Dream Syndicate

Dream Syndicate

Bagliori psichedelici dal sottosuolo

I Dream Syndicate furono per buona parte del decennio 80 la punta di diamante del Paisley Underground, la scena californiana che fece della rilettura delle radici folk e country attraverso la lente del post-punk e della psichedelia il proprio credo artistico. Un percorso culminato nel capolavoro "Medicine Show". Ripercorriamo le tappe di una delle formazioni underground più suggestive degli Eighties

di Alberto Leone

Che cosa sarebbero stati musicalmente gli anni Ottanta senza il contraltare underground agli innumerevoli fenomeni commerciali del decennio? Ma, soprattutto, quanto sarebbe stata più povera e triste l'adolescenza di tanti fanciulli nati alla fine degli anni 60 e all'inizio dei 70, se privata delle rabbiose urla di speranza e ribellione dei tanti, spesso misconosciuti, gruppi alternativi di quegli anni?
Tra questi, i Dream Syndicate ricoprono un ruolo fondamentale dal punto di vista storico (ancor più che da quello musicale), in quanto padri del movimento - il cosiddetto Paisley Underground - che fece chiaramente percepire alle major discografiche le potenzialità commerciali di "certo" rock. Allo stesso tempo, il loro capolavoro unanimemente riconosciuto (Medicine Show) non è solo uno dei dischi più importanti prodotti in quegli anni da un gruppo underground, ma tocca altresì vertici di intensità difficilmente eguagliati anche nei decenni successivi.

Davis, California, primi anni 80

Così come i coetanei Thin White Rope (ancor più originali e sfortunati dal punto di vista commerciale), i Dream Syndicate vengono partoriti dall'atmosfera gravida di fermenti culturali della città universitaria di Davis in California. Qui, nel 1978, Steve Wynn, Kendra Smith, Steve Suchill, Russ Tolman e Gavin Blair suonano insieme nei Suspects, una band che si scioglie dopo aver pubblicato un anonimo 45 giri dal titolo "It's Up To You". Ritroveremo Tolman e Blair nei più folkeggianti True West, mentre Wynn, nel frattempo, si trasferisce insieme alla Smith a Los Angeles, dove dà vita ai 15 Minutes e crea un'etichetta discografica, la Down There. Per quest'ultima il gruppo incide, prima di evaporare repentinamente, il singolo in salsa new wave "That's What You Always Say" (che sarà poi ripresa nel primo album del Sindacato del Sogno in una versione diversa) con il retro "Last Chance For You". Drum machine a ritmare una voce stentorea e sofferente sul lato A e atmosfere dark tra i Cure e il movimento new romantic a riempire un deludente lato B. Poi, finalmente, dall'incontro di Wynn e Smith con il chitarrista Karl Precoda e il batterista Dennis Duck, nel 1981 sorge il nucleo originale dei Dream Syndicate.
La sigla proviene dal titolo dell'album "Outside The Dream Syndicate" che Tony Conrad incise insieme ai Faust nel 1972 e che rievoca a sua volta il soprannome dato alla formazione di musica sperimentale Theatre of Eternal Music, costituita da John Cale e LaMonte Young a New York nei primi anni 60.
Al di là dell'aspetto linguistico, comunque, non c'è nulla da spartire con la proposta musicale di Steve Wynn e soci, che prende spunto dal revival psichedelico di quegli anni ma evita facili riferimenti al folk-rock per ispirarsi, invece, all'irruenza chitarristica di Neil Young con i fidi Crazy Horse e all'introspezione colta dei Velvet Underground, attingendo tanto dal flusso narrativo di Jim Morrison quanto dalla potenza primordiale degli Stooges.
Wynn, appassionato di cinema e letteratura, dipinge tele sonore sulle tribolazioni umane rifacendosi alle suggestioni fumose dei noir e agli intrighi della letteratura hard boiled, attraverso un percorso di innalzamento spirituale, quasi mistico, sotto le incessanti frustate apportate da chitarre affilatissime.
È il 23 febbraio 1982 quando il gruppo si presenta ufficialmente sulle scene con uno show al Club Lingerie di Hollywood. Poco dopo iniziano le registrazioni dell'Ep di esordio.

I giorni del vino e delle rose

The Dream Syndicate (Enigma, 1982) contiene quattro pezzi tiratissimi che sposano la ritmica e l'energia del punk con la sperimentazione chitarristica acida dei Television, dando vita a componimenti oscuri e metropolitani, in controtendenza rispetto al drappello più folto del movimento Paisley, dallo sguardo bucolico.
"Sure Thing" possiede un classico andamento ritmico à-la Velvet Underground con tanto di chitarre jingle jangle a ricamare su un tappeto percussivo sostenuto, spezzato dall'incedere dei piatti e da un biascicare di sottofondo che fa tanto Lou Reed. Ancora il classico cantato/parlato del vizioso newyorkese caratterizza la speculare finale "Some Kinda Itch", dall'attacco fulminante. Nel mezzo, due pezzi che verranno successivamente ripescati per l'esordio sulla lunga distanza. Una non ancora convincente "That's What You Always Say" (già edita come singolo dei 15 Minutes, come sopra ricordato) con chitarre incerte a puntellare la voce sommessa di Wynn e la rumoristica, cigolante, "When You Smile", dai bruschi passaggi strumentali in contrasto con la sofficità del ritornello, che, tuttavia, non riesce a distendersi come promette.

Dream SyndicateL'esordio sulla lunga distanza, The Days Of Wine and Roses (Slash, 1982), è già un capolavoro grazie a una sezione ritmica possente, al feedback chitarristico di Precoda e all'interpretazione finalmente convincente di Wynn, che, insieme, creano momenti di alta tensione drammatica.
La maggiore energia e convinzione nei propri mezzi sono resi evidenti dal confronto con i due pezzi ripresi dall'Ep di esordio: in "That's What You Always Say" le chitarre neonate hanno imparato a parlare il linguaggio del rock e "When You Smile", da brutto anatroccolo incompiuto, si trasforma in un cigno di luminosa bellezza, con la voce che s'innesta dolcemente, senza strappi, su un lieve tappeto chitarristico dal fascino obliquo.
L'impatto strumentale è abrasivo come carta vetrata sfregata su ceppi di legna marcia e la voce di Wynn è aspra come una spugna imbevuta di aceto e spremuta a forza nel gargarozzo. L'assolo chitarristico iniziale di "Tell Me When It's Over" apre il sipario su un'epoca nuova.
Più punk che acid-rock, più ritmica e violenza (energica e possente la batteria di Duck soprattutto nella title track) che meditazione trascendentale, più Velvet che Quicksilver (qui il debito è saldato esplicitamente dalla soffusa, oscura, teatrale interpretazione alla Nico della bassista Kendra Smith nella blueseggiante "Too Little, Too Late"), più Television che Jefferson Airplane. Basti ascoltare la saltellante "Definitely Clean", ritmo forsennato segnato da batteria e chitarra, o "Then She Remembers" - attacco alla Church e potenza sintonizzata sulle frequenze dei Radio Birdman.
Le fotografie sonore, irradiate dalla luce emanata dal dialogo serratissimo tra la chitarra pungente di Wynn e il feedback di Precoda (un deja vu dell'altra grande coppia dell'acid rock Kyser/Kunkel) sono messe perfettamente a fuoco. Il muro di feedback dello scudiero marchia indelebilmente con il simbolo DS pezzi come "Halloween", in cui un originale assolo sugli armonici e sulle note alte conduce a un finale sfumato, indefinito, infinito...
Le atmosfere dipingono scenari di claustrofobia urbana e le tensioni nervose di adolescenti perduti ai margini delle metropoli. L'impatto finale, grazie anche a malsane liriche che affrontano alienazione e crisi maniacali, è melodrammatico come un film in bianco e nero degli anni 60. Non a caso, considerando la passione di Wynn per il cinema hollywoodiano degli anni d'oro, il titolo dell'album s'ispira all'omonimo film di Blake Edwards, una denuncia dell'alcolismo con protagonista Jack Lemmon. Dirà Wynn che "la quasi totalità della vita quotidiana è mondana, ma almeno un 5% è composto di paura e panico ed è proprio questo terrore strisciante che ci fa godere appieno la pace del tempo restante". La sua attenzione di compositore, perciò, si focalizzerà spesso e volentieri su questa parte oscura del nostro animo.
Trattasi di disco crudo e sincero come pochi (parte del merito va attribuito alla produzione di Chris D., carismatica guida dei Flesh Eaters) e in tal senso capolavoro del garage tout court (la stessa "Until Lately" che pure ha un incipit più raffinato con passi soffusi da pantera rosa e atmosfere jazzy raggiunge il climax grazie alla ritmica saltellante e all'armonica sixties che imposta un serratissimo dialogo con il feedback di Precoda) e per questo motivo da molti apprezzato ed esaltato in misura anche maggiore rispetto al successivo, levigato, Medicine Show.

Nonostante il plauso della critica, tuttavia, nello stesso anno i Dream Syndicate subiscono un inaspettato colpo con l'abbandono di Kendra Smith, che fonda i Clay Allison per poi convergere negli Opal con Dave Roback. Sarà sostituita da Dave Provost dei Droogs.
Album ed Ep (con l'aggiunta di alcuni demo e del primo, rarissimo singolo del 15 Minutes) saranno ripubblicati insieme nella ristampa Rhino del 2001.
Tell Me When It's Over del 1983 è un Ep interlocutorio di quattro brani (tra cui le già note "Tell Me When It's Over", "Some Kinda Itch" e "Sure Thing") da ricordare solo per la cover asprigna di "Mr. Soul" dei Buffalo Springfield.

Una Medicina spettacolare

Nonostante l'outlook negativo, nel 1984 arriva il secondo capolavoro, completamente differente dal precedente fin dai suoi presupposti.
Se The Days Of Wine And Roses era un disco spontaneo, immediato, registrato in soli tre giorni, un vero prodotto indie-pendente, Medicine Show (A&M, 1984), pubblicato da una major come la A&M, richiede cinque lunghi mesi di prove estenuanti e un certosino lavoro sugli arrangiamenti e sulle sonorità. Deus ex machina della produzione è, a sorpresa, il metallaro Sandy Pearlman, già responsabile in consolle per i Clash di "Give 'Em Enough Rope"e per i Blue Oyster Cult, in cui il gruppo nutre grande fiducia. A testimonianza di ciò, Precoda chiamerà il suo futuro power-trio Last Days Of May, in omaggio alla ballata "Then Came The Last Days Of May" apparsa nel '72 sull'omonimo debutto dei Blue Öyster Cult.
Il suono è ora più potente, compatto, con la voce in posizione preminente. Senza Kendra Smith e con Dave Provost si cambia rotta, e c'è spazio per alcuni significativi inserimenti. Stephen McCarthy e Sid Griffin dei Long Ryders ai cori e Gavin Blair dei True West a far da controcanto ma, soprattutto, il pianoforte di Tom Zvoncheck, fortemente voluto da Pearlman e decisivo nel delineare i confini della nuova proposta musicale.
L'iniziale "Still Holding On To You" chiarisce in modo netto, fin da subito, gli intenti di Wynn. L'intro acida di chitarra e il finale con uno zuccherino coretto pop rappresentano l'alpha e l'omega, il passato e il futuro, vale a dire la volontà di ricercare un consenso più ampio partendo da caratteristiche primigenie irrinunciabili, ma ripulendole e integrandole in un contesto più accessibile e fruibile. Questo dal punto di vista musicale. Discorso diverso per i testi, che non cedono a compromessi e disegnano i contorni di un violento noir metropolitano, ispirato dalle letture "gialle" del leader. Si tratta, infatti, essenzialmente di un'opera cantautorale pregna di epica, sulla strada tracciata da Springsteen, ma allo stesso tempo oscura e pessimista, condita da passioni necrofile, pulsioni incestuose e folli stupri a disgregare romantici sogni giovanili.
La spina dorsale è costituita per la prima volta da vere e proprie "canzoni", composizioni archetipiche, in cui la melodia pretende il primo piano, occupa gli spazi e, come gli orologi dei quadri di Dalì, si dilata all'infinito, fondendosi, oltrepassando i meri limiti spazio-temporali per porsi in una dimensione "altra". In primis "Bullet With My Name On It" che, come ad esempio una "My Sweet Lord" di George Harrison o "God Only Knows" dei Beach Boys, possiede un ritornello immortale che rimbomba in testa come un'eco. In più l'apertura è solenne, come la "Backstreets" del Boss mentre l'atmosfera allucinata da pistoleri del vecchio west in cura con gli ansiolitici la rende decisamente unica. L'atmosfera generale del disco, infatti, pur descrivendo un urbanissimo hic et nunc, rievoca la polvere sui sentieri selvaggi di John Ford; il "Medicine show" del titolo altro non era se non un tipico spettacolo da imbonitori di frontiera.
Wynn e Precoda danno vita a schermaglie chitarristiche infuocate alla pari di quelle tra Bruce Springsteen e Little Steven (la citazione non è casuale in quanto Wynn racconterà di aver trovato la sua strada sonora allorquando vide il Boss suonare il solo di "Candy's Room" nel Darkness Tour del '78) mentre la produzione di Pearlman incide pesantemente sull'hard rock oppressivo di  "The Medicine Show".
È a Zvoncheck che vanno però riconosciuti i meriti maggiori nella definizione di un suono che resterà inimitato. Dall'intro pianistica à-la Bittan di "Merritville" (con il suo ritornello liberatorio) alla ritmica incalzante di "Armed With An Empty Gun", in cui la voce recitata di Wynn smuove ombre oscure nascoste agli angoli di vicoli periferici.
Capolavoro nel capolavoro, il ritmo oppressivo e i contorsionismi da ballerine bulgare impazzite di "John Coltrane Stereo Blues", composizione a dieci mani (Kendra Smith compresa) che esplicita la passione per il jazz degli anni 50-60 da parte del front leader e soprattutto l'attrazione per il flusso creativo libero e continuativo di personaggi come Thelonious Monk, Miles Davis e (per l'appunto) John Coltrane.
Un lavoro quasi perfetto, le cui uniche lacune compositive, a stento rappezzate con il ricorso a futili cori, sono rintracciabili nella semplice ritmica danzereccia da saloon di "Daddy's Girl" o nella lentezza esasperata della recitata "Burn" che ritroveremo più avanti riproposta in forma smagliante.

Il gruppo, in questo periodo, fa da spalla in concerto a Rem e U2, ma il disco non vende comunque secondo le aspettative. Anche Precoda getta la spugna e la A&M scarica la band, arrivando addirittura a pagare di tasca propria per ottenere la rescissione del contratto. Wynn cammina sul filo del rasoio alla ricerca di uno spiraglio di speranza, ma l'avventura dei Dream Syndicate parrebbe giungere al termine in una torrida estate dell'84.
La rescissione arriva comunque non prima di aver dato alle stampe l'album dal vivo This Is Not The New Dream Syndicate Album... Live! (A&M, 1984), all'epoca rimasto nell'oscurità e rinvigorito dall'inserimento con il suo predecessore nella ristampa del 2010. Solo cinque brani molto energici (quattro dell'ultimo disco, in particolare "The Medicine Show" e "John Coltrane Stereo Blues") registrati in concerto e trasmessi all'epoca dalla radio WXRT di Chicago ravvivati da una maturità che ridisegna i contorni più netti della "Tell Me When It's Over" del primo disco, con un'intro classicheggiante del pianoforte di Zvoncheck che riconduce, nuovamente, alla classe e alla pulizia formale di Roy Bittan.
In formazione c'è già un altro bassista (il giovane Mark Walton) e, per l'ultima volta, compare la chitarra di Precoda, che, dopo un'apparizione nel supergruppo Rainy Day, si dedicherà a un proprio progetto musicale, i Last Days of May, come già detto.
Precoda è in realtà già un'ombra che va allontanandosi, lasciando la scena a Zvoncheck; il suono, infatti, è decisamente meno chitarristico e acido e più pianistico e interpretativo. Con risultati positivi, soprattutto in "The Medicine Show", con punteggiature ragtime e un assolo a metà con scale crescenti e decrescenti, e nello sfrenato rockabilly di "Armed With An Empty Gun". Ma anche negativi. Da condannare, senza condizionale, l'appiattimento di "Bullet With My Name On It" in una versione leggera e molle, in cui mancano come l'aria i ghirigori sulla sei corde di Precoda. Altrettanto dicasi per "Tell Me When It's Over", piu pulita e compatta rispetto all'originale ma poco tagliente. Lo sfogo di Precoda è tutto nella finale, interminabile, "John Coltrane Stereo Blues", i suoi ultimi nove minuti di schitarrate in libertà.

Fuori o dentro il grigiore?

Dream SyndicateNel 1985 Steve Wynn pubblica, insieme a Dan Stuart dei Green on Red (ancora per la A&M) l'album "The Lost Weekend" a nome Danny and Dusty.
Il terzo album, Out Of The Grey, esce nel 1986 per la Big Time Records con una nuova formazione (oltre a Wynn e Duck, Walton al basso e Paul B. Cutler (proveniente da esperienze punk con Vox Pop e 45 Grave) alla chitarra solista.
Cutler ha uno stile decisamente più lineare e meno creativo rispetto al free form di Precoda e porta tale caratteristica anche in fase di produzione, di cui si occupa direttamente. Il risultato è un album di taglio più leggero, dal sound radiofonico, ove le divagazioni strumentali vengono considerate superflue se non nocive e, pertanto, pressoché abolite. È l'ennesimo tassello di un percorso che ha visto passare i DS dal post-punk al rock più vigoroso e ora a un pop dal taglio decisamente molto classico.
Anche la penna di Wynn si adegua al basso profilo, portando in dote liriche poco ispirate. Il cambio di rotta si intuisce fin dalla intro iniziale della title track, aperta, ariosa, sempliciotta e con il primo ritornello che non nasconde il desiderio di rilassarsi in balia di melodie leggere come nuvole.
I richiami al Paisley sono pallide influenze, come in "Forest For The Trees", dall'apertura sognante e dalle ariose linee di chitarra, mentre in parecchi frangenti, come in "Drinking Problem", ci si adagia stancamente sul country rock più banale. "50 In A 25 Zone" è un pezzo bluesy appesantito da una batteria monotona tipica di quegli anni e da un duro assolo di Cutler privo di creatività. L'attacco acustico di "Blood Money" è ingannevole, lascia presagire qualcosa di buono ma poi si rivela come banale prodotto commerciale; sotto il vestito niente, per parodiare un classico film di quegli anni. L'abisso qualitativo dell'intera carriera dei DS viene raggiunto da "Dancing Blind", disco dance di stampo eighties con l'aggravante di un irritante assolo Aor.
Ci sono comunque anche pezzi che della loro soavità si fanno forti, tipo "Slide Away", dal gustoso attacco spensierato che fa rimembrare classiche college band a far da colonna sonora a film adolescenziali, oppure "Dying Embers", che affianca un ispirato giro di chitarra introduttivo a un coinvolgente gancio pop; tenera e svolazzante con tanto di "la-la-la" di Wynn. "Now I Ride Alone", invece, è un intruso di ispirazione blues, un racconto metropolitano oscuro con tanto di redenzione finale che potrebbe essere un'eredità di Medicine Show o un'anticipazione del disco successivo.
Un discorso a parte merita "Boston", ballatona dal sottofondo chitarristico con l'immancabile sintetizzatore marchio degli anni 80 e un ritornello edulcorato come una Dietorella che ritroveremo, completamente trasfigurata, nel Live at Rajis. Lo spensierato saluto finale è affidato alla swingante "You Can't Forget", che lascia nell'aria un alone leggero leggero come l'intero disco.

50 In A 25 zone è il mini Lp che ne consegue, con cinque cover e un originale di Steve Wynn. Le cover stupiscono per la scelta, affiancando Bob Dylan e Neil Young ad Alice Cooper e Herb Alpert.

La riapparizione dei fantasmi

Una lunga pausa di riflessione, assolutamente necessaria dopo le ultime deludenti prove, pone i Dream Syndicate al di fuori dei confini sonori dell'epoca.
A sorpresa, Wynn e i suoi riappaiono sulla scena nel 1988 per quello che resterà l'ultimo album in studio. Ghost Stories (Enigma, 1988) ospita Chris Cacavas dei Green on Red alle tastiere, alla fisarmonica e ai cori ed è frutto di una lucida analisi finalizzata a incontrare i gusti di un pubblico più ampio - senza scendere verso le bassezze pop di Out Of The Grey ma rievocando certe atmosfere dei giorni migliori.
La strada passa innanzitutto per la ritrovata vena compositiva del leader, che imbastisce veri e propri racconti musicati. Canzoni per tutti, molto lineari ma certamente più ispirate e concrete di quelle dell'album precedente. Per certi versi si può azzardare un paragone con l'opera cantautorale dei Thin White Rope, vale a dire "Sack Full Of Silver", anche se il risultato finale resta lontano.
Gli attacchi e i ritornelli sono le fondamenta su cui si reggono quasi tutti i pezzi. Dall'attacco di gran presa di "The Side I'll Never Show" all'incipit potente à-la E Street Band di "Loving The Sinner, Hating The Sin". Quest'ultima è costruita furbescamente nella febbrile attesa del chorus stesso, con le parti centrali di chitarra a rievocare ancora una volta le mitiche schermaglie di Bruce e Steve, mentre il ritornello di "Black" si nutre di potenti immagini epiche.
E poi tanta chitarra, ripulita dalle scorie acide del passato e introdotta ai banchetti dell'alta società a far da accompagnatrice a una voce anch'essa mai così chiara e rassicurante. L'esempio è la chitarra piena e grintosa, con tanto di assolo hard tirato ma giudiziosamente incanalato della stessa "The Side I'll Never Show".
A rendere un po' più calda l'atmosfera ci pensa una serie di pezzi fondati sulla grammatica del rock americano, del blues, del folk e del country: "My Old Haunts", sincopata ballata midtempo alla Marty Robbins interpretata come una cabarettistica "Alabama Song" brechtiana, la cover del bluesman degli anni 20 Furry Lewis (già celebrata da Blind Lemon Jefferson) "See That My Grave Is Kept Clean", che adatta la classica struttura chiamata/risposta a un più fruibile linguaggio pop-rock ma, soprattutto, l'accoppiata "Whatever You Please"/"Weathered And Torn". Angeli e demoni. Un lento strategico da smaliziato entertainer e un hard-boogie roco e distorto a contrapporsi nel giro di pochi minuti, tanto per far capire che sotto sotto arde ancora il fuoco della passione.
"Someplace Better Than This" è un unicum della produzione dei DS, una serenata notturna recitata alla ragazza amata, una carola natalizia per cuori puri sospesa fuori dal tempo.
I pezzi più leggeri sono "I Have Faith", che volteggia nell'aria frizzantina del Paisley con schitarramenti jingle jangle à-la Byrds, e "When The Curtain Falls", prescindibile strascicato che si allunga stancamente sullo stesso giro di chitarra con una batteria monotona e una voce stanca prima di un assolo degno del Gilmour più paraculo, che ritorna in circolo senza sbocchi né vie d'uscita.
La ristampa Restless/Rykodisc del 2004 contiene otto interessanti pezzi registrati live per la trasmissione radiofonica al 89.9 KCRW il 9 dicembre 1987 da un fantomatico Steve Wynn Quartet e dai DS con Chris Cacavas. Una versione anomala (piano e flauto) di "Whatever You Please", un paio di inediti, cover (il boogie danzereccio da saloon di "I Ain't Living Long Like This" del cantante country Rodney Crowell, la blueseggiante "Spill The Wine" di Eric Burdon con i War) e canzoni poi riprese da Steve Wynn come artista solista ("Carolyn", che porta alla mente la spensieratezza dei La's di "There She Goes" e "Never Ending Rain", sdraiata in completo relax sulle spiagge della West Coast).
Dell'energia live si giova soprattutto "When The Curtain Falls", riproposta in versione più grintosa, ritmata, veloce, con una strumentazione più "cattiva" e un'interpretazione ficcante. "If You Should Ever Need A Fool" è una ballatona midtempo con l'organo di Cacavas a tessere atmosfere cinematografiche, mentre in "Darlin' They Know" si respira inebriante aria celtica con fiddle e banjo in prima linea.

Finale col botto

Live At The Raji's (Enigma, 1989) è semplicemente uno dei più grandi dischi dal vivo di tutti i tempi. Il testamento finale dei Dream Syndicate, uscito postumo appena dopo lo scioglimento, è l'epilogo che sancisce definitivamente la fine di un'epoca di illusioni. Registrato il 31 gennaio 1989 al piccolo club Raji's di Hollywood poco dopo l'uscita di Ghost Stories, pesca democraticamente dai primi tre album, tralasciando completamente proprio l'ultima prova in studio. In formazione a quartetto, senza tastiere, la chitarra di Cutler (appoggiata a quella del leader) trova finalmente la sua ragion d'essere e graffia più che mai, riuscendo per la prima volta a non far rimpiangere Precoda. Gli undici brani acquistano nuova linfa vitale ed evidenziano peculiari caratteristiche rispetto alle versioni già conosciute.
Seguendo la scaletta, "Still Holding On To You" è una muraglia cinese di chitarre, più graffianti rispetto alla versione di Medicine Show. In "Forest For The Trees" i Dream Syndicate paiono dei Cure invasati per l'hard-rock. Notevole il riff che intercala i vari momenti della canzone per crescere nel finale ed entrare in un loop che si avvinghia all'ascoltatore, stringendolo come un serpente fra le sue spire fino allo stordimento.
Partenza circospetta con basso e piatti per l'articolata "Until Lately", in cui la voce entra con timoroso rispetto prima di cedere il passo a una sequenza ansiogena di stacchi e sincopi. La seconda parte è un delirio che nasce da un veloce assolo metallico di Cutler e cresce nei vocalizzi da lupo mannaro di Wynn che urla, racconta, ride, in un dialogo folle con la sei corde di Cutler. "That's What You Always Say", dopo una lunga presentazione di Wynn, aggredisce con il consueto muro di suono e un assolo estenuante di Cutler in un crescendo sulle note alte. Con "Burn" l'usuale assolo di Cutler si fa finalmente più acido e meno metallico mentre il finale è un veloce crescendo, secondo lo schema ricorrente Wynn/Cutler/Wynn.
"Merritville" viene presentata con un attacco lento e acustico di sola chitarra e con un lento upgrade strumentale che porta alla pienezza solo dopo quattro minuti. Il ritornello di "The Days Of Wine And Roses" è una sorta di veloce scioglilingua senza respiro di oltre 5' prima che abbia inizio una sorta di rito voodoo officiato dalla voce sciamanica di Wynn sui rumorismi disturbanti di Cutler. Il finale di "The Medicine Show" parrebbe sfumare piano piano con sola voce e chitarra ma sorprende invece con una improvvisa ripartenza sotto una grandinata di note.
In "Halloween" è da evidenziare la parte centrale: una selva oscura impregnata di pece che disorienta i viandanti sperduti e li annienta con furia distruttiva. Come abbiamo già detto, "Boston" è tutt'altra cosa rispetto alla versione presente su Out Of The Grey, con i sessanta secondi finali che sono quanto di più potente i Dream Syndicate abbiano mai prodotto. Gran finale con "John Coltrane Stereo Blues", un delirio onirico di oltre dodici minuti con l'armonica di Peter Case a incidere sostanzialmente sulla qualità del suono, riportando indietro l'orologio ai '60 più psichedelici, nel dialogo infuocato con le distorsioni di Cutler e una ritmica beat trascinante. Quando, dopo 8' 40", si torna al minimale riff iniziale come se nulla fosse, è accaduto invece tutto il possibile (e forse anche impossibile), musicalmente parlando. Giustificato, pertanto, il fatto che l'unico ringraziamento speciale del disco sia indirizzato proprio a Peter Case.
Giustificato anche il fatto che la leggenda dei Dream Syndicate venga tramandata da un'opera come questa, dal momento che l'improvvisazione live è sempre stata uno dei capisaldi del modo di far musica di Steve Wynn. Citando le sue parole: "Cerco di catturare un momento, di afferrare quella frazione di tempo in cui non si sa dove sta andando l'assolo e ti senti in pericolo in ogni istante. Ciò significa catturare l'attimo esatto al momento esatto e anche la possibilità di perdere tutto".

La ristampa del 2004 su doppio cd, ribattezzata The Complete Live At Rajis (Restless/Rykodisc), ripropone l'intero concerto comprensivo di quattro brani in più. L'iniziale cover blues "See That My Grave Is Kept Clean", una "When You Smile" dalla resa complessiva insoddisfacente e giustamente scartata, la dylaniana "All Along The Watchtower" con un insolito finale giocato tra morbidezza e rumorismo ma, soprattutto, una versione deflagrante di "Tell Me When It's Over", incomprensibilmente esclusa dalla versione primigenia del disco.

Dream Syndicate - Steve WynnThe Days Before Wine And Roses (Normal, 1994) è invece reperto archeologico di importanza fondamentale, non certo per la qualità sonora ma per comprendere pienamente il percorso compiuto dalle origini free alle quadrate composizioni della maturità.
È il 5 settembre 1982 quando a Los Angeles, allo Studio ZZZZ di North Hollywood, i Dream Syndicate, con alle spalle un Ep d'esordio già mitizzato e in attesa di pubblicare il primo album, interpretano una serie di brani per la radio californiana KPFK.
La leggenda narra che a quello show fossero accorsi tutti i padri fondatori del Paisley, dai Green on Red ai Rain Parade, dalle Bangles ai Rem.
In ogni caso è storia vera l'influenza di quello stile musicale oscuro, sottile, ipnotico, sulle future opere dei gruppi citati. In particolare, è qui più che mai evidente l'ispirazione essenzialmente libera e fluente dell'esecuzione. Libertà di matrice jazzistica, nata dall'amore di Wynn per tipi come Ornette Coleman e John Coltrane. E proprio l'anima di John Coltrane arde nel fuoco di quella "Open Hour" che due anni più tardi (ribattezzata ad honorem) sarebbe divenuta l'antemico "Stereo Blues" di chiusura di ogni show.
L'opera nel complesso, riascoltata ad anni di distanza, con il suo lento indugiare sulle singole note e il suo elogio del silenzio, potrebbe anche essere celebrata come un'anticipazione ante litteram dello slowcore. In particolare "Some Kinda Itch" è qui cupa e acida, con la chitarra da subito libera di divagare nei meandri più oscuri della mente; "That's What You Always Say" si autoalimenta da una partenza in souplesse fino a formare onde di energia musicale che si schiantano sul bagnasciuga del ritornello, "When You Smile" è un doloroso lamento mentre la cover della donovaniana "Season Of The Witch" annebbia i sensi con un andamento alla Low ma, proprio quando le forze paiono venir meno, si scatena in un sabba infernale. "Sure Thing" è frutto agrodolce dal finale canto liberatorio rituale.
C'è spazio anche per altre due cover cantautorali che rappresentano appieno la personalità artistica di Wynn: "Mr. Soul" dei Buffalo Springfield di Neil Young, molto ritmica, che evidenzia il lato folk acido e la dylaniana "Outlaw Blues" pregna di energia rock. "Open Hour" lascia ampio sfogo alle chitarre, libere di incrociarsi e abbandonarsi all'oblio della ragione, per raggiungere il tempo del sogno di ancestrale memoria; là dove tutto diviene possibile e le barriere architettoniche e spirituali cessano di esistere. La voce liberata dalle chitarre non vuole saperne di zittirsi. È un continuo richiamo, un inseguimento, la fuga, una reazione rivoluzionaria.
E poi quella "The Days Of Wine And Roses" che, pur essendo posta alla fine, è in realtà un inizio. Di tutto quello che abbiamo fin qui raccontato.

It's Too Late To Stop Now... Isn't It? (Another Cowboy Recording, 1989) dello stesso anno è un puzzle in sedici pezzi (oggi di difficile reperibilità), composto da brani dal vivo, demo, versioni alternative e outtake dagli album ufficiali. Nella lista figurano anche cover di "Listen To The Lion" (Van Morrison) e "Cinnamon Girl" (Neil Young) da un live del 1987, a testimoniare, ancora una volta, le passioni rock mainstream e cantautorali di Wynn.

3½; The Lost Tapes 1985-1988 (Atavistic Normal, 1993) risale al periodo dell'ultima formazione e la scaletta propone sessioni di studio inedite, tra ballate rock ("The Best Years Of My Life"), esercizi cantautorali e omaggi country (la già citata "I Ain't Living Long Like This" di Rodney Crowell).
Al termine di questa lunga avventura, Wynn farà da solo e la sua carriera solista richiederebbe una specifica monografia per la quantità più che per la qualità della produzione. Cutler, dopo aver lavorato a oscure produzioni sperimentali, si impegnerà con gli International Metal Supply, gruppo strumentale di Los Angeles. Mark Walton si riciclerà con i Continental Drifters, insieme a Vicki Peterson delle Bangles. Dennis Duck, ormai prossimo alla cinquantina, riunirà gli Human Hands, la sua prima band. Di Precoda con The Last Days Of May si è già accennato, così come di Kendra Smith, mentre di Dave Provost si sono perse le tracce.

Anche se, attenendosi alle dichiarazioni rilasciate in passato da Wynn, appariva altamente improbabile una reunion del gruppo, ecco, nel 2012, la sorpresa. Il leader, infatti, ha deciso di ricompattare i Dream Syndicate per il trentesimo anniversario dell'album The Days Of Wine And Roses. Le informazioni sono ancora scarse, ma da quanto si apprende le sole date al momento confermate sono quelle in terra spagnola.

A cinque anni da quell'annuncio, i Dream Syndicate di Wynn hanno dunque solcato i palchi di mezzo mondo, e nel frettampo approntato nuovo materiale. Il nuovo album How Did I Find Myself Here? (2017), a quasi trent'anni dallo scioglimento, vede di nuovo Wynn attorniato dal batterista storico Dennis Duck, il bassista Mark Walton e un chitarrista in sostituzione di quel Paul Cutler che li accompagnò nell'ultimo decorso, Jason Victor (comunque proveniente dai Miracle 3 dello stesso Wynn).
Il risultato stavolta è un affare revisionista. Dai tributi ai compagni di avventure Rem U2, “Filter Me Through You” e "Glide", i quattro passano a esplorare i nuovi psichedelici che nel frattempo, dall'epoca dello scioglimento, hanno apprezzato: i secondi Mercury Rev (la lunga e un po’ smorta “Kendra’s Dream”)Jason Pierce (“Out Of My Head”), fino agli A Place To Bury Strangers (“80 West”, la più scossa). C'è comunque una jam delle loro, la title track di undici minuti, uno shuffle lento e tossico che passa in rassegna più stili chitarristici in un'altalena di ritornelli brucianti. Non immune alla pompa tipica delle opere di rentrée, e con dei toni sovreccitati un po’ sospetti, ma c’è tutta l’armatura del caso, la forma-canzone ruspante, una produzione che compatta tutto.

Che How Did I Find Myself Here? non fosse un disco dettato dalla nostalgia dilagante verso certi suoni psichedelici, o dalla smania revivalista di questi anni, lo si capì subito. Se Steve Wynn e compagni erano tornati dopo quasi trent’anni dal disco precedente era per fare sul serio. Il lungo e trionfale tour e “3X4” (compilation in cui i Dream Syndicate, le Bangles, The Three O’Clock e i Rain Parade, praticamente mezza scena Paisley, si fanno le cover a vicenda) confermò la sensazione, tanto che la pubblicazione di questo “These Times” non ci ha sorpresi. Tanta erano l’energia, l’entusiasmo e l’ispirazione messe finora in campo, che un sophomore (del ritorno) ce lo si aspettava.
Il suono di These Times (2019) è quello che conosciamo tutti. Paisley Underground bollente, con il basso bene in vista e i riff irruenti delle chitarre sempre pronti a distendersi nella spiritualità del deserto. Ma questa volta c’è anche tanta voglia di sporcarsi le mani con tanta materia psichedelica di matrici diverse: il kraut, la New York dei Velvet Underground, i Wall Of Voodoo.
Dopo una breve e scoppiettante intro in salsa sixties intitolata non a caso “The Way In”, è subito tempo del primo squarcio psicotropo del viaggio. Prima con “Put Some Miles On”, autobiografia dettata à-la Lou Reed su sfrecciare di chitarre che fendono il cielo come comete. Poi con “Black Light”, babilonia di ritmi desertici, canti indiani e linee di banjo tex-mex. È poi la volta di due ballate dal forte retrogusto 80’s: “Bullet Holes” e “Still Here Now”, brano mutevole, quest'ultimo, prima trascinato dal pianoforte, poi traforato da un solo di chitarra incandescente targato “The Medicine Show”. Scioglie le briglie del disco la corsa forsennata dei sintetizzatori di “Speedway”, che fa scontrare le intuizioni di Stan Ridgway con i coretti degli Who. E’ invece lenta e ammiccante “The Whole World Is Watching”, guidata da un giro di basso che se l’avesse sentito Tarantino ce lo ritroveremmo in “Once Upon A Time In Hollywood”. “Space Age” cala il riff più pesante del disco nello spazio siderale, dove Wynn declama come uno sciamano uscito da “Guardians Of The Galaxy”, con convinzione e credibilità di quelle che ci si può guadagnare solo con una carriera da decano della scena psych. Molto spirituale e più rilassata è invece la chiosa “Treading Water Underneath The Stars”, dove un basso ringhiante si rilassa progressivamente per passeggiare con il pianoforte e le chitarre elegiache e fluenti.
La grande varietà offerta dal disco fa pensare, più che a un capitolo fuori tempo massimo della saga Paisley, a un’opera di psichedelia totale, nella quale si potrà trovare qualche momento meno originale di altri, ma risulterà difficile skippare anche solo una canzone. 

Nel suo presentarsi come un liquido e versatile flusso psichedelico, sgorgato da lunghe jam in studio d’altri tempi, The Universe Inside è un’adesione totale a questa assenza di schemi, un viaggio free form che rifiuta ordini e predeterminazioni.
L’unica concessione al passato di gran scrittore di canzoni di Steve Wynn sono alcune, penetranti frasi pronunciate dal cantante con la solita cadenza reed-iana in “The Longing”. Ma sono briciole sparse in una non-canzone per adescare le prede più riluttanti al totale abbandono psicotropo, così come il fondale di parole che scorre dietro le trame astrali di “Apropos Of Nothing”, prima che la ciurma di vecchi manigoldi spaziali si avventuri in un inseguimento interstellare sulle coordinate degli Hawckwind.
Già rilasciato come singolo, il brano che apre il viaggio interiore di The Universe Inside, “The Regulator” è una virata scioccante dai canoni e dalle durate usuali dei Dream Syndicate, un monolite psichedelico di venti minuti e rotti che sparge nello spazio il lascito allucinato delle lunghe sessioni dei Grateful Dead e le scosse elettriche jazz di Miles Davis epoca "Bitches Brew". Dennis Duck e Mark Walton, motore ritmico del sindacato in entrambe le incarnazioni, sono infaticabili nel tracciare un percorso tra queste costellazioni psych-jazz, fin qui turbinanti, eternamente distese poi (“The Slowest rendition”). In “Dusting Off The Rust”, aguzzi sassofoni free jazz coadiuvano la sezione ritmica nel lavoro pneumatico di scrostatura, spostando il disco dallo spazio profondo al vecchio motore arrugginito di una cabrio abbandonata su una route desolata del New Mexico.
Jason Victor, chitarrista e uomo cardine dei nuovi Dream Syndicate, insegue le cavalcate di Wynn e il suono psichedelico perfetto, il graffio di chitarra capace di scardinare i meccanismi di difesa della psiche. Una ricerca sperimentale ma profondamente cosciente e riconoscente verso la tradizione, come quando ricalca una frase di “Third Stone From The Sun” di Hendrix addentrandosi nelle sue cavità più buie (“Apropos Of Nothing”).


La seconda vita dei Dream Syndicate ci riserva sempre soprese. La prima, nel nuovo Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions, è il passaggio di testimone dalla psichedelia “a briglia sciolta” del precedente “The Universe Inside” (ANTI-, 2020) al cantautorato più popolare, perfettamente rappresentato dalla proemiale “Where I’ll Stand”, addomesticando in qualche modo anche i bagliori, così come le asperità, presenti invece nei primi due dischi di questa seconda fase della carriera della band, “How Did I Find Myself Here?” (ANTI-, 2017) e “These Times” (ANTI- e Epitaph, 2019). Si ha anche l'impressione che Steve Wynn e soci abbiano trovato una quadra oltre le loro influenze più familiari – come Velvet Underground, Byrds e Neu! – e abbiano rinfrescato il loro sound guardando a una generazione più giovane, tra Sonic Boom e War On Drugs.
Oltre le roboanti rincorse kraut-psichedeliche del precedente eccellente lavoro, con Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions la band californiana cerca di ritrovare una forma-canzone più canonica attraverso brani più quieti, rotondi e melodici (“Damian”) guardando al canone del songwriting folk-rock moderno di Bob Dylan (“Lesson Numer One”) e Leonard Cohen (“My Lazy Mind”), così come a quello indie pop-rock dei Rem (“Trying To Get Over”). Nella scaletta si oscilla, con una generale omogeneità, tra brani pop-rock riflessivi (“The Chronicles Of You”) e ballate folk agrodolci (“Hard To Say Goodbye”), dove spiccano l’alchimia tra psichedelia, rock e pop di stampo californiano di “Everytime You Come Around” e la conclusiva cavalcata strumentale lisergica di “Straight Lines”.


Contributi di Michele Saran ("How Did I Find Myself Here?"), Michele Corrado ("These Times", "The Universe Inside") e Maria Teresa Soldani ("Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions")

Dream Syndicate

Discografia

The Dream Syndicate (Ep, Enigma/Demon, 1982)

6,5

The Days Of Wine And Roses (Rubi/Slash, 1982)

7,5

Tell Me When It's Over (Ep, Slash, 1983)

6

Medicine Show (A&M, 1984)

8

This Is Not The New Dream Syndicate Album (Ep, live, A&M, 1984)

6

Out Of The Grey (Atavistic/Big Time, 1986)

5,5

50 In A 25 Zone EP (Ep, 1987)

5,5

Ghost Stories (Enigma/Restless, 1988)

6,5

It's Too Late To Stop Now (Another Cowboy Recording, 1989)

6

Live At The Raji's (live, Enigma, 1989)

8,5

Tell Me When It's Over - Best Of The Dream Syndicate (antologia, Rhino, 1992)

6,5

3 ½; The Lost Tapes, 1985-1988 (Atavistic/Normal, 1993)

6

The Days Before Wine And Roses (live, Normal, 1994)

6,5

How Did I Find Myself Here?(Anti-, 2017)

6

These Times (Anti-, 2019)

7,5

The Universe Inside (Anti-, 2020)

7,5

Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions(Anti-, 2022)

6,5

Pietra miliare
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