Oblivians

Desperation

2013 (In The Red)
garage-rock

Il ritorno discografico degli Oblivians dopo la bellezza di sedici anni potrebbe rappresentare per la scena di riferimento un evento di pari portata rispetto a quello dei My Bloody Valentine per lo shoegaze o dei Pastels in ambito indie-pop. La teoria ci costringe però all’uso del condizionale, perché è pur sempre vero che già nel 2009 gli Oblivians si erano imbarcati in un lungo tour di reunion condiviso con i Gories, altro nome storico, e che i tre membri della formazione di Memphis non sono rimasti per tutto questo tempo proprio con le mani in mano. Greg Cartwright ha dato vita a una delle compagini garage fondamentali dello scorso decennio, i Reigning Sound, ha prodotto album e suonato con band di prima fascia come Deadly Snakes e Detroit Cobras, e messo insieme più di recente un altro supergruppo, The Parting Gifts, assieme alla vocalist degli Ettes e al batterista dei Raconteurs Patrick Keeler; Jack Yarber ha suonato in una miriade di misconosciute formazioni oltre che nei mitici Panther Burns di Tav Falco, mentre Eric Friedl si è dedicato all’etichetta che aveva fondato nel 1993, la Goner, lanciando tra gli altri il primissimo Jay Reatard (quello di The Reatards e Bad Times), King Khan & BBQ Show, Barbaras e un non proprio esordiente (ma ancora acerbo) Ty Segall. Greg e Jack non avevano inoltre mai smesso di collaborare nel loro più vecchio progetto condiviso, i Compulsive Gamblers, con il quale hanno licenziato nel 2000 un mezzo capolavoro intitolato “Crystal Gazing Luck Amazing”.

Un lungo preambolo per chiarire come gli Oblivians si siano presentati all’appuntamento con questa loro quarta fatica in studio motivati e adeguatamente allenati, per così dire. “I’ll Be Gone”, l’apripista di “Desperation” ce li ripresenta con la verve dei capiscuola alle prese con quel loro garage agile e pestone che non ha perso mordente. Il taglio si conferma schietto, ruvida e senza fronzoli la confezione, considerevolmente bassa la fedeltà delle registrazioni curate da Doug Easley nello studio dell'amico Dan Auerbach a Nashville: tutti elementi sufficienti, insomma, a rinverdire i fasti degli epici “Popular Favorites” e “Soul Food” almeno in quanto a festosa sozzura sonica. Proprio come ai bei tempi, Greg, Jack e Eric continuano a spartirsi il songwriting, le parti vocali e gli stessi due strumenti, chitarra e batteria, lasciando fuori dal loro sound il basso. E al di là delle sfumature cangianti nell’ orientamento di questo o quel brano, il loro resta l’identico rock’n’roll poderoso e di scintillante purezza che suonavano negli anni novanta, affilato e diretto come una lama e, se possibile, con una vocazione all’accessibilità ancora più marcata. Le nuove canzoni riescono credibili sia come esercizi di stile che come frutto di una genuina esternazione emozionale, aliena a qualsivoglia deriva accademica. Quando una simile coincidenza si verifica, si ha indubbiamente a che fare con dei maestri: appare allora chiaro perché gente come il già citato Jay Reatard prima e Matt Melton poi sia cresciuta così bene nel proprio apprendistato artistico sotto l’ala protettiva di Jack Oblivian.

Gli Oblivians del 2013 recitano la propria parte con la sicurezza dei veterani, risultando incisivi nelle loro trame semplici e fulminee che riportano alla mente addirittura i primi Sonic Youth (“Woke Up in a Police Car”), oppure snocciolando l’abc del garage spigoloso alla maniera dei Fleshtones di dieci anni fa (“Come a Little Closer”) con disinvoltura non meno sconcertante. Nella chiusa di “Mama Guitar” resuscitano il primitivismo rock in una mise sonora volutamente atroce, secondo i dettami di revisionisti rockabilly di oggi tipo Bloodshot Bill o Bob Log III, e in chiave analoga rivisitano il blues di Paul Butterfield nella cover di “Loving Cup”, unico brano non originale del disco.
Per il resto si spazia a tutto campo: “Pinball King” è proto-garage à la Kinks nella forma, pilotato da un’attitudine punk-pop degna dei Ramones nella sostanza, per una miscela che non può fallire la presa sugli appassionati; “Little War Child” opta per un garage-pop non tirato all’esasperazione e ingolosisce con le sue lontane reminescenze dai Velvet Underground di “Femme Fatale”; “Call The Police” apre invece scenari più sanguigni e ribollenti grazie all’organo e alle percussioni del redivivo Mr. Quintron – che conferì coloriture gospel alla loro precedente e ormai remota fatica, “Play 9 Songs” – e della sua consorte, Miss Pussycat, tra roots-rock e sottili slanci sudisti.

Nella seconda facciata il clima si incattivisce un tantino ma la coesione dell’album non sembra risentirne. Il passaggio più tenero è “Back Street Hangout”, dove un fluido alt-rock stile Dream Syndicate dei bei tempi si lascia corrompere da subdole influenze ben più penetranti, Stooges compresi. Appena prima erano sfilati una frustata hardcore schizoide del genere Green River (“Fire Detector”) e la scura cavalcata di granito tipo Mission Of Burma infestata da esorcismi malati di marca psychobilly (“Oblivion”). Le ultime emozioni di questo disco godibile e tiratissimo arrivano, con la grattugia della title track, nel recupero di spinte antagoniste vecchie più di vent’anni, dai germi fugaziani a quelli post-hardcore addolciti delle tante creature di Rick Froberg (facciamo gli Hot Snakes, juste-milieu).
Tantissima carne al fuoco, insomma, per il ritorno in grande spolvero di questi fuoriclasse.

09/06/2013

Tracklist

  1. I'll Be Gone 
  2. Loving Cup
  3. Em
  4. Woke Up in a Police Car
  5. Call the Police
  6. Pinball King
  7. Run for Cover
  8. Come a Little Closer
  9. Little War Child
  10. Fire Detector
  11. Oblivion
  12. Back Street Hangout
  13. Desperation
  14. Mama Guitar


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