Bel modo - e bel titolo - quello scelto dai Giant Sand per festeggiare i venticinque anni di una defilata ma gloriosa carriera: "Blurry Blue Mountain". Ultimo di una striscia lunghissima e tortuosa di album più o meno ufficiali griffati dal songwriting del leader e faber Howe Gelb (una ventina e più), il nuovo arrivato conferma lo status permanentemente maturo e fecondo raggiunto dal quartetto in questa sua estrema fase di carriera. Una fase inaugurata a metà degli anni Duemila, dopo che con quel mezzo capolavoro che era "Chore Of Enchantment" (2000) s'era chiusa la precedente - quella più sonicamente sfaccettata, multicolore, sperimentale - e caratterizzata da una forma più controllata, da una classicità secondo canoni indie, da una più consumata progettualità a livello produttivo. Una linea musicale a cui pure "Blurry Blue" non fa eccezione.
Sobborghi diroccati sparsi a casaccio nella cintura losangelina, deserto che erode la sporcizia dei marciapiedi e vento greve soffocato dai "boa" di smog della metropoli (il gigante di sabbia che c'è ma non si mostra), rosati all'alba di un nuovo giorno. A questo assomiglia oggi il gruppo di Gelb, stretto nella sua ormai stabile formazione amerigo-scandinava: Lund al basso, Pedersen alla seconda chitarra, Dombernowsky alla batteria, più i contributi di Nikolaj Heyman e della giovane country-girl Lonna Kelley come seconda voce femminile. O, detto più prosaicamente, un alt-country suonato come da manuale, sempre aperto, contaminato, si, ma vieppiù temperato e aderente alla propria matrice tradizionale.
Country carezzevole e quasi da boudoir come in "Chunk Of Coal" e "No Tellin'", ritmato come nell'ironica riflessione sul tempo che passa e seppellisce i suoi eroi di "Fields Of Green" o nel western ferroviario, fra "Bonanza" e Johnny Cash, di "Ride The Rail", sferzante addirittura in "Brand New Swamp Thing", insieme talkin' e ballabile, dissonante e noir in "The Last One", roco caracollare waitsiano in "Spell Bound" o duetto honky-tonk un po' nostalgico in "Lucky Star Love". Il meglio viene serbato tra le movenze quasi post-rock di "Monk's Mountain": lunga, spossata, completamente strumentale, nel senso che la voce di Gelb, poco più che un sussurro, è solo uno strumento fra gli altri strumenti; nel gotico sudista che rievoca il miglior Nick Cave ("Better Man Than Me"), nella dura e cavalcante "Thin Line Man" - con Neil Young e i Velvet, manco a dirlo, come archetipi inossidabili - e nella pianistica e lo-fi "Love A Loser" (il controcanto della Kelley tenero fino alla commozione).
Gigante pensaci tu: e buone nozze d'argento a tutti gli appassionati.
20/11/2010