Dalla bassa fedeltà al tentativo di raccogliere l’eredità di chi, gli Stati Uniti, li vive sulla sua pelle, mischiando politica e sentimento, senza comunque deragliare mai in facile retorica. La certezza è una scrittura ormai pienamente consapevole, senza alcuna necessità di appigliarsi ad alcun paragone per essere caratterizzata. Il resto è folk costruito per essere ascoltato (e compreso) solo nella sua interezza, privandolo di eventuali clamori da facile immediatezza. Che pure non manca: è solo sviscerata in canzoni arrangiate con sorprendente precisione.
Tanti ospiti (M.Ward, John McEntire, Janet Weiss, oltre la solita cricca di casa Saddle Creek) per tredici episodi in cui la melodia non vuole subire troppi scossoni: pallide aperture surreali in salsa country (“Middleman”), aperture rock a dir poco classicheggianti (“Classic Cars”), la doverosa epica (“Clauradients”) e ballate trattenute per potenziali colonne sonore (la conclusiva “Lime Tree”). Un tuffo nel passato, ma appena accennato, nel caracollare di “I Must Belong Somewhere” e nella conosciuta “Four Winds”, eppure proprio in questi momenti si comprende come, per convincere e convincersi pienamente, a Oberst manchi oggi un pizzico di senso della misura.
“Cassadaga” è un buon disco, difficile da criticare per tutti i motivi prima elencati, tuttavia la mancanza delle folgorazioni nevrotiche di ieri non può che far auspicare una nuova miscela, in cui tutto si mischia per esaltare quelle qualità talmente palesi da poter cancellare ogni impressione negativa.
(07/04/2007)