Lycia

Lycia

L'era glaciale del gothic

Sono sempre rimasti lontani dalla ribalta del rock. Ma è anche grazie alle atmosfere apocalittiche dei Lycia che la darkwave ha saputo aggiornarsi con i suoni della musica elettronica più visionaria. Storia della band che è nata nel deserto, ma ha voluto dedicare un album al freddo

di Claudio Fabretti + AA.VV.

Una fusione inedita di industrial, gotico, psichedelia, new age e ambient music. Un crescendo di sinfonie tetre e solenni, pervase da un senso di suspence e di apocalisse. Tutto questo e molto altro ancora è Lycia, il progetto del chitarrista Michael Van Portfleet. "Il nome - racconta - è frutto del mio interesse per la mitologia greca. Volevo qualcosa che avesse un suono musicale ed evocasse i miti della cultura ellenistica".
Van Portfleet è nato a Grand Rapids (Michigan), ma ha vissuto a lungo nel deserto di Mesa, in Arizona, una terra che ha espresso molti nuovi talenti, a partire dai Calexico. Ma se la band di Joey Burns esprime lo spirito più caldo e trasognato del deserto, Lycia ne incarna quello più oscuro e desolato. La sua musica, infatti, è un lento calvario attraverso terre aride e straziate, prive di vita e avvolte in tenebre metafisiche. Una vera meditazione filosofica sulla morte, che rifugge gli stereotipi macabri di certo dark-rock per approdare verso la musica cosmica, sfiorando i toni del requiem e del canto gregoriano.

Tutto comincia nel 1989 con Wake, album che Van Portfleet incide assieme a John Fair (basso e rhythm-box). Il disco è ancora un abbozzo sperimentale, ma mette già in luce alcune delle peculiarità di Lycia: le atmosfere oniriche e cupe, che riescono a unire Brian Eno e i Dead Can Dance. La base di partenza, tuttavia, è il gotico britannico di Joy Division, Bauhaus e primi Cure, che sono tuttora tra gli artisti preferiti di Van Portfleet (insieme a Swans, Steve Roach e CindyTalk). Nasce così la tetra melodia di "Sing like siren", uno dei suoi primi classici.

Ingaggiato Dave Galas alle tastiere, Lycia pubblica Ionia, in cui incomincia a pieno titolo il suo viaggio nei recessi più inquieti e inquietanti dell'anima. Le sue sonorità sono bisbigli angosciosi e tenui melodie, marce funebri ("This moment") e divagazioni cosmiche ("November"). Domina un senso nichilistico di morte: "Il genere umano è in preda alla disperazione - racconta Van Portfleet -. Molta gente non lo ammette, ma sento che lo avverte nel subconscio. Nella mia musica cerco di trasferire tutto questo. So che esiste questo vuoto intorno a me, anche se nella mia esistenza cerco di ignorarlo, per vivere una vita felice. Ma so che là fuori ci sono le tenebre, ed è difficile riuscire ad evitarle. Forse l'unico segreto sta nell'equilibrio interiore, ed è su questo che mi sono sempre concentrato".

Il successivo A Day In The Stark Corner è un album ancor più maturo, che alterna momenti melodici ad apocalissi elettroniche. Un disco che - dice Van Portfleet - "ha a che fare con l'aspetto più caotico e oscuro dei sogni e delle emozioni". Svettano gioielli come l'agghiacciante sinfonia di "And through the smoke and nails", la strumentale "Pygmalion", la gelida partitura di "The morning breaks so cold and gray" e l'incedere thrilling di "Goddess of the green fields". Le tastiere elettroniche riecheggiano atmosfere cosmiche, ma non compromettono l'aspetto fondamentalmente terrestre della musica di Lycia. Una musica che potrebbe fare da sfondo una liturgia dell'Apocalisse. E' "la fine del mondo"? "Sì, il mondo un giorno finirà - dice Van Portfleet -. Forse la terra sarà risucchiata dal sole. Ma vedo tutto questo come un fenomeno fisico, senza alcunché di soprannaturale".

Dopo la divagazione "industrial" di Bleak, esperimento collaterale di Michael Van Portfleet e di Dave Galas, arriva il quarto lavoro di Lycia, The Burning Circle And Then Dust (1995). L'album vede un ritorno in primo piano della chitarra a scapito delle tastiere, relegate in sottofondo. Il timbro è sempre lugubre, ma meno apocalittico. Nel buio di Van Portfleet filtra qualche spiraglio di luce, e c'è spazio anche per sinfonie romantiche come "August", che riecheggia i primi King Crimson, per melodie gioiose come "The better things to come" e perfino per "raga" alla Doors come "In the fire and flames". Si respira, insomma, un'aria di salvezza e di redenzione, che deve fare i conti però con una perenne tensione di fondo.

Trasferitosi dal deserto dell'Arizona ai monti innevati dell'Ohio, Van Portfleet decide di incidere un concept-album dedicato all'inverno. "Il mio lavoro - spiega Van Portfleet - è sempre stato influenzato dal clima e dall'ambiente che mi circondavano. Prima era il deserto, con il suo senso d'isolamento, di repressione, ma anche di spazi aperti e di luce. Ora è la volta dell'Ohio. Ho passato mesi alla finestra a guardare gli alberi e i campi innevati. Un inverno nelle campagne dell'Ohio riesce a essere desolato come un'estate nel deserto, e altrettanto affascinante".
Nasce così Cold (1996), opera maestosa, di rarefatta eleganza, che si avvale delle litanie della cantante Tara Vanflower, sulla falsariga di quelle di Lisa Gerrard dei Dead Can Dance.
Un ritorno al gotico? "Ci fa piacere che il pubblico gotico ci apprezzi - racconta Tara Vanflower - ma non credo che la nostra musica possa rientrare in una categoria specifica. Credo che Lycia spazi attraverso vari generi: il rock chitarristico degli anni 80, un pizzico di industrial, di ambient, di space rock, di gotico, di country, e, perché no?, anche di rock'n'roll".
Il suono di Cold è immerso in un'atmosfera da incubo, raggelante e claustrofobica, che inizia con la marcia solenne di "Frozen" e prende via via corpo attraverso sinfonie funeree come "Drifting", acquarelli ghiacciati come "Polaris" o trance ipnotiche come "December". Il background è un insieme di melodie ipnotiche, droni elettronici, cantilene infantili, rintocchi funerei di campane.

Cold segna il vertice dell'arte visionaria e metafisica di Lycia. Un risultato che non sarà eguagliato dal successivo Estrella (1998), in cui il connubio con Tara Vanflower perderà gran parte del suo fascino magico ed esoterico. Non mancano episodi felici come la marcia spettrale di "Tainted" o la psichedelia cosmica di "Orion". Ma l'impressione è che Lycia abbia smarrito la sua strada. Poco tempo dopo, lo stesso Van Portfleet annuncerà il suo ritiro dalle scene.

Il ritorno con Tripping Back Into The Broken Days (2003) accentua la componente "ambientale" della musica di Lycia, stemperandone però progressivamente il fervore e l'inquietudine. Tra droni elettronici, arpeggi di chitarra ed eco persi nel vuoto, affiorano scampoli di soft-ambient-dark-pop, come l'iniziale, raffinata "Broken Days" o la misticheggiante "Gray December Desert". "Give Up The Ghost" offre i momenti più spettrali e drammatici, mentre l'intro strumentale di "Vacant Winter Day" segna un'altra incursione d'autore in quelle sonorità crepuscolari care a Van Portfleet. Nel complesso, un disco che non aggiunge molto al repertorio di Estrella.

Dopo un silenzio di dieci anni - interrotto solo da un piccolo Ep (“Fifth Sun”, 2010) - nel 2013 esce Quiet Moments, che si presenta come una perfetta sintesi dell'anima ambientale, oscura e glaciale del gruppo americano. In essa, come un'essenza rara, troviamo la dimensione minimale, ridotta all'osso e lucida di una luce opaca, sognante. Qui si perdono quasi del tutto le componenti chitarristiche e più orientate a una ritmica industriale, a favore di una visione eterea che segue la strada che fu dei Dead Can Dance e in parte dei This Mortal Coil, seppur con un abbraccio ambient più marcato che fa delle iniziali title track e “The Visitor” due sentieri paralleli, costruiti su un ghiaccio sottile, che ci conducono al mondo apparentemente immobile ed eterno di “Antarctica” e “Greenland”.

Il viaggio si muove così, tra lenti e delicati cambi di prospettiva dentro un micromondo costruito sulle fondamenta di una solitudine romantica. Solo quando arriviamo al cuore del disco troviamo una forma diversa, vicina a una ballata morente, decaduta sotto la luce nascosta da mille alberi (“The Spring Trees”) oppure moti ritmici sommessi ma vibranti, costruiti su pattern rumoristi tagliati e opachi (“The Wind Sings”).
Il canto di Tara, che troviamo in “Spring Trees” e nella conclusiva “The Soil Is Dead”, sigilla in maniera distaccata, quasi una voce da un’altra dimensione, questo spazio tra luce e oscurità, tra psichedelia e sublime terreno, una sensazione straniante che ci confonde sin dal principio dell’opera. Le parole di Mike cadono invece come caduchi suoni inghiottiti da ombre morbide, che si accavallano attorno alla vegetazione, in una rincorsa verso l’oblio (“Dead Leaves Fall”, “Dead Star, Cold Star” le due composizioni più elettro-oriented) .
 
Quiet Moments è un titolo simbolico che sintetizza un percorso nascosto, che appare di immobile bellezza, capace di sola ammirazione. Questa nasconde in sé moti contrastanti, una corda bagnata e tesa in bilico tra l’isolazionismo più cupo e l’estetica romantica della solitudine. Due facce di una meraviglia; il dualismo di un ritorno inaspettato, che possiamo solo scoprire e riscoprire.

La lezione di Lycia ha impresso a tutta l'estetica dark una svolta fondamentale. Ha accentuato la dimensione spirituale e metafisica del "rock delle tenebre". Ha aggiornato i canoni del rock con le intuizioni dell'ambient, della new age, della musica cosmica. E ha dato vita ad album memorabili con la piccola etichetta Projekt (fondata da Sam Rosenthal dei Black Tape For A Blue Girl), senza mai venire a compromessi con la macchina discografica (che, infatti, li ha sempre ignorati). Un altro nome, insomma, da segnare sulla lista dei grandi musicisti ingiustamente trascurati negli annali del rock.

Nell'estate del 2015 esce A Line That Connects; il concept del loro decimo album è la linea che congiunge tutte le cose, passate e future, vicine e lontane, un trait d'union come quello che lega i freddi battiti industriali di Wake e questo nuovo disco in studio, dove Mike VanPortfleet ritrova i compagni di viaggio storici, Tara VanFlower e David Galas.
L'ottima produzione, in passato mai così cristallina, e l'enfasi sulla chitarra di Galas sono evidenti: una netta virata rispetto all'ambient-wave dilatata del precedente Quiet Moments.
Le atmosfere soffuse in alcuni brani lasciano il posto ad un gothic-rock veemente ma melodico che ci consegna dei Lycia sotto molti aspetti inediti, tra distorsioni e accelerate inconsuete. Una nuova "versione" che soddisfa tanto l'orecchio del novizio quanto quello allenato: i loro trademark sono ben presenti, e le incursioni al di fuori del "genere" vengono gestite con una maestria non comune.

In Flickers esce nel 2018 per l’etichetta storica che tanto ha dato alle sonorità più oscure ed eteree in terra americana, parliamo della Projekt di Sam Rosenthal (già leader dei Black Tape For A Blue Girl), label che proprio all’inizio dei Novanta lanciò la band con il nerissimo “Ionia”.
Si tratta di un disco abbastanza vario (considerando il ventaglio di soluzioni possibili), poiché sfrutta a dovere le diverse sfumature che negli anni hanno contraddistinto il sound dei Lycia. L'album è un valido e (a tratti) incostante ritorno, penalizzato qua e là da qualche passaggio meno ispirato (in particolare “34 Palms” e “Rewrite”). Ma chi apprezza i Lycia anche nel nuovo e più recente corso, qui troverà più di un motivo per rimanere soddisfatto.
Il viaggio dei Lycia si arricchisce dunque di un nuovo capitolo, a tratti sereno come una notte innevata, tratti imponente come il mare d'inverno: ancora una volta un lavoro di grande qualità, confezionato da veri e propri artigiani del bello la cui musica, come un vino pregiato, ha acquisito sfumature con il passare degli anni.

Intanto i Lycia stabliscono un fruttuoso sodalizio con l’Avantgarde Music, etichetta nostrana che ristampa per la prima volta in vinile Ionia e pubblica anche l'Ep Casa Luna (2021).
Sono un paio di pezzi più movimentati a rendere succulento il nuovo lavoro, ma sia “Except” che “Galatea” altro non sono che due brani ripescati dal passato (1989) e mai pubblicati da Mike. In questo caso i sintetizzatori e i tappeti atmosferici prendono forma attraverso un beat ossessivo che sembra voler guidare una danza di fantasmi: se però nel primo caso siamo davanti a una composizione più ombrosa e tradizionale, con “Galatea” i Lycia trovano quella hit inaspettata in cui la melodia portante diventa puro ossigeno da respirare.
La voce eterea di Tara si affaccia timidamente nella discreta opener “A Quiet Way To Go”, per poi materializzarsi con veemenza nella sperimentale “Do You Bleed?”, una composizione in cui riemergono tutti quei morbosi retaggi goth-industrial che hanno contraddistinto alcuni frangenti della carriera della band (che si completa con la presenza di David Galas e John Fair). Curiosa è invece la rapida parentesi semi-acustica di “On The Mezzanine”, una sorta di flamenco in salsa dark che sale di intensità nell’affascinante ma fin troppo breve epilogo, un diversivo alquanto originale che avrebbe meritato un minutaggio più corposo. La chiusura affidata a “Salt & Blood” sembra voler proseguire questo discorso, pur lasciando spazio al carattere puramente sovrannaturale dei Lycia, quello che emerge anche dall’immagine della cover (una fotografia scattata proprio dalla Vanflower).
Sei pezzi di qualità che ancora una volta penetrano nell’anima.

Contributi di Michele Guerrini ("Quiet Moments") e Lorenzo Pagani ("A Line That Connects") e Paolo Chemnitz ("In Flickers", "Casa Luna")

Lycia

Discografia

Wake (Projekt, 1988)

6

Ionia (Projekt, 1989)

7

A Day In The Stark Corner (Projekt, 1993)

8

The Burning Circle And Then Dust (Projekt, 1995)

8

Live (Projekt, 1996)
Cold (Projekt, 1996)

8,5

Estrella (Projekt, 1998)

5

Tripping Back Into The Broken Days (Projekt, 2003)

6

Quiet Moments (Handmade Birds, 2013)

8

ALine That Connects (Handmade Birds, 2015)

7,5

In Flickers (Projekt, 2018)

6,5

Casa Luna (Avantgarde Music, 2021)

6,5

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