Quando lessi le prime impressioni dei critici per l’album d’esordio di Robyn Hitchcock (“Black Snake Diamond Role”) più di un dubbio attraversò la mia mente. L’ex-Soft Boys aveva intrapreso una strada molto perigliosa per affrontare i suoi fantasmi sonori, e il tradimento dell’energia psichedelica del suo ex-gruppo sembrava il primo tassello di un declino artistico. I Soft Boys avevano sì aperto il vaso di pandora del rock psichedelico, ma avevano trovato solo uno sciame d’api che aveva trascinato in volo tutte le illusioni di una generazione.
Robyn Hitchcock era in verità già cosciente che dietro le roboanti e sfavillanti urgenze della loro musica si celassero le radici di un nichilismo incombente. Non restava che affrontare le proprie schizofrenie, rifugiandosi in spazi isolati e terre poco ospitali per poter trovare testimonianza di una presenza umana che rifiutasse l’apoteosi dell’era industriale. Questo era evidente già nelle fragili e poco corpose canzoni dei primi album, e la percezione che quelli strambi scioglilingue sonori nascondessero un’amarezza e una nostalgia troppo in anticipo per i suoi tempi mi affascinava e turbava.
Oggi è evidente che il Syd Barrett dell’era post-punk si era rifugiato nella sua placida follia per attraversare indenne le delusioni del futuro, sognando di treni in posti solitari e polverosi (il suo capolavoro resta “I Often Dream Of Trains”) e osservando con disincanto un mondo sconfitto dal mito della globalizzazione (“Respect”). Maestro del surreale quotidiano, Robyn Hitchcock ha spesso rimodellato le sue creazioni dando loro nuova vita, ha adattato le sue storie visionarie alla way of life americana per poi sgretolarne le regole, ma resta la sua natia Londra la fonte energetica primaria.
E’ sorprendente scoprire che dopo quasi venti album la verve di Hitchcock è intatta: l’album prende di mira la crisi finanziaria senza assumere i contorni di un album politicizzato o di denuncia. Come novello John Lennon, racconta di sofferenze quotidiane con piglio leggiadro (“Stupefied”), rinnova le migliori vibrazioni del pop-rock inglese con il tocco glam di “I Love You” e sfiora la poesia del suo idolo Syd nel misterioso valzer psichedelico di “My Rain”.
Senza stravolgere, “Love From London” certifica uno stato di salute e una rinnovata voglia di fare musica che diventa ad ogni riascolto sempre più contagiosa. La straordinaria ballad pop-psichedelica “Strawberry Dress” è una di quelle delizie che vuoi subito mettere in repeat, e “Harry’s Song” è una piccola gemma per piano e voce da ascoltare al mattino prima di affrontare una giornata di duro lavoro. Ed è questa la vera forza di un album come “Love From London”: tutto è familiare e confortevole, ma l’intensità dei testi e la naturale bellezza delle armonie fanno suonare il disco classico e canonico nella stessa misura.
Un album di gran classe, che dopo una carriera ultratrentennale suona come un sigillo di garanzia e qualità, per un artista che è riuscito a superare indenne ben tre decenni tormentati da incertezze sociali, spesso sconfitte dal cinismo dei suoi più coraggiosi guerrieri.
02/10/2013