Sembra che la musica abbia un potere profetico, quantomeno un sesto senso visionario che squarcia il presente, affondando le mani nelle radici e disegnando una visione-mondo che trattiene tensioni e scenari futuri. Per non andare troppo lontano con la storia, possiamo ricordare quanto “Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven!” (Constellation, 2000) dei Godspeed You! Black Emperor catturasse quella fitta coltre da “tardo capitalismo” precedente ai fatti del 2001, o come la potenza incendiaria di “The Great Destroyer” (Sub Pop, 2005) dei Low restituisse drammaticamente il profilo nefasto e divisivo del leader del capitalismo “armato”, George W. Bush allora, Donald Trump oggi.
Così i musicisti hanno sentito la terra tremare sotto i piedi, hanno percepito e quindi decodificato con lo straordinario linguaggio sinestetico della musica quell’inquietudine globale difficile da codificare col linguaggio verbale. Abbiamo sentito tutto questo muoversi nel ventre del jazz ed estrinsecarsi, l’anno scorso, in dischi irrequieti e visionari (Moor Mother, Land of Kush e Fire! Orchestra) e nei richiami al senso di comunità che sarebbe andato altrimenti perduto (Angel Bat Dawid, Matana Roberts, Damon Locks & Black Monument Ensemble). Così arriviamo al 2020 e a una tripletta pazzesca di dischi uscita in questo primo trimestre dell’anno, che hanno, più che il sapore del presagio, quello di una profonda verità indagata da una coscienza umana che sa entrare in contatto anche con il naturale e il sovrannaturale: parliamo di “Infinity Of Now” di Heliocentrics, “Who Sent You?” di Irreversible Entanglements e, per l’appunto, di “We Are Sent Here By History”.
Partiamo da un punto fermo: “We Are Sent Here By History” è un disco bellissimo. È intenso, ispirato, pieno di godimento e turbamento. È un album che parla al corpo, conducendoti dentro una memoria collettiva condivisa, che sa andare oltre i rimandi a John Coltrane, Ornette Coleman o Fela Kuti per farsi forma-mondo/forma-popolo. Dallo spiritual-jazz di Sons of Kemet al rave-jazz di The Comet Is Coming, Shabaka stavolta si sublima in una sceneggiatura e in una regia a capo principalmente di un sestetto di musicisti – con Mthunzi Mvubu (sax alto), Siyabonga Mthembu (voci), Ariel Zamonsky (contrabbasso), Gontse Makhene (percussioni) e Tumi Mogorosi (batteria) – che attraverso la poesia di Mthembu invoca la sostanza della storia attraverso le lingue zulu, xhosa e inglese.
Instancabile, istrionico sassofonista della scena londinese, Shabaka ha pubblicato l’anno scorso due album con The Comet Is Coming, girato il mondo in tournée e scelto di registrare in Sudafrica questa seconda opera con gli Ancestors, a quattro anni dall’ottimo “Wisdom Of Elders” (Brownswood, 2016).
Shabaka e i suoi sodali creano brani che esplodono a raggiera in ogni direzione tra le musiche africane e caraibiche, tra il free jazz e la musica colta. Un disco che ha il sapore del passato e il gusto del presente. L’ensemble confeziona un album “mantrico”, pieno di ritmiche afro, di fraseggi polifonici figli del miglior jazz anni 70, di invocazioni al cielo in comunione con le sorelle e i fratelli di tutto il mondo: le vocalità rituali placate dalla forza, e dalla storia, dei tocchi di piano elettrico (“They Who Must Die”) si fanno caos molecolare di musica colta, ricondotto a ordinato, seppure obliquo, fraseggio con un piglio à-la Kris Davis (“You’ve Been Cold”), per ricondurci poi “a casa” nelle note espirate da Hutchings (“Go My Heart, Go to Heaven”), tra sussulti e sospiri cadenzati da un unico fiato collettivo (“Beasts Too Spoke Of Suffering”, “We Will Work - On Redefining Manhood”), che si fa danza sui funambolici fraseggi del clarinetto e del sax (“Run, The Darkness Will Pass”).
Le visioni di Shabaka sono lineari, cercano nel caos l’armonia, vengono dal profondo ma sono anche contemplative, come in “Til The Freedom Comes Home”. Il suo approccio costruttivo e comunitario diventa speranza nel momento in cui una comunità di musicisti può farsi sineddoche di una possibilità per un mondo rinnovato. La musica ce lo dice da diverso tempo che questa è la strada: che guardare negli occhi la storia è la strada.
Chiude l’album la meraviglia di “Teach Me How To Be Vulnerable”, col sax di Shabaka in primo piano e le morbide note di pianoforte dal tocco Evans-iano suonate da Thandi Ntuli sullo sfondo dell’inquadratura, intrecciando fraseggi che mettono a nudo e si fanno forza di tutta la fragilità che attraversa il mondo e le sue creature. Basta solo il titolo a farci riflettere.
Non resta molto altro da dire, se non premere nuovamente play, ripartire da capo e tornare lentamente a respirare.
01/04/2020