Big Star

#1 Record

1972 (Ardent)
power-pop

Per me i Big Star sono come una lettera spedita nel 1971 e arrivata nel 1985. Come una cosa smarrita nella posta, davvero

Le parole di Robyn Hitchcock, pronunciate con la cadenza da sogno a occhi aperti che abbiamo imparato a conoscere sin dai tempi dei Soft Boys, scorrono lievi sui titoli di testa del film “Big Star: Nothing Can Hurt Me”, insieme a quelle di Norman Blake, Matthew Sweet, Ira Kaplan, Mike Mills e tanti altri nomi che devono molto alle leggendarie opere della band di Memphis. Il documentario è un racconto corale di voci partecipi e commosse e, pur non svelando molto di nuovo agli appassionati dell’universo Big Star, sa dar conto a qualunque spettatore della grandezza tragica di una storia che ancora oggi stende ombre lunghe sul corso della musica pop, così come la conosciamo. Una storia più grande della vita, in cui il sogno diventa dramma e il dramma, da privato, si fa pubblico, nei brani prima aspri e poi realmente deformi di Alex Chilton e negli abissi d’inconsolabile malinconia di Chris Bell, due autori che s’incontrano per dar vita a un disco irripetibile. Poi tutto finisce in un battito di ciglia, la promessa muore prima ancora di avere il tempo di sbocciare. Ma qui, al principio, ci sono talento e genio, purezza e speranza. E c’è "#1 Record": semplicemente uno dei più grandi album pop mai incisi.

“C’era sempre qualche band”, ricorda David Bell, “e così mi trovavo a scarrozzare il mio fratellino di quattordici, quindici anni, con amplificatori, impianti e tutto il resto”. Parole pronunciate con una commozione figlia di memorie lontane eppure ancora vive, che raccontano del sogno e della dedizione di Chris, fratello minore di talento immenso e pari sensibilità.
Alla metà degli anni 60, quando questa storia ha inizio, Memphis è catturata dal vortice della British Invasion e le garage band iniziano a spuntare ovunque, trovando rifugio nell’etichetta cittadina Ardent Records e distanziandosi dal suono storicamente associato a quel luogo e a quel decennio: il suono del soul, il suono dei singoli della Stax. La passione divorante di Chris per Beatles e Who, ma pure per Kinks e Yardbirds, lo spinge a lanciarsi in un’infinità di progetti musicali che trovano la manifestazione più compiuta nei Rock City, con Thomas Dean Eubanks alle chitarre e Terry Manning alle tastiere; l’amico Jody Stephens si occupa della batteria e, a ragione, si può dire che qui prenda corpo il nucleo dei futuri Big Star.
Nell’interessante ristampa Lucky Seven del loro lost album compaiono una dozzina di originali messi su nastro tra il 1969 e il 1970, ma quel che più conta è che Bell offra brani autografi che rinasceranno a nuova vita su “#1 Record”: “My Life Is Right” e “Feel”, che ripesca da un’avventura musicale ancora precedente. Parecchio materiale suona ancora acerbo e poco personale, ma è qui che entra in gioco la figura di Alex Chilton e basta ascoltare “Try Again”, forse la sua prima registrazione con Bell, per capire che qualcosa di meraviglioso sta accadendo: anche nella versione embrionale presente su “Rock City”, il brano brilla di una luce “altra” rispetto al resto, specie in quelle chitarre acustiche luccicanti che diventeranno tratto distintivo del Big Star sound e del produttore John Fry.

Chilton, appena ventenne, è già un reduce: a soli sedici anni il ragazzo ha colto successi milionari con i Box Tops e lo spettacolare 45 giri “The Letter”, esemplare blue-eyed soul scritto per loro da Wayne Carson Thompson; il giovanissimo frontman, sentendo stretta la morsa di una macchina che non può controllare e con una visione creativa imposta dall’alto, decide di mollare tutto all’inizio del 1970. “Well I'm free again to do what I want again/ Free again to sing my songs again/ Free again to end my longing/ To be out on my own again”, canta di gusto Chilton nel country-rock che apre “Free Again” la canzone inclusa in “The '1970' Sessions”, una raccolta di brani registrati nel periodo antecedente alla nascita dei Big Star che raccontano di un mutamento in atto: il vocione rauco e caricaturale di alcuni pezzi (“All I Really Want Is Money”) è ancora un lascito della precedente esperienza, di cui cinicamente sembra farsi beffe; tuttavia, spesso, l’umor nero lascia spazio a composizioni di tutt’altro tenore, romantiche e ombrose, che anticipano quel che sarà di lì a breve: su tutte, la bellissima “All We Ever Got From Them Was Pain” e i due demo che s’incontrano a fine programma, la pianistica “If You Would Marry Me Babe” e il riflettere rannicchiato di “It Isn’t That Easy”, a svelare una nuova grana nell’impasto vocale e una qualità di scrittura infinitamente superiore.

La formazione è ormai al completo: oltre alla coppia di singer-songwriter Chilton/Bell, che pare nata apposta per essere accostata al modello dei Lennon/McCartney, la band può vantare il basso di Andy Hummel, la batteria di Jody Stephens e un magico intreccio di voci.
"#1 Record" esce nel giugno 1972, dopo mesi e mesi di lavoro in studio, ed è un’icona mancata fin dallo scatto di copertina di Carole Manning, con l’insegna della stella e la scritta che omette la parola “star”. Raramente, in una vita, capita d’ascoltare qualcosa di tanto puro e scintillante quanto la sequenza dei quattro brani iniziali dell’album, in cui il quartetto definisce il proprio universo sonoro e da cui legioni di fan costruiranno intere carriere da musicisti. “Feel” è subito un gioiello power-pop, ma personalissimo, unico: le elettriche ondeggiano con eleganza suadente e ruvida insieme, e la voce tiratissima di Bell erompe gioiosa dalle casse, mentre Chilton e Stephens regalano cori da sogno, immediatamente riconoscibili; pure un break di sax s’instrufola nel mezzo della festa. Una festa che ha l’urgenza dei vent’anni, ma anche qualcosa in più: un’evidente increspatura nelle pieghe dell’anima, un testo che contrasta la baldanza dei suoni: “I feel like I'm dying/ I'm never gonna live again/ You just ain't been trying/ It's getting very near the end”. Non fa in tempo a spegnersi l’eco contagiosa dell’opener, che un arpeggio delicato si fa strada; e poi la voce di Chilton, a intonare un testo memorabile fin dall’attacco: “The Ballad Of El Goodo” è una delle più grandi pop ballad mai scritte, un incontro in cielo tra Beatles, Byrds, Beach Boys e qualcos’altro: quell’indefinibile malinconia che, di nuovo, stride con versi che rivendicano indipendenza e mostrano vulnerabilità, dopo una vita spesa “against strong odds”. 

Certo, molte di queste considerazioni derivano dal fatto che noi, a differenza dei protagonisti, conosciamo la storia, sappiamo come sia andata a finire e dunque tendiamo a sovrainterpretare segnali; è impossibile, tuttavia, non cogliere qui la descrizione di un mondo in cui questi ragazzi si muovono a fatica, quasi consapevoli, pur nella speranza, che da esso sarebbero stati non solo respinti, ma completamente ignorati. “In The Street” è un altro capolavoro rock’n’roll, che manda a memoria la lezione di Lennon/McCartney e vi aggiunge tutto il background soul di Memphis e della Stax, come accaduto in “Feel”. Anche in questo caso, prenderanno nota in tanti; pure i Cheap Trick, che la renderanno un crowd pleaser da concerto, finito poi curiosamente anche a far da sigla alla sitcom “That 70’s Show”, regalando tardive royalties agli autori.
A chiudere la sequenza, un’altra ballad: “Thirteen”, la più bella di tutte, delicatissimo folk-pop che Elliott Smith non dovrà far altro che aggiornare all’angst dei 90 e spesso finirà per riproporre in concerto (una sua versione da studio, dolce e timida, si trova alla fine del primo disco della raccolta di rarità “New Moon”). Un ricordo dolceamaro della magia della prima adolescenza, quando l’amore, come ogni cosa, è una scoperta e il r’n’r di Beatles e Stones un’epifania vera (“Won't you tell your dad 'get off my back'/ Tell him what we said 'bout Paint It Black'”); un singolo perfetto che mai fu pubblicato come 45 giri.

Dopo simili vertigini, la coppia di tracce successive non può che attestarsi su un livello qualitativo più basso, ancorché sempre buono: e allora “Don’t Lie To Me” è il brano più hard del disco che tuttavia è pure il più datato e databile, al netto di uno stacco devastante, mentre “The India Song” è un piccolo giocattolino acustico scritto da Hummel, tenero e naif. La facciata B del vinile è inaugurata da un’altra meraviglia, la ritmata “When My Baby’s Beside Me”, che riporta all’atmosfera di “Feel” e “In The Street” e, al contempo, prefigura la svolta più ruvida del secondo album “Radio City”. Da qui è come se il disco pian piano scivolasse verso un sogno malinconico: gli ultimi guizzi elettrici sono del chorus della nuova versione di “My Life Is Right”, in cui Bell introduce le tematiche spirituali che saranno la base di buona parte della sua minuscola e straordinaria produzione solista; “Give Me Another Chance” e la già citata “Try Again” sono ancora dolorose meditazioni sulla malinconia della solitudine e dell’incomprensione (“Lord I've been trying to be understood/ And Lord I've been trying to do as you would/ But each time it gets a little harder/ I feel the pain but I'll try again”), scintillio di chitarre acustiche accarezzate, armonie vocali celestiali e, nella prima, una commovente partitura d’archi.
Poi la speranza si prende lo spazio che merita in “Watch The Sunrise” e di nuovo il suono è il sole di una dodici corde, laddove la chiusa “ST 110/6” in poco meno di sessanta secondi sarà il blueprint per tanti futuri Fleet Foxes, come acutamente osserva Kris Needs nelle note alla ristampa dell’album.

Quando il nostro disco uscì, nessuno a Memphis ci fece caso.
Solo perché non suonavamo heavy, che era il modo in cui tutti dovevano suonare al tempo”.

Le parole di Alex Chilton, ovviamente di qualche anno posteriori, raccontano la genesi del dramma: il disco esce nei negozi, ma è un oggetto alieno per Memphis e per il mercato in generale, troppo preso da altre sonorità; qualcosa che alla Stax, che ha un accordo per la distribuzione dei prodotti Ardent, non hanno idea di come promuovere, impegnati come sono, in quegli stessi giorni, a diffondere il verbo di Isaac Hayes. Le recensioni sono quasi tutte entusiastiche: “This is the greatest stuff we’ve ever heard” su Rolling Stone, “one of the album of the year” per Record World, “every cut could be a single”, secondo Billboard.
Ma il disco non vende. La maggior parte dei pezzi giornalistici, poi, si concentra su Chilton, adombrando così il ruolo chiave di Bell, che dei Big Star era stato il fondatore e aveva contribuito a “#1 Record” portando pezzi già compiuti, co-firmando quasi tutti gli altri con Alex e seguendo attentamente le varie fasi della produzione, per dar corpo a quella che a tutt’oggi suona ancora come una grandiosa sinfonia pop. In breve tempo, Chris abbandona la band e cade vittima di una depressione da cui non si risolleverà mai veramente; morirà, ventisettenne, in un incidente stradale a poca distanza da casa. L’intero progetto sembra sul punto di collassare, tanto che Chilton prende a suonare con altri musicisti; uno scambio di idee con John King, una delle menti della Ardent, lo convince però a riprovarci con Hummel e Stephens. Ne verranno altri capolavori ugualmente ignorati e poi riscoperti, così come i brani di Chris Bell, antologizzati anni dopo dalla Rykodisc nell’immenso "I Am The Cosmos".

Dell’influenza di "#1 Record" e dell’intera opera dei Big Star, invece, troviamo traccia in quasi tutto il pop chitarristico più significativo dagli anni 80 in avanti, di cui il meraviglioso progetto Big Star’s Third, portato in tour in questi anni, è solo una delle vetrine più visibili; e sentire Georgia Hubley intonare dal fondo del cuore “Nightime” o trovarsi a cantare “September Gurls” in coro sotto a un palco è un’emozione che chi scrive non potrà mai scordare. Meglio chiudere allora con le perfette parole di Rick Clark, giornalista nato e cresciuto a Memphis, scritte per le re-issue Ardent degli album della band e riproposte in prima persona, con emozione evidentissima, nel documentario da cui siamo partiti per raccontare questa storia: “Si dice che l’arte dovrebbe dare la sensazione che il tempo si sia fermato. I Big Star hanno trasceso le consuetudini d’evasione tipiche del pop, creando musica che in qualche modo congelava istanti che erano insieme vibranti e realmente folgoranti, ma pure singolarmente consumati. In qualche maniera, i Big Star riuscivano a farti sentire bene a dispetto di aspettative schiantate e senso di rovina. E’ quell’autenticità, nei testi e nell’urgenza di un suono luminoso, che ha permesso alla visione dei Big Star di sopravvivere ben oltre la propria breve esistenza”.

24/11/2013

Tracklist

  1. Feel
  2. The Ballad Of El Goodo
  3. In The Street
  4. Thirteen
  5. Don’t Lie To Me
  6. The India Song
  7. When My Baby’s Beside Me
  8. My Life Is Right
  9. Give Me Another Chance
  10. Try Again
  11. Watch The Sunrise
  12. ST 110/6