occasionali tenutesi di notte alla Ardent, quando l’ispirazione o il tasso alcolico lo richiedevano. Aiutato dal partner in crime Jim Dickinson, che ne asseconda le richieste più folli, Chilton mette su nastro una serie di canzoni che - con l’eccezione della sarcastica ma melodiosa "Thank You Friends", l’unica che avrebbero potuto figurare sui due dischi precedenti - verrebbe quasi da definire picassiane. Brani deformi, scomposti, zoppicanti, dissonanti (l’apice è "Downs", unico pezzo al mondo in cui un pallone da basket viene usato in funzione noise) fianco a fianco con ballate notturne di un’eleganza e di uno struggimento pari solo alla loro morbosità ("Big Black Car", "Nightime", "Blue Moon"); valzer e filastrocche totalmente fuori contesto ("Stroke It Noel", "O Dana", "Take Care") eppure dall’appeal irresistibile nonostante la strumentazione incongrua (l’organetto circense e il sax che rispettivamente aprono e chiudono "Jesus Christ"), inserite come spazio di decompressione tra r’n’r sgangherati ("Kizza Me", le cover fuori registro di "Whole Lotta Shakin’ Goin On" e della kinksiana "Till The End Of The Day").
Al cuore del disco, il vuoto cosmico di "Holocaust" e "Kangaroo", e basterebbe la contrapposizione grottesca di questi due termini per dare un’idea della perversa visione chiltoniana. Come si fa a raccontare due cose enormi come queste? Psichedelia senza più sogni, gli Stones di "Moonlight Mile" e "Sister Morphine" rinchiusi in una clinica psichiatrica, i Velvet di "Heroin" che si cimentano con il soul (la definizione, perfetta, la diede un mio autorevole collega), la new wave inventata nelle notti afose e drogate del Sud. Non stupisce che di queste due canzoni abbiano dato le versioni più belle personaggi quali Kendra Smith, i This Mortal Coil e Buckley figlio.
Come tutto ciò che osa proporre un nuovo parametro di bellezza, il “terzo dei Big Star” non è un disco facile da amare. Tutt’altro. Ci vuole tempo per capirne il senso, per trovare il proprio posto tra quelle ombre. A chi scrive ci sono voluti anni. E se si può fare fatica oggi, figuriamoci nel 1975. Fry e Dickinson cercano disperatamente qualcuno interessato a dare forma compiuta a quel magma, pubblicando nastri che erano considerati “inaccettabili persino come demo” (sempre Dickinson), ma è tutto inutile. Un Third posticcio uscirà soltanto tre anni dopo per una piccola etichetta, nel disinteresse generale. Alla fine di quello stesso anno, Chris Bell muore andando a schiantarsi in auto contro un palo del telefono, mentre a New York Alex Chilton è perso nel suo trip psicotico. Nel cielo caliginoso di Memphis, ormai, non brilla più alcuna stella.
“C’mon baby, fuck me and die”
(No Sex, Alex Chilton)
Una sera alla metà degli anni Ottanta, il leader di una band di Minneapolis che sta diventando famosa si trova al bancone di un club di New Orleans. Il suo nome è Paul Westerberg, e gli hanno detto che in quel locale poteva trovare il suo idolo Alex Chilton. Chiede al barista a che ora si esibirà, e quello sogghignando fa un cenno con la testa verso un angolo della sala, dove un uomo con strofinaccio e secchio dell’acqua sta pulendo il pavimento. Non ricordo più dove ho letto questo aneddoto, e magari le cose non si sono svolte esattamente così (altre versioni parlano di Westerberg che prende un taxi e si ritrova Chilton al volante), ma per tanti anni l’immagine che si aveva dell’ex-Big Star nel giro musicale è stata esattamente quella. Una specie di Travis Bickle tornato dal suo personale Vietnam, intento a sciacquare piatti nei ristoranti, fare il postino, potare siepi nei cimiteri o qualunque altro lavoro che gli permettesse di vivere nascosto e, soprattutto, lontano dalla musica. È vero, ma solo in parte. Quello tra il 1975 e il 1985 è sotto molti aspetti per Chilton un “decennio perduto”, come diceva il titolo di quella antologia cui abbiamo già accennato, ma ciò non significa che non abbia prodotto nulla. Anzi, per alcuni è questo il periodo più fertile del musicista memphisiano. Sono i fan del suo lato più sgangherato, quelli che ritengono che il vero artista non sia il Dr- Jekill tutto melodia e belle forme dei Big Star ma piuttosto il Mr. Hyde casinaro, ubriaco, dissoluto e a modo suo quasi avantgarde di dischi come Bach’s Bottom e Like Flies On Sherbert.
Il primo, riprendendo quella che dopo Third diventa quasi una costante, è la pubblicazione non autorizzata dal suo autore di registrazioni tenutesi nel 1975 con la produzione di Jon Tiven (un giovane fan dei Big Star che Chilton riduce alla disperazione con il suo approccio anarchico e menefreghista). L’album esce nel 1981, ma gli stessi pezzi si trovano nell’Ep Singer Not The Song, pubblicato dalla Ork nel 1977, e nel semi-bootleg One Day In New York, insieme a una manciata di canzoni registrate dal vivo al CBGB’s. Quando il punk esplode, Alex si trova per l’appunto nella Grande Mela, dove è andato alla ricerca di un contratto discografico e per scappare dai fantasmi di Memphis, ma riesce a essere un drop out persino in quella scena nella quale avrebbe potuto diventare un re in esilio. Non frequenta il giro di Talking Heads, Television e Blondie, tutta gente che detesta e che ritiene finta, ma in compenso si trova benissimo con paria come i Cramps, per i quali produce i primi due 45 giri (poi nell’ep Gravest Hits) e l’album d’esordio "Songs The Lord Taught Us". Ecco, per provare a capire l’Alex Chilton di quegli anni si può partire da qui, da un disco molto più conosciuto di qualunque altro suo lavoro solistico, e magari dai ricordi di un Lux Interior ancora intimorito da quel pazzo di Memphis che a un certo punto entra nella cabina di registrazione, gli punta una pistola alla tempia e gli intima “adesso cantala meglio”. Anche qui probabilmente c’è dell’esagerazione, ma insomma, uno che mette paura a Lux Interior è uno da prendere con le molle. Un po’ come i brani sfasciati di Bach’s Bottom, che siano cover di altri ("Summertime Blues", "I’m So Tired", "Singer Not The Song") o di se stesso ("Jesus Christ", presa sadicamente a martellate). Rock’n’roll deragliante al limite della stonatura e della dissonanza, l’antitesi assoluta dei Big Star che diventa calco di riferimento per il futuro.
La frammentarietà di Third è sempre il concetto-guida, ma senza la morbosità romantica e crepuscolare di quel disco, sostituita da una deboscia a tratti pure un po’ irritante. Identico discorso per Like Flies On Sherbert, che nel 1979 - dopo la pubblicazione dell’eccellente singolo "Bangkok", con sul retro la cover di "Can’t Seem To Make You Mine" dei Seeds, e un tentativo fallito di formare una band ipoteticamente chiamata Cossacks con i futuri dB’s Chris Stamey e Peter Holsapple - segna il ritorno a casa. Sempre lo stesso giro di disperati ad accompagnarlo, sempre Jim Dickinson al mixer - si fa per dire - ma questa volta gli studi sono quelli leggendari della Sun di Sam Phillips. Meno male che Elvis è già sotto terra da un paio d’anni, perché se per caso avesse ascoltato questi ventinove minuti di delirio alcolico avrebbe come minimo allertato l’Fbi.
Non c’è nulla, nelle dieci canzoni in scaletta (come al solito divise tra originali e cover sballatissime, si ascoltino la versione rockabilly-disco di "Boogie Shoes" della KC & Sunshine Band, o il classico country "Waltz Across Texas" di Ernest Tubb letteralmente maciullato) per cui si possano richiamare concetti quali “melodia”, “composizione”, “struttura armonica“, missaggio adeguato”, “arrangiamento”. Ognuno va per conto suo, il basso a volte sovrasta tutto e più spesso scompare, la batteria sembra fatta di cartone, le chitarre fischiano. Persino in epoca di new wave montante quelle canzoni dovettero sembrare un pugno nello stomaco. Altro che punk: in pezzi come "I’ve Had It e Rock Hard" c’è già tutto il garage/roots e il lo-fi degli anni 90, e se volete sapere chi ha inventato lo shitgaze, date un’ascoltata a "My Rival". Eppure, in quell’attitudine laissez-faire da sconvolti, nemmeno tanto gioiosa (Chilton è ai minimi storici in fatto di qualità della vita e ai massimi in fatto di dipendenza da droghe e alcol) si intravede la nuova visione dell’artista, una “estetica del brutto” che deliberatamente evita le sovrastrutture e predilige il più puro spontaneismo r’n’r, senza negarsi qualche esperimento preso a prestito da ambiti musicali piuttosto distanti (l’iterazione quasi Kraftwerk di "Hook Or Crook", i sibili sintetici su "My Rival" che per stessa ammissione di Chilton si rifanno ai suoni prodotti “involontariamente” da Brian Eno nei Roxy Music).
Il disco, pubblicato nel 1979 in edizione limitata dalla Peabody e nel 1980 dalla Aura sul mercato europeo, come è naturale che sia, scompare da qualunque radar nel giro di una settimana dall’uscita, dando però il via all’ennesimo culto legato al nome di Alex Chilton. Il quale, dopo un live registrato nel 1981 a Londra con membri dei Soft Boys e dei Vibrators, entra in semi-clandestinità fino a metà decennio. Intascati due soldi con la vendita della casa del padre defunto, si trasferisce a New Orleans ed entra come chitarrista nei Panther Burns dell’amicone Tav Falco. Nel frattempo ha dato l’addio definitivo alla Aldredge e alla droga, uno un po’ meno definitivo all’alcol, e lentamente pare rientrare in carreggiata. Mentre lava i piatti nei ristoranti di Bourbon Street, si accorge che un sacco di gente in giro per il mondo lo venera come un dio. E che forse è ora di farsi vivo, di nuovo.
Children by the million, sing for Alex Chilton
(Alex Chilton, Replacements)
La Chilton-mania è stato uno dei fenomeni più pervasivi del rock alternativo anni 80, propagatosi come una sorta di religione underground a ogni latitudine. Underground neanche tanto, a dire il vero. Anche se le serie tv non utilizzano ancora le sue canzoni nella sigla (lo faranno una quindicina di anni dopo gli autori di Gilmore Girls, con "Thirteen"), oltre alle decine di gruppi jingle jangle e power pop che si ispirano ai Big Star ci sono i Rem che citano il musicista un’intervista sì e l’altra pure, le Bangles che riprendono "September Gurls", i Replacements che gli dedicano uno dei loro cavalli di battaglia. Tra i fan hardcore di Chilton c’è anche Patrick Mathé, proprietario dell’etichetta francese New Rose, già rifugio di peccatori r’n’r quali Jeffrey Lee Pierce, Johnny Thunders, Roky Erickson e - toh, guarda un po’ - Cramps e Tav Falco. A cavallo tra Ottanta e Novanta, la New Rose pubblica una serie di lavori - spesso registrati in trio con il bassista René Coman e il batterista Doug Garrison - che tengono alto il profilo di Alex tra gli appassionati del rock borderline. Non sono dischi sorprendenti, va detto. Gli eccessi, compresi quelli sonori, non fanno più parte del personaggio, che invece preferisce acquietarsi in un formato r’n’b/funk/rockabilly che ne recupera le virtù di cantante e chitarrista.
Paradossalmente (ma neanche tanto) i risultati migliori li ottiene sulla breve distanza del mini-Lp o dell’Ep. Molto meglio un Feudalist Tarts (1985), con i suoi bei riflessi ora soul-pop ("B-A-B-Y", dal repertorio di Carla Thomas) ora dylaniani ("Lost My Job"), oppure la solidità funky di "No Sex" (un doppio 45 del 1986 la cui title track viene mandata a ripetizione sulle college radio, nonostante il tema - una riflessione sarcastica sul terrore dell’Aids - non rappresenti il massimo dell’appeal), oppure ancora il disinvolto ondeggiare tra doo woop, surf e Stones maturi di Black List (1990), in cui Chilton si scopre persino qualche prurito politico ("Guantanamerika", uno dei suoi brani migliori nel post-Big Star), che un album tutto sommato moscio come High Priest del 1987, nel quale si cimenta in una versione alla Louis Prima di "Volare", probabilmente consigliato da Tav Falco.
Scoperto di cavarsela bene con l’italiano, ci riprova addirittura con Celentano e il suo "Ribelle", contenuta in A Man Called Destruction del 1995. Divertente e frizzante, come del resto tutto il disco (se si esclude la marcia funebre di "It’s Your Funeral"), ma per quanto ben suonati e ben cantati, brani come "What’s Your Sign Girl" (Chilton nutriva una passione morbosa per l’astrologia), "Sick & Tired" e "Don’t Stop" sono pur sempre esercizi di maniera. Al pari delle cover di Loose Shoes And Tight Pussy del 1999, il cui titolo zozzo (negli Stati Uniti verrà pubblicato come un più morigerato "Set") fa a pugni con la musica, elegante e godibilissimo compendio di R&B, boogaloo, soul e omaggi alla città d’adozione del musicista ("Lipstick Traces", che Allen Toussaint scrisse per Benny Spellman).
Nel precedente Cliches (1994) si andava del resto ancora più indietro, sfoderando una vena da cantante confidenziale e jazzy (con tanto di evergreen come "There Will Be Another You" e "My Baby Just Cares For Me") a un paio di universi di distanza dal lerciume di Like Flies On Sherbert. Influssi, comunque che non vanno mai al di là temporalmente dei 50 e dei primi 60. Ma gli anni 70 tornano sempre a bussare alla porta di chi li ha vissuti, e “anni 70” per Alex Chilton significano soprattutto Big Star. Dopo essersi rifiutato persino di cantarne i brani - se non saltuariamente, come testimonia "September Gurls" nella scaletta di No Sex - nel 1993 cede sorprendentemente all’invito di una college radio e tiene un live alla Missouri University di Columbia, sotto quella sigla leggendaria. Insieme a lui Jody Stephens, con il quale riallaccia i rapporti dopo quindici anni, e i due Posies Jon Auer e Ken Stringfellow.
Ne esce un album dal vivo che risveglia i sogni di tutti i bigstariani sparsi per il mondo, ma per un disco vero si deve aspettare il 2005 (nel frattempo c’era stata pure la reunion dei Box Tops).
In Space, benché giudicato severamente da gran parte della critica, è tutt’altro che un brutto lavoro, e se non sfiora neppure i vertici di trent’anni prima, mette comunque in fila (soprattutto nella prima metà) una sfilza di ottime canzoni pop. Chilton canta con gusto, ma l’impressione è che i brani migliori, nonostante venga accreditato come autore o coautore nella maggior parte di essi, siano farina del sacco dei Posies (la splendida "Lady Sweet", "Best Chance", il pastiche à-la Beach Boys di "Turn My Back On The Sun") quando non addirittura di Stephens ("February’s Quiet").
Per il resto sembra un discreto disco da solista di Chilton, tra funk-rock un po’ caciaroni ("Love Revolution"), richiami fifties ("Mine Exclusively") e stranezze nate dalla passione per certi compositori classici ("Aria", "Largo").
In Space, sopraccigli alzati della stampa a parte, sancisce comunque il coronamento di un culto gonfiatosi sempre più nel corso di tre decenni. I Big Star redivivi suonano ovunque, girano per i festival e si offrono a un paio di generazioni di fan che possono finalmente consumare il loro mito. Chilton si gode queste universali dimostrazioni di affetto e il riconoscimento arrivato in extremis, anche se cerca di non darlo troppo a vedere. Tutto sommato nei suoi ultimi anni è un uomo sereno e appagato, come testimonia chi lo ha frequentato da vicino. Nel 2005 resiste persino all’uragano Katrina, rimanendo per una settimana sul tetto della sua casa di New Orleans mentre la città viene inondata. Ma il destino è scritto: il 17 marzo del 2010, a cinquantanove anni, una complicazione cardiaca se lo porta via. Una fine che arriva a tradimento, proprio quando sembrava che tutto gli stesse girando bene. Ma Alex Chilton non è mai stato un uomo banale, e non riuscirei a immaginarmelo come rocker settantenne, a cantare "The Letter" per pagarsi la pensione. È andata come doveva andare, Alex, anche se fa male. I loved you… well, nevermind.
Pubblicato originariamente su "Il Mucchio Extra" 38, estate 2012
BOX TOPS | ||
The Letter/Neon Rainbow (Bell, 1967) | 7 | |
Cry Like A Baby (Bell, 1968) | 7 | |
Non-stop (Bell, 1968) | 6,5 | |
Dimensions (Bell, 1969) | 6,5 | |
Tear Off! (Last Call, 1998) | 6 | |
The Best Of Box Tops (BMG, 2000; antologia) | 8 | |
BIG STAR | ||
N.1 Record (Ardent, 1972) | 9 | |
Radio City (Ardent, 1974) | 9 | |
Third (PVC, 1978) | 9 | |
Live (Rykodisc, 1992, dal vivo nel 1975) | 8 | |
Columbia: Live At Missouri University 4/25/93 (Zoo, 1993; dal vivo) | 7 | |
Nobody Can Dance (Norton, 1999; dal vivo nel 1974) | 7 | |
Big Star Story (Rykodisc, 2003; antologia) | 8,5 | |
In Space (Rykodisc, 2005) | 7 | |
Keep An Eye On The Sky (Rhino, 2009; 4 cd) | 9 | |
Nothing Can Hurt Me (Omnivore, 2013; colonna sonora dell’omonimo documentario) | 8,5 | |
Free Again: 1970 Sessions (Omnivore, 2011) | 8 | |
ALEX CHILTON | ||
Singer No The Song (Ep, Ork, 1977) | 7 | |
One Day in New York (contiene Singer No The Song e cinque tracce dal vivo, Trio, 1978) | 6 | |
Like Flies On Sherbert (Peabody, 1980) | 8 | |
Bach’s Bottom (Line, 1981) | 7 | |
Live In London (Aura, 1982) | 6,5 | |
Feudalist Tarts (mini-Lp, New Rose, 1985) | 7 | |
Lost Decade (Fan Club, 1986; brani di Chilton e sue produzioni, ant.) | 6,5 | |
No Sex (New Rose, 1986; doppio 45 giri/ep) | 7,5 | |
High Priest (New Rose, 1987) | 6 | |
Black List (mini-Lp, New Rose, 1990) | 7 | |
Cliches (New Rose, 1994) | 5,5 | |
A Man Called Destruction (Ardent, 1995) | 7 | |
Cubist Blues (Discovery 1997, cointestato ad Alan Vega e Ben Vaughn) | 7 | |
Loose Shoes & Tight Pussy (Last Call, 1999; negli Usa si intitola Set) | 6,5 | |
Live in Anvers (Last Call, 2004; dal vivo) | 6 | |
Electricity by Candlelight. NYC 2/13/97 (Bar None, 2013; dal vivo) | 7.5 |
Box Tops - The Letter | |
Box Tops - Cry Like A Baby | |
Box Tops - I Must Be The Devil | |
Alex Chilton - EMI Song (Smile For Me) | |
Big Star - The Ballad Of El Goodo | |
Big Star - Thirteen | |
Big Star - My Life Is Right | |
Big Star - Back Of A Car | |
Big Star - September Gurls | |
Big Star - Kizza Me | |
Big Star - Holocaust | |
Big Star - Kangaroo | |
Alex Chilton - Bangcock | |
Alex Chilton - My Rival | |
Alex Chilton - Guantanamerika | |
Big Star - Lady Sweet |