Dieci anni e solo due album, gli ex-antagonisti del grunge si sono allontanati dai riflettori per dare alla loro musica dei nuovi contorni. Nulla che sminuisca la grinta degli esordi, il suono è diventato cristallino ma non lezioso - uno spiraglio di riflessione e maturità è stato assorbito da una scrittura robusta e priva di incertezze.
E' naturale che, dopo vent'anni di carriera, i Teenage Fanclub pubblichino dischi un po' smussati rispetto ai fasti di quei lavori ("Bandwagonesque" e "Grand Prix" su tutti) che li avevano lanciati come i più grandi eredi del pop West Coast (Byrds in particolare), ovviamente filtrato attraverso il nerofumo delle gonfie nubi scozzesi e la loro uggiosa sensibilità melodica.
Dopo lo scombussolamento di "Man-Made", gli scozzesi riprendono il timone con decisione, pur rinunciando alla propria espressione più "di pancia" e dedicandosi piuttosto a un lavoro di classe, di comoda ma non scontata rifinitura. Meno power e più pop nella ricetta dei Teenage Fanclub, verrebbe da dire. Si potrebbe anzi definire un approdo atteso per una band che ha smesso da tempo i camicioni sformati da adolescenti nel pieno dei nineties - da cui ci si aspetta una mezz'età di rassicurante e pregevole artigianato.
Quasi viene in mente l'evoluzione degli Xtc dalla rabbiosa era punk ai dolci incanti di "Apple Venus 1" - che poi, a volte, sembri di ascoltare i folletti di Swindon nei loro momenti di relax ("Baby Lee", "Dark Clouds" ) è un puro caso. I brani di "Shadows" sono cosi', veli su veli d'imprendibile scorrevolezza e scorci fugaci di mondi improvvisamente complementari, come nel dialogo ipodermico tra banjo, organetto e sussulti sintetici in "The Past".
Il pop-rock chitarristico che rappresenta da sempre il loro cavallo di battaglia diventa qui un movimentato ma trasparente specchio d'acqua, che lascia intravedere altri tempi e altri luoghi, siano queste le spiagge dei Big Star o il porto annerito di Liverpool. I Teenage Fanclub sono in possesso della alchimia perfetta che illuminava il pop degli anni 60, altrimenti non si spiega il candore soul, quasi da classico, di "Sweet Days Waiting" o il brio west-coast di "The Back Of My Mind" .
La presenza di almeno tre o quattro canzoni da greatest hits elimina ogni dubbio sullo stato di salute del gruppo. Dopo il momento di stasi di "Man-Made", i Nostri riescono a realizzare un album che, senza rivoluzionare o cercare nuovi fan a tutti i costi, regala alcuni momenti di puro godimento, come nella splendida "Into The City": una delle più articolate e straordinarie canzoni mai scritte dal gruppo.
"Shadows" è, allo stesso tempo, un unico flusso sonoro, un prezioso affresco che sembra scorrere su linee familiari per poi arrivare, infine, all'atto finale della scomparsa della chitarra, in "Dark Clouds": dolci armonizzazioni si posano piovigginando su suadenti accordi in minore, in quest'incontro tra CSN&Y e Murdoch, soavemente accompagnato da un violino dalle tinte country.
"Shadows" è insomma un album che fa della modestia la sua forza, i Teenage Fanclub non cercano le luci della ribalta, sono consapevoli che il loro pubblico li amerà incondizionatamente e hanno deciso di ricominciare a suonare solo per il piacere di farlo. In questo senso, affidarsi a una produzione indipendente e autonoma è il giusto modo per riprendere la corsa e, pur se non si raggiunge la velocità da "Grand Prix" con "Shadows", il gruppo riesce ancora a mettere in ombra molte band seguaci del pop sixties, grazie all'incanto adolescenziale che ancora lo accompagna.
(16/06/2010)