Dopo "Catch My Shoes" (2010), a distanza di otto anni torna il leggendario combo anarco-punk olandese degli Ex. Anche stavolta lo fa sotto la guida del chitarrista e cantante Arnold De Boer, che nel 2009 si è unito alla band in seguito alla partenza dello storico frontman G.W. Sok. Formazione costantemente in mutazione e in movimento, sempre uguali eppure diversi, gli Ex con il nuovo album si confermano ancora una volta fedeli alla (loro) linea. Dal 2004 suonano senza un bassista nella line-up, sostituito dalla chitarra baritona del membro fondatore Andy Moor che, con la batterista Katherina Bornefeld, crea un pattern ritmico a dir poco impetuoso, teatro scenico perfetto per il cantato ironico e beffardo di De Boer.
Attiva dal lontano 1979, con l'avvicinamento al quarantesimo anniversario di attività la band dimostra di essere ancora famelica, rinnovando costantemente il proprio approccio stilistico. Fondamentale è stata la lezione imparata dalle recenti collaborazioni con artisti di ogni nazionalità, come quella con il sassofonista etiope Getatchew Mekuria o con il quartetto di fiati dei Brass Unbound, in cui figura anche l'italianissimo Roy Paci. Nel corso degli anni la band ha dunque sempre spalancato le finestre per far "arieggiare" il suo post-punk, aprendosi via via a diverse contaminazioni: dal malleabile punk dei Fall ai ritmi tribali africani, passando per le meccaniche ipnotiche del kraut-rock targato Can e le litanie ballabili di Captain Beefheart, senza disdegnare neanche qualche incursione nel free-jazz.
Come intuibile, il titolo dell'album, alcuni testi e le foto del book fotografico alludono al problema dei rifugiati e della globalizzazione, come è stato per le ultime opere di un altro collettivo imperterrito del XX secolo: quello dei Faust. In questo senso, l'opener "Soon All Cities" irride cinicamente la civiltà dei consumi con incandescenti chitarre che si mescolano a percussioni ossessive, annunciando fra distopiche visioni gli ingredienti dei nove brani a venire. Sono proprio le tre chitarre (la terza è quella di Terrie Hessels) a impostare il suono della band, un suono "trafficato" e composto da scontri e deragliamenti, ma sempre paradossalmente ballabile nelle sue perpetue dissonanze. Infatti anche nei pezzi più claustrofobici, come è il caso di "The Heart Conductor", "Silent Waste" o del maniacale noise-funk di "This Car Is My Guest", c'è sempre l'elemento umano dei ritmi tribali di Katherina Bornefeld a portare uno spiraglio di luce nel cuore della megalopoli alienata. La batterista si rende protagonista anche della trance in tempi dispari di "Footfall" e della tradizionale "Birth", cantata da lei stessa, mentre la veemente "Piecemeal" viene ancora una volta scossa dal caos babelico delle chitarre e dal cantato sardonico di De Boer in modalità spoken word. Se nel corso del disco i testi non risparmiano nessuno, raggiungendo uno degli apici nella feroce danza in cerchio di "New Blank Document", l'album si chiude con la denuncia al liberismo di "Four Billion Tulip Bulbs", narrazione di uno dei momenti più assurdi della storia olandese, quando la "febbre" dei tulipani scatenò una delle crisi economiche più gravi della nazione.
A voler essere pignoli e trovare per forza un difetto a "27 Passports", si può dire che questo sia proprio il portare all'estremo quello che è uno dei pregi principali dell'album: la sezione ritmica. Raramente la band abbandona un groove, innamorandosi di esso fino a estenderlo in code strumentali a volte forse ridondanti e compiacenti. Ciò non toglie tuttavia una briciola di entusiasmo al ritorno degli implacabili Ex.
17/04/2018