Justin Timberlake è un pazzo: non si pubblica mai un doppio album in due parti separate lasciando passare sei mesi di distanza l'una dall'altra, eppure è ciò che ha fatto. Già all'uscita della prima parte di questa "The 20/20 Experience" si sapeva che ci sarebbe stato un seguito; ma questi non sono più gli anni 70, nel marasma internettiano l'attenzione media dura poco e farsi benvolere è un mestiere difficile - soprattutto per un cantante pop di colore bianco che impiastriccia con la musica dei neri e ha un passato da membro di boyband e attore-bambino sul Disney Channel col moccio ancora al naso.
Reduce dal gran successo di "The 20/20 Experience" - ottime vendite e un singolo in heavy rotation come "Mirrors" - Timberlake pubblica quindi l'annunciato seguito in tempi un po' sospetti, rischiando di trascinare in basso le quotazioni e infervorare i sempre numerosi detrattori. Il fatto che anche questo secondo capitolo sia arrivato in vetta Billboard sembra non avere lo stesso peso di quando lo raggiunse la prima parte. Ci sono cascato pure io; il singolo di lancio della "2 of 2" - una spassosa sbornia smaccatamente jacksoniana chiamata "Take Back The Night" - è seguito a ruota senza interruzioni, creando un ponte stilistico con la prima parte talmente solido da aver reso indistinguibile capire dove finiva uno e dove inizia l'altro. Da qui, il calo d'interesse che ha avvolto la performance dell'ultimo singolo "TKO", sdoganato sin dalle prime battute nonostante presenti in realtà un'inedita atmosfera più densa e incattivita. Tuttavia, dopo diversi ascolti necessari per digerire la non indifferente lunghezza dell'opera, anche "The 20/20 Experience - 2 of 2" suona degna del predecessore. Le basi sono simili: brani lunghi e articolati, ritmi r&b in tempo medio, stratificati arrangiamenti elettro/acustici, sciami di violini, vocoder e una produzione lussu(ri)osa che non bada a spese. Ma non solo; stavolta Timberlake inizia togliendosi momentaneamente di dosso i panni dell'elegante crooner innamorato di qualche mese fa, e si lancia all'attacco mostrandosi allo stesso tempo spietato, arrapato e tignoso come solo lui sa fare.
Ha tenuto le orecchie bene aperte, perché "Give Me What I Don't Know (I Want)" sembra rubata agli Yeasayer di "Fragrant World", ma il premio figaggine va dritto all'incedere tribal-techno dei 9 minuti di "True Blood", che si snoda a metà strada tra gli ovvi richiami a "Thriller" e la percussività sintetica della Kelis di "Flesh Tone" - indubbiamente, un inizio coi fiocchi. Anche gli ospiti d'onore sembrano in pieno fervore testosteronico: Drake snocciola rime ansimanti su "Cabaret", mentre più in là il fido Jay-Z in "Murder" favella sul potere della vagina di Yoko Ono "che è riuscita a smantellare i Beatles!".
Quando le acque si calmano, ecco arrivare la dolce ninna nanna "You Got It On", o l'aria vintage di "Amnesia", ma basta poco e Timberlake è nuovamente a far casino in un vecchio blues bar ("Drink You Away"), o a recitare una sorta di sabba a suon di vuvuzela e un sample di Amedeo Minghi ("Only When I Walk Away"). E, già che ci siamo, tanto vale autocitarsi: la conclusiva "Not A Bad Thing" è quanto di più boyband si sia mai sentito dai tempi degli N'sync - arpeggi di chitarra mielosa, ritmo da torte di mele e storie dei primi amori di scuola. Nei 13 minuti di durata il pezzo si tramuta nella ghost track "Pair Of Wings".
A conti fatti, questo lato B latita forse di pezzi da classifica, ma rimedia presentandosi stilisticamente più variegato del lato A; forse qualcuno potrebbe anche preferirlo, lo stiloso ed elegante Justin in giacca, cravatta e scarpa firmata volteggia con disinvoltura, tanto da farsi pure perdonare quella vocetta segalitica che tiene.
Restano giusto le maldicenze sul tempismo della pubblicazione e l'azzardo del disco doppio, che adesso supera abbondantemente le due ore di musica, e si pone testardamente in contrapposizione all'era dove tutto dev'essere fruibile con un click. Adesso "The 20/20 Experience - The Complete Experience", nome della Deluxe già disponibile nei negozi, non è un disco perfetto, tutt'altro. Nel suo faraonico e interminabile incedere miete e ammassa decenni di r&b come niente fosse e, anche tolto di mezzo Michael Jackson, vuole misurarsi con altri due confessati idoli di Timberlake come Stevie Wonder e Prince nel tentativo di creare la propria versione di "Songs In The Key Of Life" e "Sign O' The Times". A voi stabilire se il risultato paga le aspettative, tuttavia è impossibile negare la fantasia, l'ambizione e l'ispirazione che percorrono questi solchi. Justin Timberlake c'ha messo veramente del suo, e il 2013 è l'anno nel quale ha aggiunto un importante tassello alla musica americana, con tutta probabilità lo ricorderemo nei tempi a venire.
E se poi alla gente non dovesse più piacere, poco male. Anche Terence Trent D'Arby fu mandato al rogo quando pubblicò quella follia di "Neither Fish Nor Flesh", eppure che meraviglia di disco era, anche quello?
15/10/2013