La storia di Chicago è legata a doppio filo a quella del suo iter musicale. Nel cuore della metropoli dell’Illinois – tra le più popolose degli Stati Uniti, dopo New York e Los Angeles – si radicano le culture afroamericane blues, jazz e R’n’B, specchio di una convivenza difficile ma, col tempo, sempre più foriera di contaminazioni tra gruppi etnici. A fare da centro sono non solo i locali di musica dal vivo, ma anche istituzioni come l’Art Institute of Chicago e le tante università come la University of Chicago, la Northwestern University e la University of Illinois at Chicago, rinomate per gli studi di arti visive e performative. Un’altra relazione speciale tra contesto urbano e comunità è rappresentata dagli sviluppi nel campo dell’architettura e dell’urbanistica, che fin dalle origini definiscono la città: agli splendidi edifici del padre del Movimento Moderno Louis Sullivan, alle sperimentazioni di Frank Lloyd Wright e Mies Van Der Rohe o ai grattacieli di Bruce Graham si affiancano progetti di armonizzazione tra strutture e natura, come le piazze e le lobby in cui sono collocate opere di Pablo Picasso, Marc Chagall e Joan Mirò, o il Millennium Park progettato da Frank Gehry di fianco all’Art Institute, al cui centro si trova Cloud Gate, scultura specchiante di Anish Kapoor.
Dalle big band, come quella di Benny Goodman, la musica ha accompagnato e caratterizzato un discorso di emancipazione della comunità afroamericana urbana e, conseguentemente, di creazione di linguaggi personali che diventassero collante tra le persone. Qui si trasferisce dall’Alabama Sun Ra, che negli anni Cinquanta spende la prima parte della sua carriera a trasformare lo swing che aveva sempre conosciuto nel jazz cosmico di domani, formando la Arkestra e creando quell’immaginario afrofuturista così influente ancora oggi per molti musicisti, compresi Shabaka Hutchings (Shabaka & The Ancestors, The Comet Is Coming, Sons Of Kemet) e Rob Mazurek – uno dei protagonisti delle storie che seguiranno – che ricorda di essere stato fulminato da un concerto del synth-pianista di Birmingham. Qui si sviluppano dalla fine degli anni Sessanta gli esperimenti di free jazz comunitario degli Art Ensemble of Chicago di Roscoe Mitchell e Lester Bowie, che fondono espressività e composizione free-form con elementi di musica d’avanguardia. Qui si costituisce l’Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM) a opera di Muhal Richard Abrams, Jodie Christian, Steve McCall e Phil Cohran, organizzazione no profit che dal 1965 a oggi, partendo da generi tradizionali e contaminandosi con le ricerche colte e democratiche di John Cage, ha gettato le basi per la consapevolezza artistica di musicisti afroamericani del calibro di Jeff Parker, Matana Roberts, Mike Reed e Tomeka Reid; un’esperienza intra-generazionale, resa possibile grazie alla creatività e al carisma di figure come Anthony Braxton, Henry Threadgill, Wadada Leo Smith, Nicole Mitchell e dei membri dell’Art Ensemble.
È dalle traiettorie di certe collaborazioni che nasce la peculiarità della scena underground della windy city, che presenta una serie di nuclei che compongono insieme, si intersecano e si influenzano vicendevolmente: quello post-rock di Squirrel Bait, Bastro, Codeine, Gastr Del Sol, Tortoise, Isotope 217, June of 44; quello jazz orchestrale e/o elettronico del collettivo Chicago Underground, che verte intorno alla figura di Mazurek; quello avantgarde, free e impro che va da Jim O’Rourke a Ken Vandermark; quello avant-jazz contemporaneo – in gran parte promosso dall’etichetta International Anthem – di una nuova generazione di musicisti oggi al centro della scena mondiale: Makaya McCraven, Angel Bat Dawid, Damon Locks, Jaimie Branch, Tomeka Reid e Junius Paul.
Gli anni Novanta rappresentano un punto di ebollizione a Chicago, per il jazz e non solo: arriva in città Ken Vandermark, sassofonista e clarinettista diplomato in cinema, che dà ulteriore linfa alla scena impro; maturano musicisti poliedrici che partono dal punk e dal rock per approdare altrove, come Jim O’Rourke e Dave Grubbs (Squirrel Bait, Bastro, Codeine, Gastr Del Sol, Red Krayola), John McEntire (Bastro, Gastr Del Sol, Tortoise, The Sea & Cake), Jeff Parker e John Herndon (Tortoise, Isotope 217, Chicago Underground), Doug Sharin (Codeine, June of 44); si formano jazzisti “a tutto tondo” come Mazurek, Jeb Bishop, Joshua Abrams e Dave Rempis. Sono infatti questi ultimi, insieme a Vandermark, a comparire spesso alla voce “fiati” in album come “Dots And Loops” (Elektra, 1997) degli Stereolab, “Eureka” (Drag City, 1999) e “Insignificance” (Drag City, 2001) di O’Rourke. Questo gruppo di musicisti è accompagnato da veterani come Fred Anderson, che nel suo Velvet Lounge offre il palco alle nuove leve, o John McPhee, che duetta anche con Bishop, mentre stazionano spesso in città artisti dell’avanguardia europea come Peter Brötzmann, Evan Parker (che con McPhee realizza “Chicago Tenor Duets” nel 2002) e Mats Gustafsson (Fire!, The Thing – che con O’Rourke registra “Xylophonen Virtuosen” nel 1999).
Come negli anni Sessanta da luoghi condivisi di pratiche artistiche collettive erano emersi numerosi talenti, così negli anni Novanta dal palco del Green Mill prende vita il collettivo mutante Chicago Underground attraverso un workshop di Mazurek – le cui differenti configurazioni occuperanno parecchie righe di questo speciale intersecandosi con le traiettorie di gruppi post-rock e definendo così la peculiarità della scena jazz contemporanea – e alla fine del decennio si costituisce l’Elastic Arts, spazio performativo tra i cui curatori figurano Dave Rempis e Angel Bat Dawid.
Diventano centrali gli studi di registrazione (Airwave Studios, Steamroom di O’Rourke, Electrical Audio di Steve Albini – dove anche gli Zu realizzano “Igneo” nel 2002) e i loro ingegneri del suono (in primis John McEntire), tanto quanto un gruppo di etichette – Thrill Jockey, Drag City, Okka e Delmark – cui recentemente si sono aggiunte Astral Spirits di Austin, Aerophonic e soprattutto International Anthem, hub di ricerca jazz così ben radicato oggi nella scena cittadina.
Anni Novanta a Chicago significano anche Tim e Mike Kinsella e il nucleo di musicisti che scioglie la smania hardcore dei Cap n’Jazz nell’ardito art-rock dei Joan of Arc, nel sofisticato emo degli American Football e nell’intimo songwriting di Owen; e non sfuggono ovviamente altri due protagonisti del rock coevo – Wilco (Jeff Tweedy e Nels Cline, per intenderci) e Smashing Pumpkins – la cui ombra si allunga costantemente sulla città. Ma sono i movimenti sotterranei quelli che ci interessano di più per delineare questa genealogia post-jazz-rock, perché nell’underground la musica (s)corre e si contamina negli spazi nei quali è prodotta e fruita dal vivo: sul versante della musica di ricerca l’AACM era nata proprio per aumentare i contesti di creazione e condivisione dell’esperienza musicale ed educare giovani musicisti; su quello della musica popolare, come blues, swing e be-bop avevano invaso le sale da ballo della città, così nei Nineties lo fa la musica house, incentrata sulla definizione di personalità e gruppi afroamericani, prima tra tutte il DJ, che trasforma Chicago nel cuore elettronico del Midwest, insieme a Detroit.
Tra gli spiriti guida della scena jazz contemporanea locale ci sono indubbiamente l’hard-bop e le mutazione elettriche di Miles Davis, il post-bop trascendente e libero di John Coltrane e Archie Shepp, le evoluzioni free di Ornette Coleman, che proprio con l’architettura (di Buckminster Fuller, in special modo) avevano uno stretto rapporto, la ricerca delle radici africane di Don Cherry e la spiritualità consapevole Albert Ayler.
La selezione di 35 dischi che vi presentiamo – arricchita da un’appendice finale dedicata all’anno pandemico 2020 – è uno spaccato parziale su una produzione assai variegata e articolata, la cui linea del tempo parte idealmente dall’uscita di “Millions Now Living Will Never Die” (Thrill Jockey, 1996) dei Tortoise, già pietra miliare sulle pagine digitali di OndaRock. Il nostro obiettivo non è ovviamente l'esaustività, ma piuttosto fornire un gruppo di finestre di diversa misura dalle quali affacciarsi sulla densa cartografia contemporanea della città, istantanee e suggestioni musicali su una scena che è diventata paradigma della contaminazione tra sottogeneri e stilemi punk, jazz, post-rock e d’avanguardia. Abbiamo cercato anche di restituire un’idea delle traiettorie collaborative, delle ibridazioni trans-genere trans-generazionali attraverso dischi composti meticolosamente e registrazioni di improvvisazione radicale, degli incontri tra musicisti che hanno cercato di spingere sempre più avanti il linguaggio del jazz. Oltre l’aurale, verso il visivo e il visionario.
Isotope 217 - The Unstable Molecule (Thrill Jockey, 1997)
Jeff Parker è già parte dell'entourage Tortoise quando, qualche mese prima del debutto discografico ufficiale con la band, arriva alla pubblicazione dell’esordio del progetto Isotope 217, condiviso con Dan Bitney e John Herndon, i due batteristi/percussionisti dell'astronave-madre. In “The Unstable Moment” sono poi della partita anche l’immancabile Rob Mazurek (cornetta), Matthew Lux (basso) e Sara P. Smith (trombone). Le atmosfere di questa mezz’ora scarsa sono davvero peculiari, gli strumentisti alle prese con jam che miscelano perlopiù elementi jazz e rock trovando spesso un punto d'incontro in un funk rilassato, ma sempre in qualche misura inquietante, tendente allo spaziale e al fantascientifico come certi accordi dissonanti (l’opener “Kriptonyte Smokes The Red Line”) e certe progressioni melodiche alla ricerca di nuove scale e colori alla maniera di Sun Ra (il miraggio dilatato “Prince Namor”, verso la fine). D’altra parte basterebbe quasi solo un titolo come “La Jeteé” a garantire l'interesse di Parker e sodali per l'ignoto e il futuribile, citazione dell’allucinato cineromanzo sci-fi di Chris Marker del 1962 che verrà poi rielaborata dai Tortoise per “TNT” col titolo inglese del film, “Jetty”.
“The Unstable Moment” è un lavoro strumentale piccolo ma affascinante e significativo, anche per il luogo e il momento in cui viene dato alle stampe. Accidentalmente, è pure un gioiellino che ancora oggi resiste ad ascolti ripetuti.Tortoise - TNT (Thrill Jockey, 1998)
Il disco da cui parte tutto. Quello che ha mostrato definitivamente come i Tortoise – a differenza di altre entità post-rock, spesso assai meno dinamiche e infatti invecchiate male e presto – fossero una piattaforma-per-dire-altro per una serie di straordinari talenti.
Registrato a partire dal novembre 1996 e pubblicato all’inizio della primavera del 1998, “TNT” è l’album che vede l’ingresso ufficiale in formazione di Parker, ad affiancare il deus ex machina John McEntire (Bastro, Gastr Del Sol, The Sea & Cake) e il batterista John Herndon, senza dimenticare Dan Bitney, ma pure Douglas McCombs e l'ex-Slint David Pajo. Non solo: contribuiscono al risultato finale anche gli interventi ai fiati di Mazurek.
Stanti queste premesse, non è difficile immaginare come mai queste dodici, densissime tracce suonino distanti dal classico “Millions Now Living Will Never Die” (Thrill Jockey, 1996), meno dub e meno elettroniche; somigliano piuttosto a una versione anni Novanta di “Bitches Brew” (Columbia, 1970) di Miles Davis, per l'impressionante lavoro di taglia-e-cuci ex post su cui di fatto “TNT” si basa interamente: nessuna di queste tracce, ricorda McEntire, è mai stata suonata live in studio da tutti i musicisti contemporaneamente, e infatti la band si ritrovò a dover imparare i pezzi dal disco per il tour successivo.
C’è il jazz da aperitivo lounge, qui dentro; c'è il minimalismo ripetitivo di certe strutture percussive; ci sono scintillanti chitarre twangy, che si occupano spesso di singole note sospese; c’è l'evidente interesse per una cultura del remix figlia delle possibilità offerte dal digitale, con tracce leggere di techno e d’n’b. Una fusion personalissima che sorprendentemente sa farsi easy listening, qualcosa di non troppo distante dai territori in cui si muovevano gli Stereolab di “Dots And Loops” (Elektra, 1997) – non è un caso che a co-produrlo fosse McEntire.
Accolto piuttosto freddamente all'epoca, “TNT” è stato giustamente rivalutato col tempo come l’ultimo classico assoluto della band, anche se non è difficile capire le ragioni di una critica spiazzata, ormai quasi un quarto di secolo fa. Un disco invece perfettamente logico per una creatura in costante movimento come i Tortoise, poco incline a seguire altro dalla propria ispirazione. Lo diceva bene proprio Parker: “La gente si aspetta che le cose siano ovvie. Ma la vita non è così, e allora perché dovrebbe esserlo la musica?”.Gastr Del Sol - Camoufleur (Drag City, 1998)
Tra gli album seminali del post-rock della windy city c’è l’ultimo lavoro dell’accoppiata David Grubbs (Squirrel Bait, Bastro, Red Krayola) e Jim O’Rourke (Brise-Glace, Red Krayola) con John McEntire, Darin Gray e Markus Popp (Oval), che collabora alla scrittura, un capolavoro art-rock di perfetta sintesi tra pop e avanguardia. Basterebbe ascoltare il raffinato songwriting di “Each Dream Is An Example” per capirlo: una canzone con arrangiamento di fiati dalla forma sdoppiata, che raccoglie la lezione di Brian Wilson. Insieme alla band troviamo Rob Mazurek alla cornetta, Ken Vandermark al clarinetto, Jeb Bishop al trombone e una sezione di archi a immortalare, come Isotope 217, la contaminazione reciproca tra scena post-rock e scena avant-jazz, di cui questa collaborazione contribuisce a dettare le coordinate, per un rinnovamento generazionale che copre generi e ricerche ormai attestate su posizioni più consuete, compresa quella pur inesauribile di Roscoe Mitchell e Art Ensemble of Chicago.
I brani di “Camoufleur” hanno un percorso inusuale che a livello macroscopico rifugge la ripetizione per adoperarla invece sul piano microscopico, mettendo al centro la voce nella migliore tradizione della canzone americana. L’album è arioso e pieno di soluzioni compositive e di arrangiamento peculiari, che si possono cogliere fin dall’iniziale “The Season Reverse”, o dall’elettronica morbida e dai fiati riverberati di “Blues Subtitled No Sense Of Wonder”, brano con una struttura B/A/B/A à-la “Yesterday” dei Beatles in cui A è, però, un limbo strumentale.
Innumerevoli sono i generi i cui stilemi sono rielaborati: folk e bluegrass in “Black Horse”, Americana in “Mouth Canyon”, la cacofonica weird di “A Puff Of Dew”. L’influenza del jazz si può cogliere in controluce nell’idea di una forma malleabile, nella ricerca timbrica e nella costruzione corale, in una direzione per una volta pop, influenzata anche da Frank Zappa. Lo stile chitarristico di O’Rourke si accorda con quello di John Fahey – con cui aveva lavorato su “Womblife” (Table of Elements, 1997) – anche sull’uso di loop (“Bauchredner”). L’album è un capolavoro di songwriting moderno.
Dopo questa esperienza sia Grubbs sia O’Rourke affronteranno un percorso artistico sperimentale ibridato maggiormente col jazz il primo, col noise e la musica colta il secondo, che diventerà per alcuni anni anche membro dei Sonic Youth.Chicago Underground Orchestra - Playground (Delmark, 1998)
Il 1996 è l’anno in cui si forma il nucleo del collettivo Chicago Underground che coinvolge Rob Mazurek, Jeff Parker e Chad Taylor. Da qui si articoleranno mille diramazioni e configurazioni: CU Duo, CU Trio, CU Quartet, São Paulo Underground, Pharoah & The Underground (con Pharoah Sanders), ma anche Exploding Star Orchestra e Rob Mazurek Pulsar Quartet. Nel 1998 – anno in cui escono “TNT” dei Tortoise e “Camoufleur” dei Gastr Del Sol – inizia il percorso discografico del prolifico collettivo: escono sia l’esordio del duo con Mazurek (cornetta, campane, flauto, tromba, pianoforte), Taylor (batteria) e le incursioni di Parker (chitarra, campanaccio), sia il suo ampliamento in ensemble orchestrale con Sara P. Smith (trombone, glockenspiel, voce, piatti) e Chris Lopes (basso, flauto, voce).
“Playground” è composto da otto brani originali e due omaggi, tra cui – emblematicamente in apertura – il tema di “Blow Up” scritto da Herbie Hancock per l’omonimo film di Michelangelo Antonioni del 1966, qui presentato con John Herndon e Dan Bitney alle percussioni. È una dichiarazione d’intenti sulla volontà di creare una forma di jazz totale, immaginifica e sinestetica, al crocevia tra espressioni artistiche differenti, in cerca dell’unione tra arti visive e performative, alla base della pratica artistica di Mazurek. L’altro omaggio è alla suite “Le Sucrier Velours” di Duke Ellington con la sua orchestra, composta nel 1959 in un momento in cui Ellington era influenzato dalla musica europea di Tchaikovsky e Edvard Grieg. Nonostante l’impronta cool jazz, i due simbolici tributi e lo stile davisiano di Mazurek, in “Playground” è già presente l’influenza di Sun Ra e di Edgar Varèse, soprattutto nel brano che dà il titolo all’album, che ne è una perfetta commistione. Da segnalare la ballad post-rock/jazz “The Inner Soul Of H”, praticamente un duetto tra Mazurek e Parker con la presenza lieve alle percussioni di Tony Pinciotti, degna di una colonna sonora di Angelo Badalamenti.Tortoise with the Ex - In The Fishtank 5 (Konkurrent, 1999)
Sempre sia lodata Konkurrent per averci regalato, lungo una dozzina di anni, le quindici uscite della serie "In The Fishtank", che hanno fatto incontrare alcune delle realtà più belle per chiunque, tra la fine dei Novanta e l'inizio del nuovo millennio, fosse appassionato di sonorità cui si potessero applicare prefissi come “alternative-” e “post-” (Low e Dirty Three, Sparklehorse e Fennesz, Motorpsycho e Jaga Jazzist).
Il quinto episodio della serie racconta i due giorni passati in studio dai Tortoise con i leggendari punk olandesi The Ex, che da lì in poi avrebbero portato avanti collaborazioni sempre più frequenti in ambito experimental e jazz – con Han Bennink, Anne-James Chaton, Getatchew Mekurya e, molto importante, Brass Unbound (cioè Ken Vandermark, Mats Gustafsson, Roy Paci e Wolter Wierbos). Poco o niente jazz in senso classico, in questi ventidue minuti, ma “In The Fishtank 5” testimonia la centralità dell'improvvisazione per l’underground chicagoano. In prima linea ci sono il noise devastante e i groove dinoccolati degli Ex, mentre i Tortoise si fanno notare di meno: lavorano sui dettagli e interferiscono in penombra, ma riescono a essere essenziali.
Se l’ascolto è un’esperienza singolare, le registrazioni sono di sicuro valore: menzione d’onore per il possente strumentale “The Lawn Of Limp”, posto in apertura; per il clangore da acciaieria delle chitarre di “Central Heating” in contrapposizione alla vaga melodia folk che si intuisce in lontananza; per il disturbo al segnale di “Huge Hidden Spaces” che mette in prima linea ciò che prima stava nascosto dietro muri di elettricità. “History Is What’s Happening” (More DPM, 1982), recitava il titolo del secondo album degli olandesi: un concetto fondamentale anche in questa selezione.Vandermark 5 - Burn The Incline (Atavistic, 1999)
Il jazz-core passa da qui – certo, come da Bill Laswell, NoMeansNo, Minutemen, Naked City ed Ex. Free sporco ma ancora ordinato, contaminato con blues, funk, rock. Così suona il quarto disco della formazione dell’incontenibile Ken Vandermark (clarinetto e sax tenore) insieme a Jeb Bishop (trombone, chitarra), Dave Rempis (sax alto e tenore), Kent Kessler (basso) e Tim Mulvenna (batteria). Dal brano di apertura “Distance (For Joe Morris)” la musica del quintetto si muove tra Ornette Coleman e i Lounge Lizards, da un passo sinuoso a un’andatura alterata, con impennate distorte e dissonanti che riemergono dal passato punk di Bishop. La sezione ritmica è granitica, e su quel sostrato solidissimo possono muoversi in sintonia i vigorosi fraseggi di Vandermark e Rempis, in solo e unisoni. “Late Night Wait Around (For Ab Baars)” potrebbe essere uscito da un disco post-rock, con un fraseggio di chitarra ripetitivo e minimale sopra il quale si costruisce la ricca architettura dei fiati. Dove “Roulette (For Nate McBride)” è vigorosa e corale, “Accident Happening (For William Parker)” è scompostamente free, dove “In Focus (For Per Henrik Wallin)” è cool, “Ground (For The Ex)” è core. “Burn The Incline” è un album esplosivo.Jeb Bishop Trio - Jeb Bishop Trio (Okka, 1999)
Bishop è una figura attiva a Chicago da inizio anni Novanta. Prima di dare nome e identità musicale a un proprio progetto, realizza l’album free “The Brass City” (Okka, 1997) con John McPhee, storico multistrumentista e animatore della scena impro con Ken Vandermark; partecipa ad album sia post-rock sia ambient-pop come “The Harp Factory On Lake Street” (Table Of The Elements/K9, 1995)” dei Gastr del Sol, “Bad Timing” (Drag City, 1997) di Jim O’Rourke e “Dots And Loops” (Elektra, 1997) degli Stereolab; infine, esordisce con una serie di duetti immortalati in “Duets 98” (Wobbly Rail, 1998) che lo vedono dialogare al trombone con Joshua Abrams (The Roots, Town & Country con Ben Vida, Tortoise e Godspeed You! Black Emperor), il solito Vandermark, Mats Gustafsson (The Thing, Fire!), Wadada Leo Smith (Roscoe Mitchell), Fredrick Lonberg-Holm (John McPhee, Peter Brötzmann) e Hamid Drake (Fred Anderson, William Parker).
Nel 1999 Bishop pubblica per l’etichetta locale Okka il primo lavoro in trio, da lui composto, insieme a Kent Kessler (basso) e Tim Mulvenna (batteria), già con lui nei Vandermark 5. Estroso e incalzante, “Jeb Bishop Trio” mette in luce la vitalità e l’arguzia strumentale di tre musicisti della nuova generazione jazz di Chicago e di una personalità che si stava emancipando da radici punk per orientarsi verso una commistione di bop e free jazz; un album che presenta brani dalla forma compatta, strutturata su temi-fraseggi-soli, ma che allo stesso tempo apre a soluzioni di avanguardia (“Big Stubby”).Peter Brötzmann Chicago Tentet - Stone/Water (Okka, 2000)
Più che un album, un’esperienza live catartica nel mondo degli strumenti a fiato free, registrata al Festival de Musique Actuelle a Victoriaville in Canada. Alla corte del maestro Peter Brötzmann si raduna una sezione di compositori e improvvisatori memorabile, con Ken Vandermark, Mats Gustafsson, Mars Williams, Jeb Bishop, Joe McPhee, insieme a Fred Longberg-Holm al violoncello e alla sezione ritmica di Kent Kessler, Hamid Drake e Michael Zerang. Free jazz multiforme e incendiario, solo apparentemente caotico ma in realtà guidato, organizzato e narrativo.
Il primo riferimento che viene in mente è non-musicale: sono le sinfonie urbane, forma filmica del cinema d’avanguardia di inizio Novecento creata da registi-artisti come Walter Ruttmann, Charles Sheeler, Paul Strand e Rudy Burckhardt per descrivere e rincorrere con le immagini il ritmo e i suoni di metropoli moderne come Berlino e New York, colte nel loro caos sistematico. Così i quasi quaranta minuti ininterrotti della suite live “Stone/Water” sono metafora del panorama sonoro della città della società di massa, emblematici del crocevia di incontri e contaminazioni della scena impro di Chicago, dove molti musicisti europei, come Brötzmann e Gustafsson, si recavano regolarmente.Chicago Underground Duo - Synesthesia (Thrill Jockey, 2000)
Dicevamo delle sinfonie urbane? Se c’è una cosa che ricorda l’attacco del secondo album del duo Mazurek/Taylor è proprio la musica elettronica pionieristica di Louis e Bebe Barron realizzata per il film di fantascienza “Il pianeta proibito” (1956) e per il city film “Bridges Go ‘Round” (1958) della filmmaker indipendente Shirley Clarke, tra le fondatrici del New American Cinema Group e della Filmmakers Cooperative di New York City. Allo stesso modo, la musica del Duo lavora sulla componente immaginifica e sinestetica, come da titolo programmatico, guardando – ancora! – al Miles Davis elettrico e visionario di “Bitches Brew” (Columbia, 1970), ma anche alla storia delle arti visive e delle immagini in movimento d’avanguardia, alla perenne ricerca di una sintesi espressiva e concettuale attraverso elementi musicali come il ritmo e il timbro. Non aspettatevi però un disco jazz, non presumetelo post-bop: prefiguratevi piuttosto un viaggio sonico, astratto e rarefatto tra elettronica e musica colta dove il jazz è il codice-sorgente, come se i sintetizzatori di Sun Ra fossero processati dalle macchine di Christian Fennesz. Nello stesso periodo, grazie alle collaborazioni con Jim O’Rourke per “Eureka” (Drag City, 1999) e con Stereolab, L’Altra e Calexico, Mazurek consolida una carriera da musicista/compositore jazz e musicista/collaboratore in ambito indie/post-rock.Chicago Underground Quartet - Chicago Underground Quartet (Thrill Jockey, 2001)
Un disco illuminante per capire come fondere l’attitudine del jazz con la ratio del post-rock chitarristico, inseguendo le traiettorie di Bill Frisell e Marc Ribot – il primo nei Naked City di John Zorn; il secondo nei Lounge Lizards, nel progetto Masada di Zorn e, con Chad Taylor e Herny Grimes, in un nuovo trio: tutti sotto la stella di Albert Ayler.
È con questi modelli in mente che al CU Duo Mazurek/Taylor si uniscono ufficialmente Jeff Parker alla chitarra e Noel Kupersmith (Brokeback) al basso, dando ai brani una struttura più solida sul piano armonico che asseconda un fraseggiare più melodico. La perfetta sintesi delle due anime si può trovare in “Welcome”, che inizia con una melodia di Parker costruita su una fitta trama di batteria, per andarsi poi a disgregare in un caos free/noise astratto e dissonante per il tramite della cornetta di Mazurek, recuperando schegge di tema solo nella parte finale.
Se la prima sezione del disco è più intensa e phrasing-oriented – a partire dalla poliritmica “Tunnel Chrome” – “Three In The Morning” prefigura le atmosfere brasiliane che diventeranno centrali nei São Paulo Underground, di cui la schizofrenica “Nostalgia” scioglie le sfumature melanconiche in passaggi elettronici più astratti e molecolari. Non mancano anche sacche di improvvisazione, come la crepuscolare “Sink, Charge, Fixture”.
Un esordio imperdibile per comprendere non solo l’esperienza del collettivo Chicago Underground, ma soprattutto la specificità della scena post-jazz-rock della windy city.HiM - Many In High Places Are Not Well (Bubble Core, 2003)
Per chiunque sia cresciuto al suono malinconico, rarefatto e disarticolato di certo alt-rock americano anni Novanta, Doug Scharin è una specie di nume tutelare. Batterista prima nei Codeine di “White Birch” (Sub Pop, 1994) – e non è un caso che sia proprio di Chicago l'unica band slowcore che non si sia evoluta in direzione folk – e poi negli altrettanto centrali June Of 44, Scharin ha fondato il progetto HiM sul finire del decennio per portarlo a piena maturazione nel 2003 con “Many In High Places Are Not Well”.
Registrato in tre sessioni, questo splendido lavoro vola libero tra poliritmi afrobeat, gommosi bassi dub e kraut da aperitivo à-la Stereolab che certo non sarebbe dispiaciuto nemmeno al Sandro Perri di “Impossible Spaces” (Constellation, 2011), il tutto retto e facilitato nella maggior parte dei casi da una doppia batteria – l'altra è quella di Dave Pavkovic. A dare una mano, una pletora di altri musicisti: tra gli altri, il vecchio compagno di band Fred Erskine (basso), Josh Berman e Carlo Cennamo ai fiati, Christian Dautresme alla voce (un soffio di vento, se credete) e perfino Rob Mazurek in “The Way The Trees Are”. Pezzo migliore di un album di notevole coerenza e qualità media, quest’ultimo brano si svela al mondo come una sorta di incantesimo sonnambulo e dall’andamento ciclico che non fa percepire minimamente la lunga durata. In scaletta arriva appena dopo la title track e “Slow Slow Slow”, e sono forse questi gli altri due episodi che rappresentano al meglio la grande facilità comunicativa di questo progetto, nonostante le complessità formali: dalla naturalezza con cui la kora di Abdou M’boup si inserisce nella tessitura ritmica della prima alla sensualità bassosa della seconda, “Many In High Places Are Not Well” è una specie di piccola magia così perfettamente concepita da non permettere più di distinguere la fine di uno strumento dall’inizio dell’altro.Chicago Underground Trio - Slon (Thrill Jockey, 2004)
Dal 1999 Mazurek (cornetta ed elettronica) e Taylor (batteria e vibrafono) allargano il duo a Noel Kupersmith (basso ed elettronica), con cui realizzano tre album. “Slon” è l’ultimo capitolo di questa configurazione in trio, un esperimento di jazz di avanguardia che s’inserisce in area post-bop presentando una doppia anima, particolarmente scissa in termini di distribuzione dei brani: da un lato l’elettronica, dall’altro il jazz. Non che in altre prove di Mazurek l’elettronica non fosse così rilevante, ma in “Slon” la presenza è evidente anche in termini compositivi, e contamina l’idea di forma tradizionale del brano jazz e delle sessioni live, con l’influenza della minimal techno, del glitch e dell’indietronica di band Morr Music come Tarwater e Notwist (“Slon”) che risulta a volte in primo piano rispetto al suono della cornetta di Mazurek, invertendo il canonico posizionamento nel mix tra groove di sfondo e strumenti a fiato solisti in primo piano (“Zagreb”). Il collante di tutto è Taylor, col suo modo melodico, fraseggiato e vigoroso di suonare e comporre con la batteria (“Campbell Town” è la vera prova di passione).
“Slon” è un album eterogeneo nella costruzione della scaletta più che nelle sonorità di ciascun brano: vi troviamo l’afrobeat di “Protest”, il minimalismo colto di “Kite”, i field recording di “Palermo”, il bop di “Shoe Lace” fino al cool jazz di “Pear”, che chiude in maniera dolente il disco in un’atmosfera jazz atemporale.Jeff Parker - The Relatives (Thrill Jockey, 2005)
Secondo lavoro di Parker come bandleader a due anni di distanza dal più corposo “Like-Coping” (Delmark, 2003), "The Relatives" vede il chitarrista affiancato da Chris Lopes al basso, Chad Taylor alla batteria e Sam Barsheshet al piano elettrico. Punti focali di queste otto raffinate composizioni sono la limpidezza melodica, la facilità e la scioltezza delle esecuzioni e l’assoluto equilibrio fra i talenti in campo – è facile concentrarsi su uno qualunque degli strumenti trovandosi a pensare che sia proprio quello a dirigere l’ensemble.
La sei-corde di Parker è al solito nitida e solare, quasi parlante nella capacità di costruire frasi, e poggia su ritmi vivaci e talvolta perfino incalzanti, come in “Mannerisms” o nello swing irresistibile della cover di Marvin Gaye “When Did You Stop Loving Me, When Did I Stop Loving You”; non ha però remore ad arretrare, quando il pezzo lo richiede – i tre minuti iniziali di una “The Relative” dal sapore latino. “Rang”, ipnosi collettiva che ruota attorno a un tema di Wurlitzer di due note e a tamburi e piatti via via meno roboanti, è l'ottima chiusa per un lavoro godibilissimo, di gran qualità.Tigersmilk - Tales From The Bottle (Family Vineyard, 2005)
Free jazz d’avanguardia che si contamina con la musica colta, sia elettronica sia classica. Al centro, il rapporto del trio col rumore e col silenzio e la capacità di creare una narrazione collettiva senza seguire strutture per temi o sezioni alternativamente jazz o post-rock, come nel caso della maggior parte delle precedenti prove del Chicago Underground.
Mazurek stavolta si associa a musicisti d’area più sperimentale – Jason Roebke al basso (Scott Fields, Eric Roth, Fred Lonberg-Holm, Dave Rempis) e Dylan van der Schyff alla batteria (Dave Douglas, Wayne Horvitz) – e nel 2003 pubblica il primo album omonimo come Tigersmilk. Il trio trova però nel secondo “Tales From The Bottle” l’episodio più ispirato, in sei tracce di avant-jazz definite solo dal numero progressivo. La sensazione è che Mazurek ricerchi qui una qualità espressiva e timbrica visiva, per costruire mondi e racconti al di fuori delle regole e degli stilemi dei sottogeneri a lui più affini – il bop, il cool, il free jazz. Un processo più che un’opera, un’esperienza più che un ascolto.São Paulo Underground - Sauna: Um, Dois, Três (Aesthetics, 2006)
L’abilità e la capacità di Rob Mazurek di cambiare pelle e di creare progetti musicali sempre nuovi e con identità ben definite è inesauribile. Traiettorie ritmiche sudamericane, insieme a un’elettronica meno liquida e più compressa, portano i suoi fraseggi nei territori inesplorati di questo São Paulo Underground – sperimentati sul campo in Brasile, dove risiede temporaneamente – e trovano un appoggio fondamentale nell’accompagnamento, negli arpeggi e nelle parti di marimba del percussionista e musicista elettronico Mauricio Takara.
Stavolta la tessitura dei brani non è scarna e vaporosa come in “Synesthesia”, ma è densa e stratificata, fatta per essere “una sola moltitudine”: il nuovo duo – prima di trasformarsi in trio con Guilherme Granado – si avvale della collaborazione di Wayne Montana e Damon Locks degli Eternals, dell’ubiquo Chad Taylor, di Joshua Abrams e di musicisti d’avanguardia locali come Marcos Axe e Tiago Mesquita per costruire layer di tracce sonore, saturando sia i singoli suoni che il mix generale in una logica guidata principalmente dall’elettronica. Non si procede più per sottrazione o addizione, ma per distinzione dentro il magma sonoro-musicale della metropoli del nuovo millennio, in cui San Paolo si accosta a Chicago. Le tracce sono infatti flussi in cui di volta in volta emergono e affondano alcune parti più di altre – voci, fiati, figure ritmiche – come accade in “The Realm Of The Ripper” e “Balão De Gas”. Se i drone e i beat trip-hop dell’iniziale “Sauna: Um, Dois, Três” quasi stordiscono, la salsa di “Pombaral” si innerva sul fraseggiare tipico della cornetta di Mazurek.
Il disco è sorprendente, una formula personale di electro/psych-tropicalismo che stupisce per le soluzioni adottate anche all’interno di uno stesso brano, assonanti al jazz afrofuturista di Sun Ra o all’afrobeat di Fela Kuti (“Afrihouse”), all’electro-jazz di Tied & Tickled Trio o all’elettronica d'avanguardia di Autechre combinata anche col post-rock (“Olhossss…”). Un esordio denso, esaltante; un ulteriore, originale percorso di ibridazione tra tradizioni musicali popolari e sperimentali di aree diverse del continente americano.The Thing & Ken Vandermark - Immediate Sound (Smalltown Superjazz, 2007)
Un’istantanea dell’incontro live tra due giganti dell’improvvisazione come Mats Gustafsson (sax alto e baritono) e Ken Vandermark (sax tenore) e la potente sezione ritmica di Ingebrigt Håker Flaten (basso) e Paal Nilssen-Love (batteria). Non una prima volta per Gustafsson a Chicago, a dire il vero: in precedenza, aveva lavorato in città con Haid Drake per un tributo a Don Cherry e con gli ex-Gastr Del Sol David Grubbs e Jim O’Rourke.
“Immediate Sound” è un’unica sessione di circa 38 minuti in quattro parti, registrata il 21 aprile 2007 all’Hide Out, ex-ballroom degli anni 30 e oggi gay club, sorta di timeline della musica locale tra cool e free jazz, punk e post-punk, indie e post-rock. Una performance muscolare dai tratti jazz-core, che mescola l’attitudine punk di The Thing con quella free-form di Vandermark, intrecciando dialoghi obliqui, ruvidi e a volte dissociati, fraseggi ritmici dei fiati e groove di batteria ad alta intensità. Pieni e vuoti si intervallano, mentre i soli di batteria e basso sostengono frasi più melodiche e contemplative (“Immediate Sound II”), con citazioni a “A Love Supreme” di John Coltrane, in un’elaborazione dai nervi funky (“Immediate Sound III”) che porta al veemente epilogo free-core.Nicole Mitchell’s Black Earth Ensemble - Black Unstoppable (Delmark, 2007)
“An Improvised Life”, titolava nel 2007 una breve monografia del Chicago Reader dedicata a Nicole Mitchell, definizione quantomai azzeccata per il percorso di un’artista che sin da giovanissima ha concepito l’improvvisazione come un ponte verso gli altri – è proprio lei a raccontare il jazz come una conseguenza di questo approccio, più che un punto di partenza o una semplice passione musicale. Ex-presidente della AACM, di cui fa parte sin dalla metà dei Novanta, Mitchell è l'epitome stessa di un’organizzazione che della connessione fra generazioni ha fatto la propria bandiera; è allora perfettamente naturale che da una visione così radicata in una comunità nasca un’arte dal profondo valore pedagogico e con una forte responsabilità sociale, che trova nel quarto lavoro del suo Nicole Mitchell’s Black Earth Ensemble un’eccezionale corrispondenza tra intenti e risultato.
In “Black Unstoppable” la flautista – accompagnata da nomi caldi della scena: l'onnipresente chitarra di Jeff Parker, il violoncello di Tomeka Reid, il sax di David Boykin, la tromba di David Young, il basso di Joshua Abrams – propone un purissimo distillato di Great Black Music, in nove tracce di durata compresa fra i quattro e i tredici minuti. Ma non si immagini questo come un album a tesi, freddo e cattedratico: le composizioni di Mitchell e le divagazioni della sua orchestra sono anzi sempre fantasiose, eccitanti e fisiche, figlie in misura variabile di blues, soul, funk, post-bop, afrobeat e calypso.
Se è difficile indicare gli highlight di una scaletta di grandissimo livello, è certo che si fanno ricordare da subito gli interventi vocali di Ugochi Nwaogwugwu: vibranti, emozionali e stratificati, che si tratti di gestire un rauco call-and-response (con Young in “Love Has No Boundaries”) o di armonizzare su una tiepida brezza latina (“Life Wants You To Love”) o sul crescendo R’n’B della jam conclusiva (“Thanking The Universe”, con un pazzesco showcase di Parker); altrove è l’attitudine improvvisativa a prendere il sopravvento, come nel caso di una title track dagli imprevedibili intrecci di fiati e di un’interminabile “The Creator Has Other Plans For Me” (almeno un assolo per ciascuno, e per giunta di gran gusto).
A tenere il punto fermo sulla big picture è sempre lei, Nicole Mitchell, flauto magico capace di raccogliere intorno a sé il suono di un’intera città.Matana Roberts - The Chicago Project (Central Control International, 2008)
La sassofonista Matana Roberts debutta nel 2002 col brillante (e canonico) trio Sticks and Stones, insieme al batterista Chad Taylor e al bassista Joshua Abrams. Il progetto nasce condividendo il palco del Velvet Lounge di Fred Anderson e diventa l’appuntamento fisso della domenica. Con l’esperienza nell’AACM e una gavetta con Steve Lacy, Eugene Chadbourne, Henry Grimes, Anthony Braxton, Ravi Coltrane, Don Byron, Nicole Mitchell, Angelica Sanchez, Peter Brötzmann, Jeff Parker e Rob Mazurek, Roberts milita nel trio prima di intraprendere un percorso solista.
A cesura del primo periodo di carriera si colloca “The Chicago Project”, tra post-bop, free jazz e avanguardia, porta di accesso verso i capitoli del successivo progetto “Coin Coin”, ambizioso concept sulla diaspora afroamericana pubblicato a partire dal 2001 da Constellation, che attraversa gli stilemi del genere in diversi ensemble in una forma narrativa, metaforica e metadiscorsiva. In questo omaggio così profondamente jazz alla città natale – fotografia di un momento di ricerca e mutazione live della scena registrato da John McEntire – la musicista rafforza le proprie doti compositive di sintesi tra narrazione ed espressione, oltre a risaltare per le intense performance al sax e al clarinetto. Ad accompagnarla, un quartetto di amici come Abrams, Parker, Frank Rosaly (Ken Vandermark, Dave Rempis, Jeb Bishop) e il veterano Andersen. Nove brani che si compattano e si sfaldano tra tradizione e sperimentazione, che sudano e che si comprendono al meglio nella penombra di un locale notturno tra le cui pareti riecheggiano Sonny Rollins, Eric Dolphy e Bill Frisell. Un nuovo anello di congiunzione tra jazz e post-rock, legati da una spiccata vena improvvisativa e da un ethos DIY di comunità.Bill Dixon with Exploding Star Orchestra - Bill Dixon with Exploding Star Orchestra (Thrill Jockey, 2008)
L’ensemble Exploding Star Orchestra di Mazurek esordisce nel 2007 con “We’re All Here From Somewhere Else” (Thrill Jockey), titolo che denota una vena narrativa e un legame con la letteratura esplicitato anche dal contemporaneo “Android Love City” (Family Vineyard) a nome Tigersmilk, racconto astratto sull’umanizzazione degli androidi. L’Orchestra si riunisce intorno a Bill Dixon, fra le maggiori influenze del cornettista di Chicago: agitatore della stagione d’oro del free jazz newyorkese, Dixon fu l’organizzatore della memorabile quattro giorni October Revolution in Jazz del 1964, cui prese parte il Sun Ra Sextet e che portò alla formazione della Jazz Composer Guilds Orchestra di Carla Bley e Michael Mantler (con Paul Bley, Roswell Rudd, Steve Lacy e Don Cherry tra gli altri); suonò inoltre con Archie Shepp e Cecil Taylor e coordinò live di improvvisazione tra jazz e danza.
Sono le ricerche tra linguaggi trasversali che ispirano la collaborazione: Dixon e Mazurek trovano terreno comune nella pratica delle arti visive (la copertina, stavolta, è opera di Dixon), attraverso cui intessono una sintesi colta tra free jazz e avanguardia. L’album si compone di tre tracce sinfoniche: la prima e l’ultima scritte e condotte da Dixon, quella centrale da Mazurek – condivisa tramite partitura video – in cui si entra e si esce seguendo un percorso inaspettato ma coeso. L’Orchestra ha la capacità unica di suonare forte e pianissimo e di creare contrappunti che rafforzano e moltiplicano la narrazione rispetto alle sole cornetta e tromba, ad opera soprattutto della sezione fiati di Mitchell/Bauder/Bishop/Berman, di Parker e di Herndon. Più rarefatte e aperte le tracce di Dixon, più affollata e deflagrante quella di Mazurek, introdotta da un recitato di Damon Locks (Eternals), in cui riecheggiano Sun Ra Arkestra, John Coltrane, Charlie Haden e Moondog.
Un’opera enorme, con vari livelli di complessità, e anche un passaggio evolutivo nella concezione compositiva del progetto Exploding Star Orchestra, di cui si coglieranno a pieno i frutti nel 2020 con “Dimensional Stardust” (International Anthem/Astral Spirits).Rob Mazurek Pulsar Quartet - Stellar Pulsations (Delmark, 2012)
Una meteora si stacca dal sistema Exploding Star Orchestra e va a brillare nell’universo con una formula detonante di post-bop in un immaginario squisitamente jazz, senza interferenze da altre galassie soniche. Questo ennesimo quartetto è formato da Mazurek (cornetta), Angelica Sanchez (pianoforte), Matthew Lux (basso) e John Herndon (batteria): privo di chitarre e di elettronica, dunque. Restiamo un passo prima dell’elettricità fluente dei lavori della navicella madre, così come il secondo quintetto di Miles Davis di “Nefertiti” (Columbia, 1968), scritto in buona parte da Wayne Shorter e Herbie Hancock, si trovava un passo prima di “In A Silent Way” (Columbia, 1969) e “Bitches Brew” (Columbia, 1970). Siamo anche a distanza di sicurezza dalla deflagrazione free formale e timbrica di Ornette Coleman, in brani strutturati non necessariamente sul meccanismo tema/solo ma anche su un fraseggiare largo e disteso in sezioni formalmente controllate, prossimo a classici come “Mingus Ah Um” di Charles Mingus (Columbia, 1959).
La sensazione è proprio quella che Mazurek con “Stellar Pulsations” abbia voluto creare un classico moderno di area bop, senza troppe divagazioni. Il pianoforte di Sanchez apre squarci sulle armonie percussive di Thelonious Monk e sul misticismo di Alice Coltrane, Mazurek vola libero e davisiano come non mai, Herndon e Lux variano con accenti sudamericani e note tortoisiane (splendida la divagazione post-rock in “Spiritual Mars”). Lungo il profilo di un classicismo presentificato emergono guizzi di genialità a modernizzare una formula tutto sommato standard, come il giro di basso di “Spanish Venus”, mentre Mazurek plasma il suono della propria cornetta solo attraverso fiato e sordine.Dave Rempis Percussion Quartet - Phalanx (Aerophonic, 2013)
Free jazz totale, d’avanguardia. Dave Rempis, sassofonista alla corte di Ken Vandermark e attivo a Chicago con molteplici progetti, nel 2004 mette insieme un organico per sperimentare, attraverso l’improvvisazione, un’espressività free derivata dal funk e da ritmi sudamericani e dell’Africa occidentale. Riunisce così due batteristi locali, Tim Daisy e Frank Rosaly, e il bassista Ingebrigt Håker Flaten, norvegese di base a Austin già attivo non solo nei The Thing di Mats Gustafsson ma anche in collaborazioni con Evan Parker, John McPhee, Jeb Bishop e lo stesso Vandermark. Due batteristi, come nel seminale “Free Jazz: A Collective Improvisation” (Atlantic, 1961) di Ornette Coleman.
“Phalanx” trabocca di soluzioni e trattorie di scrittura live possibili, concretizzate da una poderosa sezione (poli)ritmica, dal camaleontico basso di Håker Flaten e dagli eclettici sassofoni di Rempis (alto, tenore e anche baritono). Il doppio album raccoglie la summa del free jazz performativo del quartetto, in quattro tracce di durata compresa tra i 26 e i 48 minuti che rappresentano due set dal vivo, uno registrato a Milwaukee e uno ad Anversa. Oltre due ore di musica in presa diretta in cui rallentare senza mai fermarsi e perdere le coordinate, tra richiami a Sonny Rollins (“Algonquins”), John Lurie (“Cream City Stomp”) e Peter Brötzmann (“Anti-Goons”). L’album esce per la neonata Aerophonic Records, creata da Rempis per dar voce a numerosi progetti paralleli tra cui ci piace ricordare almeno il trio Rempis/Abrams/Ra e Ballister.Pharoah & The Underground - Spiral Mercury (Clean Feed, 2014)
Il titolo riprende un brano di “Stellar Pulsation” del Pulsar Quartet, ma si spinge oltre. Stavolta Mazurek mette insieme i São Paulo Underground con Chad Taylor (Chicago Underground) e Matthew Lux (Exploding Star Orchestra/Pulsar Quartet) per collaborare con Pharoah Sanders. Lo storico sax tenore californiano, svezzato da Sun Ra e al fianco di John Coltrane negli album della svolta free “Ascensions” e “Meditations” (Impulse!, 1966), coadiuva l’ensemble di Mazurek nell’intento di sciogliere il post-bop nella psichedelia elettronica.
“Spiral Mercury” è il terzo appuntamento con la storia del jazz alla frontiera free, dopo i due capitoli con Bill Dixon e Roscoe Mitchell, e immortala una performance al festival Jazz em Agosto di Lisbona a base di percussioni, mbira, vibrafono e marimba (Taylor e Granado), cavaquinho (Takara), elettronica e tastiere (Mazurek e Granado). In scaletta si contano tre rielaborazioni da precedenti produzioni – “Blue Sparks On Her” da “Synesthesia” (Thrill Jockey, 2000) del Chicago Underground Duo; “Pigeon” e “Jagoda’s Dream” da “Três Cabeças Loucuras” (Cuneiform, 2011) del São Paulo Underground – perfettamente integrate nel tessuto connettivo di un jazz cosmico che mira a creare nuovi equilibri formali tra la composizione e l’improvvisazione. Le traiettorie del sax, della cornetta e del flauto si muovono su tessiture in costante mutazione tra affollamento e rarefazione, tropicalismo (“Spiral Mercury”) e misticismo (“Ghost Zoo”). Un’esperienza sensoriale e intellettuale che porta una figura chiave del jazz contemporaneo in territori floridi e ancora inesplorati.Rob Mazurek - Alternate Moon Cycles (International Anthem, 2014)
Ha davvero poco a che fare con il jazz, questo splendido solo album. Ha invece molto a che fare con il modo di lavorare di Scott McNiece e della sua International Anthem sin dagli esordi, tanto che è lo stesso McNiece a definire “Alternate Moon Cycles” un perfetto tone-setter per la label; è anche la prima uscita vera e propria dell'etichetta, a precedere di poco più di un mese “In The Moment” di Makaya McCraven, e a tutt’oggi esaurita e indisponibile in formato fisico (un vero peccato, dato che l'edizione originale in vinile conteneva stampe di dipinti dello stesso Mazurek).
Solo due tracce della durata di un quarto d’ora ciascuna, entrambe titolate “Waxing Crescent”, che vedono Mazurek all’abituale cornetta, Matthew Lux al basso elettrico e Mikel Patrick Avery all’organo; e sono due tracce di pura musica drone ambientale, rilassata ed eterea, fatta di temi portanti di pochissime note e uno sguardo estatico al circostante. Un ascolto che, a dispetto della qualità impalpabile del materiale, si rivela immediato e potente, incanto d'alba invernale che si leva a sciogliere la brina.Makaya McCraven - In The Moment (International Anthem, 2015)
L'enfant prodige/beatmaker/batterista jazz applica la tecnica del cut-up, della manipolazione e del collage per montare 19 brani ricavati dalle registrazioni di 28 concerti per un totale di 48 ore di performance improvvisate all’interno della medesima venue lungo un anno intero – The Bedford, un ex-caveau di banca che ci riconduce nelle viscere elettroniche del Tresor di Berlino. Operazione chirurgica che prende grandiosamente il nome di “In The Moment” per definire tanto la centralità del documento live, quanto la malleabilità di un materiale che in studio viene riconfigurato come metafora totale e incorporata della dimensione performativa. Per McCraven la sostanza del jazz è live, tanto quanto il sampling fa parte di tutta la storia della musica afroamericana da quando disco, house e hip-hop hanno presentificato funky, R’n’B e doo-wop campionando riff o groove in nuove storie. L’obiettivo resta la collettività, il tenere in vita un legame circolare tra il pubblico dei locali, della strada e dei club, per far tornare poi la musica nelle case sotto forma di supporto discografico. Oralità, performance, creazione e cultura condivise: è così che questa comunità ha costruito la propria storia.
E con “In The Moment” McCraven inizia a scriverne la propria versione, immortalandosi in primo piano su una copertina che ha già tutto il sapore del classico jazz, colto in una radiosa gioventù. Partito come trio insieme a Matt Ulery (basso) e Marquis Hil (tromba), l’organico si amplia a diversi musicisti tra cui Jeff Parker (chitarre), Junius Paul (contrabbasso e basso elettrico), Joshua Abrams (contrabbasso) e Justefan (vibrafono).
Il disco è un’immersione in una visione del jazz a 360° tra bop, cool e free che tocca anche l’hip-hop e l’elettronica – in sintonia col sound californiano di Madlib – passando da un panorama sonoro a un altro e facendoli confluire in dissolvenza incrociata, con incredibile naturalezza. Ancora oggi, una delle prove più intuitive e convincenti di McCraven.Chicago Reed Quartet - Western Automatic (Aerophonic, 2015)
La prima cosa che balza all’occhio approcciando “Western Automatic” del Chicago Reed Quartet è la linea temporale: procedendo dal più anziano al più giovane tra i membri di questo quartetto di sassofoni si coprono quasi trent’anni di storia dello strumento – a partire da Mars Williams (classe 1955), passando per Ken Vandermark (1964) e Dave Rempis (1975), per finire con Nick Mazzarella (1984).
Basato quasi per intero su take singole registrate in un unico pomeriggio d'estate all’Hungry Brain di Chicago, l’album fila via che è un piacere nonostante le asperità in otto tracce equamente divise – due a testa, distribuite in uno schema ABCD-BADC – in fase di composizione. Contribuisce senz’altro a raggiungere l’obiettivo l’evidente rilassatezza delle session: anche i momenti di improvvisazione più rumorosa suonano consequenziali, fluidi e mai in aperto contrasto con le sezioni più evidentemente “scritte” dei brani in scaletta – i riff possenti e pieni di groove della “Broken Record Fugue” di Williams, oppure certi toni da Henry Mancini nell’opener “Burn Unit” di Vandermark, per non parlare delle tante facce della chilometrica “P.O.P” (di nuovo Williams). A suo modo sensuale nell’alternare persuasione e ossessione in “The Rush” (Rempis) o nella quiete da closing time di “Camera Obscura” (Mazzarella), il Quartet regala un sound tridimensionale, zeppo di dettagli che si colgono meglio a un ascolto in cuffia – le liner notes spiegano anche la disposizione dei musicisti in sala: da sinistra a destra, troviamo sempre Rempis, Mazzarella, Williams e Vandermark. In una varietà di fiati (sassofono alto, baritone, tenore e sopranino, ma pure clarinetto e clarinetto basso), “Western Automatic” mette in scena un vitalissimo dialogo strumentale tra generazioni.Jeff Parker - The New Breed (International Anthem, 2016)
Jeff Parker è saltato fuori quasi in ogni album, qui dentro, eppure sono pochissimi i lavori firmati a proprio nome da questo geniale musicista, come se ogni volta scegliesse con cura il momento opportuno per mostrare esplicitamente un nuovo sé. Tra “The Relatives” e “The New Breed” passano dodici anni e un'infinità di collaborazioni: a influenzarlo, qui, è evidentemente quella con il globetrotter Makaya McCraven, in particolare nell’attitudine orientata al loop e al sample di cui queste otto tracce fanno splendida mostra.
Accompagnato da Joshua Johnson (sax, flauto, clarinetto, piano, mellotron), Paul Bryan (basso elettrico) e Jamire Williams (batteria), Parker distilla in trentotto minuti un approccio alla materia jazz frammentato e ripetitivo fino all'ipnosi, facilmente accostabile alle donuts di J Dilla, sebbene le tracce capaci di proporsi come basi hip-hop non siano poi molte – l’apertura cingolata di “Executive Life”, otto minuti dal passo pesante e asincrono; il battito insistito e sensuale di “Get Dressed”, la chitarra vivace di Parker a farsi largo tra il vociare del caldo pubblico di un club. In altri episodi, piuttosto, il ritmo rallenta fin quasi alla stasi, come nel riff all’unisono di chitarra e tastiere di “Visions” o nelle quiete lande improvvisative di “Jrifted” – il lato psichedelico della faccenda, in questo caso, sta in campioni vocali lontani e distorti, che si percepiscono nitidamente solo poggiando l’orecchio alle casse e che però cambiano radicalmente l’effetto del brano sull'ascoltatore.
Dedicato da Parker al padre Ernie, scomparso durante le registrazioni, “The New Breed” è opera personale e perfino autobiografica: a chiudere il cerchio è infatti “Cliche”, in cui la voce delicata e attenta che doppia il giro di chitarra è quella della figlia Ruby; quattro anni dopo, cresciuta, la riascolteremo in apertura del formidabile “Suite For Max Brown”. Disco dopo disco, insomma, l’essere parte di una comunità – di questa comunità – sembra essere il vero motore della visione artistica di Jeff Parker.Eternals - Espiritu Zombi (New Atlantis, 2016)
Spirito da sempre elettrico, irrequieto e ambizioso, in “Espiritu Zombi” Damon Locks espande il trio degli Eternals – all’epoca attivo ormai da tre lustri buoni – a un organico di dieci elementi. Ai compagni Wayne Montana (chitarra) e Areif Sless-Kitain (batteria) si affiancano a questo giro Jeanine O'Toole e Tomeka Reid (voci), Matthew Lux (basso), Josh Berman (cornetta), Nick Mazzarella (sax alto), Nate Lepine (flauto) e Jason Adasiewicz (vibrafono), per un ciclo di nove pezzi che assumono le sembianze di una suite e di infausto presagio sulla zombificazione di un’intera società, quella americana, che di lì a poco avrebbe eletto Donald Trump a proprio Presidente.
A limitarsi al titolo orrorifico, uno potrebbe fantasticare su qualche moderna declinazione del verbo Goblin; all’atto pratico, l’horror risulta un’influenza solo a livello di immaginario lirico, l’ombra di un’Apocalisse prossima ventura proiettata su di un tappeto sonoro ugualmente nervoso e solare, che mette il Brasile e l’afrobeat sull’asse delle ascisse e taglienti chitarre post-punk – nessuna distorsione, solo alti secchi e squillanti con gli Ex a sorridere, complici, in tralice – su quello delle ordinate.
Musica politica, radicale e pessimista, che suonerebbe come una chiamata alle armi non fosse che il tempo sembra essere scaduto. Lo dicono i titoli (“Destroy The Body”, “Blackout!”, “Misshapen Darkness Of The Night”), lo riassume in dieci parole una killer line di Locks che pare uscita da una locandina alternativa dello “Zombieland” (2009) di Ruben Fleischer: “Get your survival packs together folks - the end has begun”.Irreversible Entanglements - Irreversible Entanglements (International Anthem, 2017)
Nasce tutto fuori da Chicago – tra Philadelphia, New York e Washington Dc – lo straordinario collettivo Irreversible Entanglements. L’occasione è un “Musicians Against Police Brutality” organizzato nel 2015 dopo l’assassinio di Akai Gurley: quel giorno, la poetessa/performer/attivista Camae Ayewa (che come Moor Mother ha pubblicato due fra i dischi avant più significativi degli anni Dieci), il contrabbassista Luke Stewart e il sassofonista Keir Neuringer salgono sul palco per un’improvvisazione, seguiti in scaletta dal duo Aquiles Navarro (tromba)/Tcheser Holmes (batteria). Qualche mese dopo, il 26 agosto, tutti e cinque i musicisti si ritrovano per una sessione in studio a Brooklyn, con in mente Amiri Baraka e il New York Art Quartet: quella sessione diventerà un disco solo due anni più tardi, pubblicato da una partnership tra International Anthem e Don Giovanni Records e impreziosito da un artwork di Damon Locks.
Quando abbiamo incontrato Camae Ayewa al Bronson di Ravenna a febbraio 2020, poco prima del primo lockdown, ci parlava entusiasta di “Who Sent You?” – in arrivo di lì a breve – come di un lavoro infinitamente più raffinato e complesso dell’esordio omonimo. Aveva ragione, certo: ma il liberation-oriented free jazz di “Irreversible Entanglements” resta inarrivabile per la carica dinamitarda che fa esplodere ogni secondo dei tre quarti d’ora in programma e restituisce a questa musica la dimensione politica per cui era nata. Dalla notte da tregenda di “Chicago To Texas” all’urlo non-mediato che apre il collasso di “Enough”, dal groove ipnotico della prima sezione di “Fireworks” che sfocia nella consueta improvvisazione da big band all’Apocalisse rivisitata in ottica black trauma di “Projects” (“Oh God, Moses has been lynched! And the choir refuses to sing!”), questa registrazione indimenticabile non fa prigionieri. Viscerale, rustica e politicizzata come una “Liberation Music Orchestra” per la dark age di Donald Trump.Jaimie Branch - Fly Or Die I (International Anthem, 2017)
“I think that free jazz is a real reflection of the times and everything that’s going on and that it is a form of protest because it is a fire you have to put out”. Una vita e una carriera avanti e indietro tra New York e Chicago, la trombettista Jaimie Branch si è fatta un nome nell’ultimo decennio per un sound incendiario e immediatamente riconoscibile e un sacro fuoco artistico che la porta ad abbattere ogni steccato di genere, che si tratti di jazz, improvvisazione o punk-rock.
“Fly Or Die” è il suo esordio in proprio, che la vede affiancata da Tomeka Reid, Jason Ajemian e Chad Taylor; ed è un esordio bruciante, impetuoso e irresistibile, brulicante di idee che affollano una mezz’ora densa ed emozionante. I tre “Theme” in scaletta – sequenziati come “001”, “002” e “Nothing” – sono pura gioia per l'ascoltatore: ritmi in levare e un suono stradaiolo e festoso, quasi un Mardi Gras a New Orleans. Danze sfrenate, insomma, quando invece “Leaves Of Glass” è un esperimento per overdub di assoli davisiani, i fiati di “The Storm” si aggirano per le casse come spiriti inquieti (ospite Ben LaMar Gay) e “Waltzer”, per una volta, si adagia in un quieto slow a luci basse. Chiude “Back To The Ranch”, novanta secondi in compagnia della chitarra acustica dell'amico Matt Schneider – e chi li avrebbe mai pronosticati, prima di arrivarci.
“Che fare quando il mondo è in fiamme?”, si domandava non retoricamente un film di Roberto Minervini di qualche tempo fa. Ecco, mettere sul piatto un disco come “Fly Or Die” – o il suo seguito del 2019, ancora più bombarolo – potrebbe aiutare a trovare una risposta: Jaimie Branch è una forza della natura.Makaya McCraven - Universal Beings (International Anthem, 2018)
Senza troppe discussioni, il doppio album che ha messo il nome della International Anthem sulla bocca di tutti e sugli scaffali dei negozi di dischi anche qui da noi; la ragione per cui se ne parla ormai ampiamente pure nelle sezioni culturali delle testate generaliste; il lavoro che più di tutti incarna le ambizioni di ridefinizione di un genere da parte della label di Chicago.
“Universal Beings” si configura come musica di concetto sin dalle modalità di realizzazione: quattro facciate, ciascuna dedicata a una sessione tenuta in una città differente (New York, Chicago, Londra, Los Angeles), con McCraven a fare ancora una volta da batterista e collante sociale, producer e direttore delle operazioni. A circondarlo, in quest’ora e mezza, degli all-star ensemble che fanno tremare le vene dei polsi – Tomeka Reid e Brandee Younger nella prima sezione, poi Shabaka Hutchings e lo spirito affine Junius Paul, Nubya Garcia e Ashley Henry, Anna Butterss e l’immancabile Jeff Parker.
Musica che suggerisce stati mentali sonnambuli – il lato newyorkese, singolarmente posto in apertura e pure quello meno diretto, che insinua piuttosto che affermare, tra gocce d’arpa e sfregamenti di corde di violoncello – oppure, più raramente, travolge in groove di spiccata fisicità – i nove minuti della pazzesca “Atlantic Black”, sul B-side, centerpiece dell’intera opera in cui la sola presenza di Hutchings sembra in grado di portare in dote venti afrobeat di scuola Sons Of Kemet e Ancestors. Minimo comune denominatore, un’eleganza cui di tanto in tanto fa un po’ difetto il sangue: se gli Irreversible Entanglements mettono a ferro e fuoco le strade, l’intera produzione di McCraven assimila lo studio di registrazione a un laboratorio dove tutto è rielaborato e ricalibrato fino al minimo dettaglio.
Sarebbe però ingiusto chiedere a questo doppio un approccio che non può avere, proprio per via delle sue premesse e del milieu dei musicisti coinvolti. C’è invece solo da applaudire al talento di un bandleader trentacinquenne che riesce a connettere con straordinaria maturità e scioltezza mondi lontanissimi in un’unica lingua black e totalmente contemporanea. Non sarà il più bello tra i dischi di questa raccolta, ma “Universal Beings” è forse quello storicamente più significativo. Già un classico.Resavoir - Resavoir (International Anthem, 2019)
Arriva e se ne parte in meno di mezz’ora come una brezza estiva lieve e confortante, l’omonimo d’esordio del collettivo Resavoir, tra le gemme più nascoste e scintillanti del nostro speciale. Anticipate dal singolo “Escalator”, che vede la partecipazione del rapper e sassofonista Sen Morimoto, le nove tracce nascono come gemmazioni stratificate da bozzetti del polistrumentista Will Miller – già nei Whitney e collaboratore di Lil’ Wayne, A$AP Rocky, Chance The Rapper e innumerevoli altri act – e poi impreziosite dagli ad-lib strumentali di una pletora di illustri concittadini tra cui spiccano Brandee Younger (arpa), Macie Stewart (violino), Mira Magrill (flauto) e Akenya Seymour (wurlitzer, piano, sampler, rare voci).
Una catena virtuosa che guadagna colori e rifrazioni a ogni nuovo passaggio di mano, un feelgood jazz capace di portare con sé la bella stagione – il meraviglioso florilegio sonico della title track, con tanto di gabbiani – e che impasta dosi variabili di solarissimi funk (“Taking Flight”), soul (“Plantasy”) e pop (“Illusion”). Chiude appropriatamente il mantra vocale di “LML” – “I love my friends/ I love my family/ I love my girl/ I love my city” – una specie di utopia impossibile in cui ogni minuzia è giustapposta con grazia all’altra e chiunque stia suonando suona liscio, fiducioso, totalmente a proprio agio.Damon Locks/Black Monument Ensemble - Where Future Unfolds (International Anthem, 2019)
Il collettivo di performer guidato da Damon Locks – sound e visual artist, membro degli Eternals e collaboratore di Rob Mazurek – ci riporta tra la storia del Civil Rights Movements e l’attualità di Black Lives Matter. L’album è un rituale collettivo in forma live, registrato nel 2018 al Garfield Park Botanical Conservatory di Chicago, con un ensemble di 15 membri in cui figurano la clarinettista Angel Bat Dawid, il batterista Dana Hall, il percussionista Arif Smith e un gruppo di danzatori. Tra jazz, gospel, hip-hop, performance e sound art, la prima prova del BME di Locks è una presa di coscienza politica e culturale elegante e viscerale, che si plasma nel presente riattivando gli elementi primari della musica afroamericana, spaziando dalla Nigeria ai Caraibi al Bronx, come in “Sound Like Now”.
“Knowing What We Know Now/ The Mind Searches for Reconciliation”, recita Locks, dando il via a una spirale per voce e percussioni che ci traghetta da “Statement Of Intent” al gospel di “Black Movement Theme”, in cui si dà inizio al re-enactment collettivo del passato per parlare di futuro: “I can rebuild the nation/ I can rebuild the nation/ I can rebuild the nation no longer working out”, ripete la piccola Rayana Golding del Chicago Children’s Choir in “Rebuild The Nation”.
Tra i brani più affascinanti troviamo “The Colors That You Bring”, inno trip-hip-hop con fraseggi di clarinetto obliqui e coro gospel, “The Future?” – incontro ideale tra Locks, Matana Roberts e Moor Mother sotto la stella di Sun Ra – e “The Power”, corsa di gruppo a perdifiato fiato verso “From A Spark To A Fire”, sintesi delle intenzioni e della forma dei due brani precedenti in un epilogo catartico e aperto.Junius Paul - Ism (International Anthem, 2019)
“Junius is so many different things - African music, jazz, funk, soul, and avantgarde - he brings flavor from a lot of places. He’s a presence that ties different things together in the city”. Sono parole di Makaya McCraven, che del contributo di questo grande strumentista si avvale nella sezione di casa di “Universal Beings”, lavoro in fondo accostabile a “Ism” per ampiezza e approccio giroscopico alla creatività: ma tanto quell’opera esibisce un approccio da laboratorio alla materia jazz, quanto questa suona sanguigna e spontanea.
Anticipato da uno scatto di copertina stilosissimo – una palette di colori caldi e primaverili, col sole in faccia – “Ism” è una conseguenza degli anni spesi da Paul come bassista in residenza della jam domenicale del Velvet Lounge, anni in cui sono nate e si sono cementate molte delle relazioni che si ritrovano in questi solchi. Le sessioni di registrazione si snodano dal 2016 al 2019 e con parecchi musicisti diversi – McCraven stesso compare in tre tracce, ma poi tra gli altri si contano Isaiah Spencer, Tomeka Reid, Vincent Davis, Corey Wilkins e Justin Dillard – e per questa ragione il risultato è estremamente eterogeneo. Non si vedono però cuciture né frizioni tra la ricerca collettiva del fine-tuning di “You Are Free To Choose”, la sperimentazione concreta di “Bowl Hit” o “Twelve Eighteen West”, il funk schiacciasassi di “Baker's Dozen” (una cosa che sembra lì apposta per gli A Tribe Called Quest) o il saliscendi supersonico di “The One Who Endures”, per non parlare delle estesissime “Spocky Chainsey Has Re-Emerged” o “Paris”. Un gioiello, “Ism”, pura essenza di un grande artista.Tomeka Reid Quartet - Old New (Cuneiform, 2019)
Tomeka Reid è uno dei talenti dell’ultima generazione di jazzisti fiorita a Chicago. Di formazione classica, col suo violoncello è stata parte del Black’s Earth Ensemble di Nicole Mitchell, dello Zim Sextet di Anthony Braxton, del Roscoe Mitchell Quartet e degli Art Ensemble of Chicago, ha collaborato con Mike Reed, Dave Rempis, Joshua Abrams, Makaya McCraven e Jaimie Branch e ha pure contribuito ad alcuni lavori di Owen, progetto cantautoriale di Mike Kinsella (Cap n’Jazz, American Football, Owls).
“Old New” arriva a quattro anni dal solido debutto del suo quartetto, formato da musicisti di pari statura come Mary Halvorson (sensazionale chitarra), Jason Roebke (basso) e Tomas Fujiwara (batteria). L’album ha una marcia in più rispetto al precedente, dinamite espressiva di musica colta e jazz intellettuale dove l’apollineo trionfa sul dionisiaco, come per McCraven. Ma dove il batterista deus ex machina opera in maniera chirurgica con l’editing, la violoncellista affina al minimo dettaglio composizioni funamboliche, che scorrono “fino all’ultimo respiro”. “Old New” è un album di avant-jazz corposo, irrequieto, traboccante di vitalità e di idee che si muovono in più direzioni, con un senso del groove robusto, fraseggi obliqui che scivolano anche nella cacofonia e radici blue nella tradizione afroamericana. Dal post-bop programmatico di “Old New” alla fantasmagoria unisona di “Niki’s Bop”, dal gusto post-rock di “Aug. 6” alla marcia grottesca à-la Tom Waits di “Ballad”, dallo string/hard-bop di “Sadie” al free contemplativo di “Edelin”, la Reid schizza tra pizzicati e colpi di archetto, dimostrandosi non solo una notevole compositrice ma una strumentista eccellente che inscrive il violoncello nell’alveo degli strumenti del jazz contemporaneo. Halvorson è l'alter ego di Reid e, nel suo stile friselliano, si muove in modo vertiginoso tra assonanze e note bended/pitched. Splendida la chiusura di “RN” in un album da ascoltare più volte per apprezzarne la preziosa, attenta complessità.Art Ensemble Of Chicago - We Are On The Edge: A 50th Anniversary Celebration (Pi, 2019)
Un cerchio che si chiude, l’ultimo consiglio prima del diluvio di uscite dell’anno appena concluso. Ma non è per mere ragioni storiografiche che “We Are On The Edge”, celebrazione del cinquantenario di attività dell’Art Ensemble Of Chicago, ha trovato posto in questa selezione; conta invece lo sguardo sempre aperto al mondo e ultra-ricettivo dei due nomi storici rimasti, Roscoe Mitchell (sassofoni) e Famadou Don Moye (percussioni di qualunque foggia), che ospitano sotto quelle insegne immortali un’orchestra di una quindicina di ospiti e tributano il giusto omaggio ai grandi scomparsi Lester Bowie, Malachi Favors e Joseph Jarman.
È fatto di due parti, “We Are On The Edge”: una in studio, la prima dai tempi di “Sirius Calling” (Pi, 2004), in cui a composizioni scritte per l'occasione da Mitchell e Moye vengono accostate rivisitazioni dal repertorio storico; una in concerto, bruciante, ripresa all’Edge Fest 2018 di Ann Arbour, settanta minuti travolgenti tra classici – l’infinita “Tutankhamun” (da “Tutankhamun”, Freedom, 1969), la chiusura di “Odwalla” (da “Bap-tizum”, Atlantic, 1972) – che fa a meno degli inserti vocali e si concentra sull’espansione impro. In entrambe le incarnazioni, comunque, quello che si ascolta è un pensiero musicale radicale, forward-thinking e perfettamente in linea con una legacy ineguagliabile.
Vale la pena, in questa sede, concentrarsi sulle sessioni di studio, che vedono l’Ensemble aprirsi a vecchie conoscenze (Enoch Williamson e Titos Sompa), talentuosi concittadini (Tomeka Reid, Junius Paul, Nicole Mitchell) e altri nomi nuovi, virtuosi e importanti (Christina Wheeler, Jean Cook, la bassista pisana Silvia Bolognesi).
Il risultato è bifronte, ma non si colgono strappi tra l’artistry cameristica e d’avanguardia dei brani firmati da Mitchell e la percussività panafricana e sfrenata dei pezzi di Moye; un album che si apre con il vibrato caricaturale dell'oscuro vocalist Rodolfo Cordova-Lebron nella splendida quanto inaspettata “Variations And Sketches From The Bamboo Terrace”, ma che trova i propri vertici assoluti in un trittico bruciante – “We Are On The Edge”/ “I Greet You With Open Arms”/ “Mama Koko” – con Camae Ayewa al microfono.“Sii semplicemente te stessa”, chiede Mitchell alla poetessa/performer invitandola a prendere parte alla session, e Ayewa arriva dopo aver ascoltato giusto qualche disco dell’AEOC e portando con sé solo una voce inimitabile e liriche che come sempre incendiano l’aria. È elettrizzante ascoltarla ruggire “We are on the edge of victory” su una title track sincopata e insistente (they insist, letteralmente, in un trionfo di archi variamente pizzicati, percossi, accarezzati), un graduale processo di miglioramento collettivo che fa sentire prossimi alla vittoria. E per un progetto da sempre politico, un simile senso di speranza calato nella visione a tunnel di questi anni è un’esperienza ubriacante: cinquant’anni dopo, l'Art Ensemble Of Chicago è ancora “Great Black Music: Ancient To Future”.
This important year. Il 2020 del jazz a ChicagoIl 2020 del jazz a Chicago somiglia a un finale felliniano per questo speciale, con tutti i personaggi che tornano in scena per un inchino e un commiato; o, se preferite, a un brano che ritorna in trionfo al tema principale dopo minuti di assolo preparatori: musicisti all’unisono per una chiusura travolgente. Dell’anno che sarà ricordato come uno spartiacque per la fruizione della musica – con lo stop di ogni sua possibile declinazione concertistica in presenza – porteremo con noi anche il ricordo di album formidabili in cui tanti dei nomi incontrati fin qui si sono incrociati per dar vita a opere tra le più elettriche di tempi incerti.
È stato l’anno di International Anthem, prima di tutto, e sembra ragionevole cominciare a raccontarlo a partire da due personalità chiave della scena cittadina. Jeff Parker ha dato seguito a “The New Breed” con un lavoro ancora più libero e frastagliato come “Suite For Max Brown”, dedicato questa volta alla madre e sempre brulicante d’inventiva, tanto in brani originali iper-contaminati (menzione d'onore per “Build A Nest”, “Fusion Swirl” e la title track) quanto nella dolce rilettura di “After The Rain” di Coltrane. Rob Mazurek ha toccato un nuovo apice con la Exploding Star Orchestra in “Dimensional Stardust”, suite fantasmagorica in cui il jazz e la psichedelia si fondono in una cosa sola con le orchestrazioni, all’incrocio tra il “Porgy And Bess” (Columbia, 1959) di Miles Davis e Gil Evans, le visioni del Sun Ra di “The Futuristic Sounds Of Sun Ra” (Savoy Jazz, 1962) e la musica “visiva” d’avanguardia di Satie, Liszt e Bartók.E rimanendo nel roster di un’etichetta che non si potrebbe immaginare nata altrove, è impossibile non farsi travolgere dal secondo Irreversible Entanglements: se non può vantare la furia cieca dell'esordio omonimo, è pur vero che “Who Sent You?” – cui sembra rispondere indirettamente il “We Are Sent Here By History” (Impulse!, 2020) di Shabaka And The Ancestors – sembra poter ambire allo status di classico contemporaneo, in un flusso free rauco e arcano per cui, come nelle culture premoderne, non esiste il concetto di intrattenimento ma solo una sequenza di storie narrate con lo scopo di condividere, testimoniare, ricordare. Un collettivo che mostra un gran tiro pure nelle sortite parallele dei suoi membri: laddove il duo Aquiles Navarro e Tcheser Holmes abbatte i muri di genere in “Heritage Of The Invisible II” unendo agli spasmi ritmici e alla pura improvvisazione inserti di elettronica e spoken-word, “Luke Stewart Exposure Quintet” (pubblicato invero da Astral Spirits) propone un free jazz destrutturato con fiati e pianoforte a poggiare su una solida ossatura di contrabbasso e batteria.
Guardano altrove, invece, i compagni di label Carlos Niño e Miguel Atwood-Ferguson, già protagonisti del “Los Angeles Side” di “Universal Beings” di Makaya McCraven: il loro “Chicago Waves” – registrato dal vivo a Chicago – è un album denso di una spiritualità che sa placare le ansie dell’ascoltatore come se conoscesse il segreto per connettersi al suo respiro, grazie al suono e alla sospensione tonale di una musica che si ferma a un passo dalla new age.
Percorsi che s’intrecciano anche nel catalogo Astral Spirits con il Chicago Underground Quartet di Taylor, Johnson, Parker e Mazurek: “Good Days” è un comeback morbido, prezioso e intelligente, che fa godere del sodalizio tra quattro musicisti in stato di grazia, punti fermi di una scena cosmopolita che lega Chicago a Montréal, New York, Londra e Stoccolma. Sonda profondità abissali Jeb Bishop – ora di stanza a Boston – con i due berlinesi Antonio Borghini (basso) e Michael Griener (batteria): borbotta più che esplodere, l’avanguardia impro del suo “Jeb Bishop Centrifugal Trio”, e non disdegna l’uso di suoni inconsueti – quello che si sente in “Plumb” non è elettronica, ma lo squittio di un giocattolo per cani suonato attraverso il trombone – per un approccio giocoso che trova ottima rappresentazione negli undici minuti a incastro dell’opener “Jounce”.E un altro incastro – stavolta al Chicago Jazz Festival 2019 – è quello tra Dave Rempis, Jeremy Cunningham, Jeff Parker e Ingebrigt Håker Flaten, per tre tracce pubblicate con il titolo di “Stringers & Struts” (Aerophonic). Cinquanta minuti di musica “all’improvvisa” eppure solida e sorprendentemente accessibile; merito delle limpide svisate di Parker su e giù per il manico della chitarra, degli ispiratissimi solo al sassofono di Rempis e di una sezione ritmica pittorica nell’assecondare i cambi d’umore più radicali: valga come esempio l’interminabile “Cutwater”, impreziosita da una sezione centrale ispida e randomica.
Discorso differente per il leggendario percussionista Kahil El’Zabar, tra i pochi grandi nomi finora passati sotto silenzio e chairman della AACM dal 1975 al 1983. Il suo “America The Beautiful” (Spiritmuse) – pubblicato negli ultimi giorni dell’era Trump e registrato con musicisti di vaglia come Corey Wilkes (tromba), Hamiet Bluiett (sax baritono), Tomeka Reid (violoncello), Dennis Winslett (sax alto) e Samuel Williams (violino) – è una specie di manifesto per una nuova speranza, nonostante la pandemia, il dispotismo, la discriminazione e la violenza dell’oggi. Un disco che ha i colori di un caldo tramonto estivo e raccoglie, tra influenze caraibiche e battiti africani, ri-arrangiamenti di classici e composizioni originali. Spiccano, per passionalità e romanticismo, la rilettura di “Express Yourself” di Charles Wright and the Watts 103rd Street Rhythm Band, dal sorriso insopprimibile come una rivoluzione, e la più scura “Freedom March”: piccoli anthem per un anno in cui, come poche altre volte, si è sentito il bisogno di un’alternativa.
Ecco, sì, il presente: niente o quasi ha saputo raccontarlo con la lucidità e la rabbia costruttiva del jazz di Chicago, e ci pare bello concludere questo viaggio lungo un quarto di secolo con due delle release più emozionanti e life-affirming del catalogo International Anthem recente, di cui ancora non abbiamo avuto occasione di parlare su OndaRock. Partiamo dal principio.Il 7 aprile 2020 l’etichetta diffonde un nuovo singolo di Damon Locks e del suo Black Monument Ensemble: si chiama “Stay Beautiful” ed è di fatto una instant song scritta e resa pubblica al principio della pandemia da Covid-19 che per il resto dell’anno verrà criminalmente sottovalutata dal governo statunitense, con conseguenze catastrofiche. Il brano si apre con un’introduzione parlata di Locks che ci materializza in una stanza d’ospedale dove un paziente, ricoverato, affronta il dolore della solitudine; eppure, anche in condizioni tanto precarie, l’uomo riesce a trovare conforto nelle attenzioni che gli dedica il personale sanitario con fiori freschi posti a fianco del letto e una piccola nota scritta. A questo punto entra in scena il loop elettronico che sostiene l’intera composizione, cui si uniscono Angel Bat Dawid (clarinetto), Dana Hall (batteria) e Arif Smith (percussioni) in una trance ipnotica su cui le cinque voci di Phillip Armstrong, Monique Golding, Eric McCarter, Tramaine Parker e Lauren Robinson armonizzano il titolo del brano.
Non c’è molto, in “Stay Beautiful”, a dire il vero non c’è quasi nulla. Ma quello che c’è è oro, fedele ritratto di una ferrovia sotterranea di spiriti affini che sentono doveroso restituire sostegno, affetto e vicinanza a un tessuto sociale in sofferenza: “We see you. We love you. Stay beautiful”.Il “LIVE” di Angel Bat Dawid & Tha Brothahood cattura invece una performance di fuoco al JazzFest di Berlino il 1° novembre 2019 che verrà pubblicata esattamente un anno dopo. Quarantott’ore prima dello spettacolo, la clarinettista e il resto della band apprendono che il vocalist Viktor Le Givens, dopo essere svenuto per strada, si è risvegliato in un ospedale di Chicago scoprendosi derubato di tutto. Comunicata allo staff del festival la notizia, il collettivo ne ottiene una risposta agghiacciante: “Se non trovate un sostituto, dovremo ridurre il vostro compenso”. Alla fine Le Givens riesce a raggiungere i compagni, che si trovano però a vivere giorni di microaggressioni a sfondo razziale che non fanno che accrescere la tensione e l’amarezza. Di uno di quegli sfoghi rimane traccia in apertura del disco: “Ever since I’ve been here y’all have treated me like shit!”, grida l’artista; da lì in poi è tutto un rompersi di argini, in un live dalla forza espressiva inaudita.
Dawid caccia urla belluine; balbetta sillabe in scat fino a far perdere loro senso; geme di fronte a un pubblico che non è difficile immaginare esterrefatto; lo minaccia, lo abbraccia di nuovo. Sarebbe limitativo dire che l’ensemble l’accompagna a dovere: Deacon Otis Cooke (voce, synth), Cristian Espinoza (sax tenore, percussioni), Norman W. Long (elettronica, synth), Adam Zanolini (basso, flauto, sax, percussioni), Isaiah Collier (batteria) e Asher Gamedze (batteria) dialogano con la voce solista, si muovono all’unisono con un predicare collerico e dolente che di rado si è sentito dopo Nina Simone. In una setlist che include alcuni bellissimi brani dall’esordio “The Oracle” (International Anthem, 2018) e travolgenti corali gospel/blues, si toccano picchi emotivi che fanno perdere l’equilibrio.
“We Are Starzz”, qui, è il fulcro di tutto: il pezzo viene dilatato fino a sfiorare il quarto d’ora, in un groove disossato su cui le poche parole vengono riproposte dalle tre voci in infinite varianti. Dawid cerca una connessione reale con gli spettatori; quando la musica rallenta fino a farsi tenue soffio soul, la cantante li prende di petto sfacciatamente, in una straordinaria dimostrazione del potere curativo dell’arte. In questi istanti rabbrividenti è certo racchiuso il peso del black trauma nell’anno del Black Lives Matter e di George Floyd, ma in realtà vi si nasconde anche il motto di una delle voci del romanzo corale “Ragazza, donna, altro” (Sur, 2019) di Bernardine Evaristo: “Io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima”.
E non ci sono parole migliori di quelle sussurrate da Dawid per chiudere questo racconto di una città, Chicago, in cui la musica jazz è una conversazione continua, il solo strumento che renda possibile immaginare un progresso collettivo: “Hold onto this memory right now, seal it in your heart, we have an agreement now, this is called unity. It feels damn good don’t it?”.