Parrucca bionda, look che avrebbero potuto finire in un “Chungking Express”, un'attitudine debosciata: la presentazione non potrebbe essere più fedele, ma è lo stesso contesto che ne complimenta l'immagine: di contemporaneo, nei solchi dell'album, non si trova nulla, e il funk elettrico che aveva permeato le sue ultime prove si piega alle esigenze di arrangiamenti caldi, pastosi, pienamente rispettosi della capsula del tempo in cui si trovano inseriti. Anche le chitarre, solitamente ben più ronzanti e roboanti, qui scoprono una morbidezza e una rilassatezza inedite, sanno viaggiare di pari passo col sitar (vero e proprio co-protagonista del disco), con tastiere espansive quanto mellotron, finanche un impianto corale di lusso. Di certo tra gli spigoli di un “Masseduction” e il taglio ben più roboante dell'album omonimo era impossibile trovare una simile riflessività, un abbandono di ogni effettiva pretesa ritmica per spostare invece il focus su una morbidezza, una raffinatezza di tratto che la produzione di Jack Antonoff sa come accudire.
Sotto questo aspetto, le interpretazioni di Clark sono tra le sue più intense da un decennio a questa parte, vengono esaltate da un calore che rispecchia pienamente il contenuto personale dei testi. Se in essi il padre viene menzionato di striscio, è l'occasione per tirare fuori una vulnerabilità inedita. Si passa dalle effusioni psych-soul di “The Melting Of The Sun”, turno di omaggi a grandi personalità del cinema e della musica, in cui rispecchiarsi e trovare alleanza (da Marilyn Monroe a Tori Amos), alla sensualità sorniona del singolo “Pay Your Way In Pain”, che punge di dolore anche la più piccola gioia. E se “Down” parla di violenza relazionale con un nerbo che incrocia Sly Stone e Prince, “Down And Out Downtown” firma il momento più commovente e appassionato, con un'attitudine “floreale” che reca impressi gli anni Settanta nel cuore. È un peccato che simili momenti, mozzafiato se presi in maniera isolata, finiscano col disperdersi in un disco che non fa delle melodie il suo baricentro, e che “spreca” il potenziale di una caratterizzazione così ben strutturata impantandosi in canzoni davvero sedute.
Un motivo dagli innuendo country-soul quale “The Laughing Man” dissolve l'ambizioso abbandono lirico in un flusso sonnacchioso, che comunica molto poco del senso di rinuncia del testo (problema che affligge anche la pur elegante attitudine alla Minnie Riperton di “Somebody Like Me”). Ed è davvero troppo breve la dedica a Candy Darling, la musa di Andy Warhol e Lou Reed, nonché colonna tematica dell'album: nel rappresentare un momento cardine del contesto queer dell'epoca, la sua figura avrebbe potuto avvalersi di qualcosa di più di un minuto e mezzo. Peccati veniali? Forse, perché Annie Clark si rinnova con la naturalezza di un camaleonte e sa come affrontare ogni svolta con tutta la credibilità necessaria. Ma quando la facilità di penna manca, il cambiamento arriva con qualche fastidio di troppo.
(19/05/2021)