Massimi vascelli di quel Paisley Underground che riportò in auge il rock psichedelico, aggiornandolo sagacemente alle lacerazioni dell'hardcore punk, i Dream Syndicate hanno lasciato - nonostante le defezioni di line-up e un verbo via via più accomodante - un pugno di album memorabili che spaziano dalla jam lisergica, che prende anche dal free-jazz, al roots con intonazioni di commentario importate dalla sacra tetralogia Usa (Dylan, Young, Springsteen, Petty), per poi eclissarsi in carriere soliste comunque non indegne.
A quasi trent'anni dallo scioglimento, escludendo live e raccolte varie, ma anche annoverando un periodo di riscaldamento di concerti a partire dal 2012, il sindacato del sogno californiano ritorna in studio per sfornare infine un quinto capitolo ufficiale, "How Did I Find Myself Here?".
Stavolta la band di Steve Wynn invece che capeggiare una rivoluzione procede per una semplice revisione, e nemmeno - come ci si potrebbe aspettare - della storia del rock psichedelico, ma della loro storia personale. Ci sono dunque, anzitutto, anthem sentimentali in stile tardi Rem, "Filter Me Through You", e tardi U2, "Glide", entrambi a loro volta riecheggianti i raga dei Byrds, e ballate accelerate e sfogate in stile quasi punk, "The Circle", con le liriche metafisiche di Wynn sgolate dietro un filtro.
Logicamente, seguono poi riferimenti al dopo-Dream Syndicate e infine al presente, come se a Wynn non fosse andato giù lo scioglimento e ora si ergesse, quasi per ripicca, a supremo giudice del rock lisergico sciorinando i nomi a suo avviso migliori comparsi durante la loro assenza: i secondi Mercury Rev (la lunga e un po' smorta filastrocca drogata di "Kendra's Dream", che appartiene prim'ancora ai Velvet lunari), Jason Pierce ("Out Of My Head", non così eccitante), fino agli A Place To Bury Strangers ("80 West", dai toni thriller, in effetti la più scossa dell'album).
Per fortuna arriva anche una discreta dose (se non altro per il minutaggio: undici minuti) di musica che fa brillare ancora il marchio di fabbrica, lo shuffle anemico, lento, tossico, livoroso della title track, una jam che esplora stili chitarristici in una passerella di crescendo tanto morbidi quanto impetuosi, inframezzata da strofe e ritornelli brucianti nello stile dei Crazy Horse.
Non immune alla pompa tipica delle opere di rentrée, e con dei toni sovreccitati un po' sospetti (scaccia-età), ma con una band seria come questa si va sul sicuro. C'è tutta l'armatura del caso, la forma-canzone ruspante, una produzione che compatta tutto. Quasi la stessa formazione dell'ultimo trascorso, con i due storici - Wynn e il batterista di sempre Dennis Duck - il bassista Mark Walton, più un chitarrista in sostituzione di Paul Cutler che gioca comunque in casa, mutuato dai Miracle 3 dello stesso Wynn, Jason Victor: non possiede le leggendarie scudisciate di Karl Precoda, ma sa come maneggiare il vetriolo d'accompagnamento. Cameo inudibile che sta solo per gli annali, Kendra Smith, omaggiata anche nel titolo di chiusa.
16/09/2017