Church

Church

Psych-pop sotto la Via Lattea

Raffinati interpreti di un pop psichedelico ed etereo, autori di uno degli inni del decennio 80 ("Under The Milky Way"), gli australiani Church si sono distinti negli anni per una coraggiosa ricerca sonora, proseguita negli anni con accenti più sperimentali

di Claudio Fabretti

Strano destino quello dell'Australia, nella storia del rock. Un continente intero è rimasto per anni sommerso dai pregiudizi anglo-americani della critica, pronta ad andare a scovare inaspettati talenti finanche in Galles e in Arkansas, ma decisamente più restia ad avventurarsi dalle parti di Melbourne, Sydney e dintorni. Per una band che riusciva a fare fortuna (ma solo dopo essersi trasferita in Inghilterra) come i Dead Can Dance, ne restavano tante altre destinate a una carriera più o meno nell'ombra (dai Saints ai Radio Birdman, dai Birthday Party agli Hoodoo Gurus, dai Go Betweens ai Died Pretty). Poi, l'ascesa di uno sciamano del calibro di Nick Cave ha contribuito alla riscoperta di questa sconfinata landa oceanica. Negli anni 80, però, da Sydney era già passata una meteora, destinata a lasciare una scia luminosa nelle chart e nei palinsesti radiofonici di mezzo mondo. Una meteora che viaggiava lungo le nebulose della Via Lattea, per la precisione. "Under The Milky Way" dei Church fu uno dei più scintillanti singoli pop del decennio. Un esempio dell'abilità prodigiosa di questa band nel saper miscelare refrain accattivanti e una psichedelia delicatissima, fondata più sull'ipnosi dei suoni che sull'aggressività tipica del filone neoacido californiano di Dream Syndicate e (successivamente) Thin White Rope. Ma non è finita certo lì. Bisogna quindi cercare di raccontare tutto il resto della storia di questi bardi pop d'Oceania, quella rimasta nell'ombra, offuscata dai pregiudizi e dagli ostracismi di cui sopra.

I Church si formano a Sydney nel 1980. Il futuro leader della band, il cantante e bassista Steve Kilbey, recluta il chitarrista Peter Koppes e il batterista Nick Ward. Prima del debutto, si aggiunge ai tre il secondo chitarrista, Marty Willson-Piper, inglese di Liverpool. Questa formazione dà vita a Of Skin and Heart (1981), un'evocativa raccolta di brani illuminata dal chitarrismo acido à la Television e dal melodismo beatlesiano di "The Unguarded Moment" oltre che dal pop atmosferico di "Tear It All Away". Pur discontinuo, il disco mette già in luce alcune delle peculiarità del gruppo: una ritmica corposa, teneri intrecci di chitarre debitori del "jangling" dei Byrds, atmosfere incantate ai limiti del dream-pop e un umore decadente che rimanda, anche nel canto di Kilbey, al Bowie glam e al Verlaine di "Marquee Moon".

Sostituito Ward alla batteria con Richard Ploog, il gruppo torna un anno dopo con The Blurred Crusade, che porta a maturazione il loro sound, proponendo ballate psichedeliche d'indubbio fascino scenico, come "Almost With You" e "When You Were Mine", dove affiorano anche i primi germi della successiva contaminazione "dark". La psichedelia atmosferica dei Church si fa al contempo più dilatata e più vicina ai territori della new wave.

Seance (1983) prosegue su questo spartito, infondendo qualche dose di melodia in più, ma perdendo qualcosa sul piano dell'intensità dei testi. La psichedelia retrò di "Travel by Thought" è più un'atmosfera che una canzone, il singolo "Electric Lash" non lascia il segno, ma pezzi come "Fly" e "Dropping Names" mettono a fuoco uno stile sempre più raffinato e suggestivo.

La produzione della band in questo periodo è piuttosto frammentaria: Remote Luxury (1984) cerca di fare ordine racchiudendo alcuni degli Ep pubblicati e sfoggiando soprattutto un brano ad effetto come "Shadow Cabinet" (chitarre vibranti, basso possente, assolo d'organo). L'album frutta al gruppo un contratto con la major americana Warner Bros., che pubblica il successivo ed eccellente Heyday (1986), anticipato dall'altrettanto valido singolo "Already Yesterday". Affinata e resa omogenea la babele di stili dei precedenti dischi, la band australiana corona il suo periodo "pop-psichedelico" con un album prezioso, che finalmente porta Kilbey e compagni all'attenzione dell'audience (quantomeno) dell'indie rock. Il chitarrismo trasognato di "Myrrh" si abbina a un crooning fatale, degno di maestri decadenti come Bowie, Ferry e Sylvian. "Tristesse" sprigiona massicce dosi di malinconia, affogate però in suoni ariosi, sempre più vicini a quelli dei loro maestri Beatles. "Tantalized" accelera violentemente il ritmo, con pulsazioni quasi dance, chitarre sempre più incalzanti e fiati r'n'b. I Church si concedono anche una sperimentazione tutta strumentale ("Happy Hunting Ground"). L'impronta "byrdsiana" della band, comunque, resta sempre profonda, come dimostra il singolo "Columbus". Nel complesso, un disco sorprendentemente incisivo, a cui giova anche la produzione sapiente di Peter Walsh.

Nel frattempo, Kilbey inizia una carriera solista, che frutterà una manciata di album - da Unearthed (1987) a Earthed (1988), da Slow Crack (1988) a Remindlessness (1990), da Narcosis (1997) a Gilt Trip (1997). In seguito, il leader dei Church si cimenterà anche in tre progetti paralleli: Hex, Jack Frost e Fake, senza tuttavia mai brillare. Egualmente mediocri si riveleranno anche le sortite solistiche di Willson-Piper (da In Reflection del 1987 ad Art Attack dell'anno successivo, da Rhyme del 1989 a Spirit Level di tre anni dopo) e di Koppes (Manchild & Myth del 1988 e From The Well del 1989).

Passati all'Arista, i Church si fanno affiancare da due esperti chitarristi come Danny Kortchmar e Waddy Wachtel per incidere Starfish (1988), che resta a tutt'oggi il loro disco più venduto. Non è tutto oro ciò che luccica nei solchi del Pesce Stella, in parte i Church rinunciano alle atmosfere psichedeliche dei loro lavori precedenti in favore di un pop più levigato. Ma basta già arrivare alla traccia numero 2 per strabuzzare gli occhi (o le orecchie). Come detto, infatti, "Under The Milky Way" è una delle pop-song capolavoro non solo dei Church, ma dell'intero decennio 80. C'è anzitutto la melodia, degna dei sogni più teneri della premiata ditta Lennon-McCartney. Poi c'è l'arpeggio di chitarra che, con i suoi crepitii siderali, introduce subito in un'altra dimensione: onirica, metafisica, galattica, fate voi... Se Verlaine strimpellava le sue serenate alla luna ("Marquee Moon"), i Church suonano "sotto la via Lattea". E una volta tanto, non è un synth a condurre in questo viaggio cosmico, ma il più "umano" degli strumenti: una chitarra, per di più acustica, accompagnata addirittura da un epico assolo, con la chitarra suonata con l'E-Bow, a mimare il suono delle cornamuse. E poi c'è il testo di Kilbey, che infonde malinconia a piene mani: "And it's something quite peculiar/ Something shimmering and white/ Leads you here despite your destination/ Under the Milky Way tonight".
Il soffice pop "sixties" di "Spark", pennellato dalla chitarra di Willson-Piper, e l'elettronica magnetica di "Reptile" aggiungono un ulteriore tocco d'eleganza a un disco ingiustamente bollato da parte della critica come quello della "conversione" dei Church al pop da classifica. Come spesso accade, sembra che le band dell'indie-rock siano inchiodate a un sortilegio: per poter conservare la loro credibilità, sono condannate a non poter mai avere successo. Ma se il suono dei Church ha potuto finalmente trovare un veicolo di diffusione nel mondo e se tanti appassionati hanno potuto in seguito scandagliare anche il resto della loro discografia, gran parte del merito va alle tenui melodie di Starfish.

I tre lavori successivi, Good Afternoon Fix (1990), A Quick Smoke At Spot's (Mushroom, 1991) e Priest Aura (1992) sembrano tuttavia segnare una fase di stanca nella carriera della band. Il terzo, registrato con l'ex batterista del Patti Smith Group, Jay Dee Daugherty al posto di Ploog, frutta quantomeno un paio di ninnananne d'atmosfera ("Ripple", "Feel"), ma questo non basta a fermare la diaspora del gruppo: anche Daugherty e Koppes, infatti, abbandonano la nave.

Il trauma, però, farà bene ai Church che si ripresenteranno al pubblico in una veste sonora parzialmente nuova, influenzata soprattutto dall'ambient-gothic della galassia Projekt (Lycia, Black Tape For A Blue Girl) e dallo slo-core celestiale dei Talk Talk. Sometime Anywhere (1994), con i soli Kilbey e Willson-Piper affiancati da Tim Powles (che figura però ancora come un membro non ufficiale della band), è un primo passo verso questo sentiero oscuro, segnato soprattutto da un più marcato ricorso agli strumentali "dilatati". Resta però una certa eterogeneità di stili che consente alla band di spaziare dalla divagazione etnico-strumentale di "Eastern" alla maliarda ballata di "Day Of The Dead", dal pop psichedelico di "Business Woman" al rock epico di "Lost My Touch". Il disco segna una delle più ardite scorribande sperimentali dei Church, ma anche la definitiva rottura con la Arista che, delusa per gli scarsi esiti commerciali, risolve il loro contratto.

Ma è il successivo Magician Among The Spirits (1996), inciso per la nuova etichetta Deep Karma, il vero capolavoro di questo nuovo corso. Con Tim Powles ormai in pianta stabile alla batteria, il gruppo australiano sprigiona del tutto quella vena drammatica e cupa che era sempre rimasta sullo sfondo delle sue ballate. La psichedelia "classica" (Pink Floyd, Grateful Dead) sposa così la tradizione gotica (dai Joy Division ai Lycia), il cantautorato noir (Nick Cave, Smog) e il pop orchestrale (Beatles, Byrds). Ciò che prima era timido e sommesso diventa ora maestoso e solenne, a cominciare dalla title track: quattordici minuti di psichedelia tribal-ambientale al rallentatore, con un ossessivo giro di basso e cacofonie sparse; il cantato di Kilbey occhieggia palesemente al Jim Morrison più languido, ma il riferimento più evidente sono forse i Pink Floyd di "A Saucerful Of Secrets". Emblematica fin dal titolo anche "Grandiose", che non sfigurerebbe in "Atom Heart Mother", con il solo chitarristico à la Young di Willson-Piper immerso in atmosfere estatiche, tra violini, mellotron, cori dissonanti ed echi cosmici.
Dorian Gray Kilbey mostra il suo volto più feroce in "It Could Be Anyone": otto minuti di puro incubo, con le figure horror del piano, gli archi invasati alla Nyman, il tam tam lascivo delle percussioni, i paranoici droni di chitarra, il canto filtrato e distorto, la tessitura di voci e atmosfere (verso la fine, viene persino richiamato il vocalizzo del monolite di "2001: Odissea Nello Spazio" firmato da György Lygeti). E' invece un predicatore folle alla Cave quello che intona l'apocalittica "Welcome" su un tappeto di tastiere decadenti, ed è sempre l'ombra del bardo di Melbourne ad aleggiare sulla ballata mesta di "Why Don't You Love Me". Ma i Church non pongono limiti alla fantasia: "The Further Adventures Of The Time Being" è una strana filastrocca sostenuta da un semplice arrangiamento, che sfuma in una lunga agonia "ambientale"; "Romany Caravan" è uno strumentale che mescola addirittura ritmi gitani con le frasi di violino e clavicembalo e con i vortici delle chitarre (acustica ed elettrica); "Afterimage" è un altro strumentale ipnotico alla Eno, costruito solo sui riverberi del piano, sugli arpeggi della chitarra acustica e su eteree frasi di synth. A mantenere un legame col passato resta il pop raffinato di brani come "Comedown" e "Lady Boy", che potrebbero essere usciti dalle session di Heyday o di Starfish.
Liberi finalmente dalle pressioni dei discografici e da condizionamenti commerciali, i Church raggiungono con Magician Among The Spirits il vertice sperimentale della loro arte.

Su Hologram Of Baal (1998) il suono sembra tornato quello "arioso" dei primi lavori, solo più appannato dagli anni. Il singolo "Louisiana", comunque, è una decorosa ballata nel loro classico stile. Ciò che non manca mai è l'anima psichedelica, compagna fedele della band: "Per noi la psichedelia è un'attitudine, un modo di porsi non solo come musicisti ma nella vita - ha spiegato Willson-Piper - Non amiamo parlare molto dei dettagli che fanno parte della nostra arte: quello che ci poniamo come traguardo è una specie di comunicazione empatica con chi ci ascolta".

A Box Of Birds (1999) raccoglie cover disparate, registrate in Svezia, dove Willson-Piper si è ormai trasferito (da "It's All Too Much" dei Beatles a "Cortez The Killer" di Neil Young passando per "Friction" dei Television). Ma solo un fan morboso potrebbe appassionarvisi.

After Everything Now This(2002) è invece un altro saggio del loro sound decadente e fatale. Domina un minimalismo ipnotico, con il canto di Kilbey sempre più bisbigliato e impalpabile. L'ammaliante "Numbers", la romantica title track (vicina a certi suoni targati 4AD), l'incanto onirico di "Invisible" e il jingle-jangle di "Chromium" riscattano qualche momento di leziosaggine e, in definitiva, di noia.

Ma il nuovo secolo è iniziato, e i Church, non si sa come, sono ancora lì. Pronti a impugnare le loro chitarre e a intrappolarci nelle spirali ipnotiche delle loro ballate.

Dopo il mediocre Forget Yourself (2004), esce così Uninvited, Like The Clouds (2006), annunciato solo da qualche entusiastica fanzine come l’ideale summa dei cinque lustri di vita della band di Sydney. Lo spettro sonoro, in effetti, si presenta molto ampio: melodie pop, languori romantici, dilatazioni ambientali, nebulose di synth, droni e tessiture chitarristiche quasi post si rincorrono lungo le 12 tracce, lasciando a tratti baluginare quel "something quite peculiar" che illuminava la notte sotto la Via Lattea.
Ciò che manca, semmai, è la fluidità, oltre a una visione d’insieme capace di donare compattezza all'intero progetto: Kilbey sa ancora scrivere canzoni, ma, più che alla linfa dell'ispirazione, si aggrappa alla classe e al mestiere, servendosi anche di arrangiamenti calibrati, con inserti di archi, tastiere, organi e mandolini. L’asse portante della band resta però l’intreccio tra il baritono soffuso dello stesso Kilbey e il chitarrismo bruciante del duo Peter Koppes-Marty Willson-Piper, corroborato dal drumming puntuale di Tim Powles.
Ampio spettro sonoro, si diceva, in una continua alternanza di mood agli antipodi: prendiamo ad esempio l’opener “Block”, inesorabile discesa nel baratro della psiche su un vortice scurissimo di chitarre, e il brano più pop del lotto, la solare “Easy”, festosamente strimpellata sulle corde del mandolino. O ancora il sinistro magma sonoro di “Space Needle” (che fa mangiare la polvere a tanti waver dell’ultim’ora) e il deliquio narcotico di “Untoward”, raffrontati all’esuberanza catchy di “Unified Field” (potenziale singolo, cui manca però un degno refrain) o alla dolcezza mesmerica di “She’ll Come Back For You Tomorrow”, che imbrocca una delle melodie più limpide del disco.
Sbalzi d’umore, dunque, ma anche improvvise sterzate sonore. Se infatti a prevalere è uno psych-pop atmosferico, unito a ninnananne lisergiche alla Echo & The Bunnymen (vedi la ballata dreamy di “Day 5”), non mancano episodi eccentrici: dalla psichedelia pastorale à-la Pink Floyd di “Never Before”, che pare strappata al songbook di David Gilmour, al blues spaziale di “Real Toggle Action”, fino alla classicheggiante “Song To Go”, vera perla dell’album, impreziosita da un organo a pompa e contrappuntata dallo splendido violoncello di Sophie Glasson.
Difficilmente Uninvited, Like The Clouds farà guadagnare nuovi fan ai bardi australiani, però, a venticinque anni dall'esordio, la classe di Kilbey e compagni non è scomparsa.

Il progetto successivo, El Momento Siguiente (2007), prosegue nel solco di El Momento Descuidado di due anni prima, presentando nuove versioni in chiave acustica di alcuni dei loro classici, più qualche inedito, come, la deliziosa "Song In The Afternoon", la strumentale "Comeuppance" a mo’ di titoli di coda e l’allucinata "Bordello".

Con Untitled #23 (2009) la band australiana festeggia trent'anni di carriera, riavvicinandosi alla forma migliore. Il sound sembra immutato, anche se le atmosfere pinkfloydiane si sono evolute sulle tracce dei Galaxie 500 e degli Air, ma è l’elevata qualità delle composizioni a convincere di più.
“On Angel Street” si eleva non solo per i suoni minimali, ma anche per il testo vissuto e poetico. Il singolo “Pangaea” è, al contrario, un’autentica pop-song, solare, seducente e priva di toni epici.
Ogni brano mantiene caratteristiche peculiari: “Cobalt Blue” introduce piccoli accenni jazz-lounge tra le pieghe di sonorità space-rock, “Happenstance” riporta ai tempi di Blurred Crusade, evidenziando la maturità raggiunta dai musicisti. Elogio particolare per Tim Powles, che in un contesto melodico e raffinato sfoggia una potenza sonora alla John Bonham, che rende energici anche i momenti più lirici dell’album, come “Sunken Sun”.
Tra i restanti episodi, “Space Saviour” e “Deadman's Hand” ribadiscono con gusto la buona verve del gruppo, mentre “Anchorage” innalza il climax dell’album con un incidere robusto di batteria, chitarre infuocate e riff psichedelici. L’intercalare sospeso della successiva “Lunar” annuncia un altro momento di gloria del disco, ovvero ”Operetta”, una riuscita sinfonia rock che evita barocchismi, sfoggiando invece un lodevole e raffinato lirismo.
L’assoluta libertà in fase anche produttiva sembra aver dato al gruppo l’energia e la passione necessarie per ricatturare l’attenzione del pubblico: trenta anni di carriera non potevano essere festeggiati in modo migliore.

Dopo tre anni esce il nuovo album, Further/Deeper contrassegnato dall’abbandono di Marty-Wilson Piper e dall’ingresso di Ian Haug (ex Powderfinger), un progetto dalle atmosfere leggermente più fumose ma anche più classiche. Riconoscibile e privo di un brano trascinante il ventiquattresimo album degli australiani accenna innovazioni senza portarle a fondo, a nuocere è in verità l’eccessiva lunghezza che non giova alla pur piacevole ripetitività della formula dream-pop/psichedelica.

 

Una maggior coesione e un passo più corto consolidano il nuovo corso della band con un album decisamente più brioso, Man Woman Life Death Infinity mescola Byrds, Bowie e Pink Floyd con una verve che rimanda agli esordi. Brani come “Before the Deluge” e “Undersea” entrano di diritto nel canzoniere migliore del gruppo, a questo si accoda una maggior coesione della nuova formazione, con la quale Steve Kilbey inizia a lavorare a un nuovo disco.

 

La genesi di The Hypnogogue incontra non poche difficoltà, tra le restrizioni causate dal Covid-19 e gli incendi boschivi che flagellano per anni l’Australia, ma il risultato è una delle opere più riuscite dei Church. L’album numero 26 degli australiani è non solo il più dichiaratamente affine al progressive-rock, ma anche il primo concept-album della formazione: le tredici tracce raccontano di un musicista rock affascinato da una macchina inventata da uno scienziato coreano che estrae musica dai sogni.
Kilbey e compagni mettono insieme un disco stilisticamente riconoscibile eppur diverso e concettualmente autonomo, dietro gli echi e i riverberi della voce di Kilbey si celano delizie chitarristiche degne dei tempi migliori, ovvero quando i Church carpivano i segreti del goth-rock e lo restituivano al candore della luce con sonorità elettroacustiche incantevoli (“Albert Ross”), o quando accoglievano l’energia della new wave accennando un lieve graffio chitarristico (“Antarctica”).
Pagine più semplici e prevedibili (“I Think I Knew”, ““Flickering Lights” e “Thorn”) creano un corpo unico con pagine finemente elaborate e ambiziose (il trionfo chitarristico di “No Other You” e il raffinato e opulento tono psych-rock di “Succulent”), il tutto ravvivato da canzoni liricamente potenti (“C'est La Vie”, “Aerodrome” e la title track) restituendo alla band tutta la potenza visionaria e il vigore delle pagine migliori.

Venduto durante il tour americano del 2023 e reso finalmente nel 2024 Eros Zeta And The Perfumed Guitars non è un semplice compendio all’ottimo The Hypnogogue, ma è la consacrazione del nuovo assetto della band. Il disco ripropone la trama letteraria e musicale del disco precedente, le canzoni concentrano l’attenzione più sulla coesione strumentale  con un brio più rock che alfine regala qualche piacevole sorpresa. L’uno-due esibito in apertura è decisamente convincente, la languida ballata pysch-rock “Realm Of Minor Angels” si sviluppa su canoni decisamente romantici e decadenti, spetta però a “Pleasure” il ruolo di brano da aggiungere al miglior canzoniere della band, le scintillanti note di chitarra e le ambientazioni decisamente psichedeliche creano un humus potente, che lo splendido riff di chitarra e la voce cupa di Kilbey trasformano in un piccolo gioiellino degno di album come Remote Luxury. Tentazioni pop (“Amanita”), nuance beat (“Korea”) e glam (“Song 18”)  rinnovano le fonti primarie della musica del gruppo australiano.

C’è anche un lato oscuro in Eros Zeta And The Perfumed Guitars, lo si percepisce nelle atmosfere più acide e post-punk di “The Immediate Future”, nelle vibrazioni dream-pop di “2054”, e nelle oniriche stratificazioni strumentali di “Sublimated In Song”. I Church osano e rilanciano prima con elettronica e fuzz guitars in “Song From The Machine Age”, poi con il blues nell'eccitante “The Weather”, e regalano una delle loro migliori paginje con una mini suite ornata di residui prog, decadentismo berlinese anni 80 e psichedelia da jam session nei dieci minuti di “A Strange Past”. Eros Zeta And The Perfumed Guitars è un disco che infine suggella il momento di grazia di un gruppo in costante ricerca della melodia perfetta, di quella canzone da consegnare al tempo per un nuovo culto pagano.

 

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Untitled #23", "The Hypnogogue", "Eros Zeta And The Perfumed Guitars")

Church

Discografia

Of Skins And Heart (Parlophone 1981)

6

The Blurred Crusade (Parlophone 1982)

6

Sing Song (Ep, Parlophone 1982)

Seance (Parlophone 1983)

6,5

Remote Luxury (Parlophone 1984)

6

Heyday (Parlophone 1986)

7,5

Starfish (Arista 1988)

7

Conception (Carrere 1988)

Good Afternoon Fix (Arista 1990)

Priest="Aura" (Arista 1992)

6,5

Sometime Anywhere (Arista 1994)

Magician Among The Spirits (Deep Karma/White 1996)

8

Almost Yesterday (Raven 1996)

A Hologram Of Baal (Festival 1998)

7

After Everything Now This (Thirsty Ear 2002)

5,5

Parallel Universe (Thirsty Ear 2002)

Forget Yourself (Cooking 2004)

5

El Momento Descuidado (Cooking, 2005)

Uninvited, Like The Clouds (Cooking 2006)

6

El Momento Siguiente (Cooking, 2007)
Untitled #23 (Second Motion, 2009)

7

Further/Deeper (Unorthodox, 2014)

6

Man Woman Life Death Infinity(Unorthodox, 2017)

6,5

The Hypnogogue(Communicating Vessels, 2023)

7,5

Eros Zeta And The Perfumed Guitars(Communicating Vessels, 2023)7,5

STEVE KILBEY

Unearthed (Red Eye 1987)

Earthed (Red Eye 1988)

Slow Crack (Red Eye 1988)

Remindlessness (Red Eye 1990)

Narcosis (1997)

Gilt Trip (1997)

MARTY WILLSON-PIPER

In Reflection (Chase 1987)

Art Attack (Rykodisc 1988)

Rhyme (Rykodisc 1989)

Spirit Level (Rykodisc 1992)

Luscious Ghost (Rykodisc 1992)

PETER KOPPES

Manchild & Myth (Worldater 1988)

From The Well (1989)

Pietra miliare
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