Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila, mentre gli uomini della Guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhi sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto il capo, come se dormissero. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dei vestiti. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso. Sono tutti neri, tutti giovani.
(Alessandro Leogrande, La Frontiera)
Atterrata a Ravenna a inizio febbraio per una serata con
Francesca Morello e Laura Agnusdei,
Camae Ayewa si è manifestata sul palco del Bronson con la potenza di una rivelazione. Pur in un set breve e frammentario, la sensazione era quella di assistere a un momento centrale nella vita musicale di questi anni: un caos primordiale di sciamanica elettricità ammannito da una voce portentosa, capace di mettere insieme poesia, rap, drone, noise, gospel e blues per rivoltare la terra e riportare alla luce secoli di oppressione del popolo nero.
Nessuna barriera tra artista e spettatori; nessun istante in cui quella in corso si sarebbe potuta definire un’esibizione, una rappresentazione: in un’epoca che ha azzerato completamente il concetto di tempo, l’arte di Moor Mother si abbatte sulle nostre case tranquille per svegliarci dal torpore indotto da innocui
reboot,
remake e
reimagining e chiederci di vivere qui e ora, per quanto orrorifico possa essere il presente.
Di fronte a tanta forza comunicativa è stato poi automatico passare le settimane successive in fremente attesa per il ritorno di Ayewa con il collettivo Irreversible Entanglements. Lei stessa, nelle poche parole scambiate prima del concerto, sembrava non vedere l’ora di condividere con il mondo la nuova musica del suo progetto, dicendosi sorpresa nel vedere quanto liriche scritte anche dieci anni fa si fossero adattate così bene al nostro tempo malato.
Del resto è proprio questa la materia di cui sono fatti i classici: la capacità di trascendere il momento e il contingente per dire qualcosa di universale.
Già l’esordio omonimo del 2017 non faceva prigionieri: quattro tracce registrate un paio d’anni prima e in presa diretta in un’unica
session di sei ore, quell’album è ancora oggi un’esperienza frastornante, furia cieca di piatti e tamburi percossi e fiati ululanti su cui svetta il ruggito imperioso della poetessa/MC.
Immaginatevi
Zack De La Rocha al microfono in un’improvvisazione jazz registrata durante scontri di piazza mentre tutt’intorno volano lacrimogeni, e non sarete lontani dal cogliere l’atmosfera di “Irreversible Entanglements”.
Liberation-oriented free jazz, l’hanno chiamato, e mai definizione è sembrata più adeguata per la musica cingolata e - appunto - liberatoria di un
ensemble nato per caso, in occasione di un “Musicians Against Police Brutality” organizzato dopo l’assassinio di
Akai Gurley a New York. Un’ombra lunga e inevitabile, tradotta nell’urlo mostruoso di “Enough” e nelle sanguinose premonizioni di “Projects” (“Moses has been lynched/ and the choir refuses to sing/ they just gyrating and moaning/ talking about something like the Ethiopian Sea is red/ must be all them dead bodies”).
A fine 2019 è toccato a “Homeless/Global” interrompere uno iato che ormai durava da due anni, un inedito di ventitré minuti e prima cosa suonata dal quintetto al rientro in studio. Dal suono più ricco e pastoso rispetto all’esordio, il brano costruisce nel primo terzo una pazzesca tensione narrativa grazie al frenetico
double-time swing della batteria di Tcheser Holmes e al ruminare del contrabbasso di Luke Stewart, su cui la tromba di Aquiles Navarro e il sassofono di Keir Neuringer vanno ad accendere fuochi di guerriglia, prima di lasciar spazio al solenne declamato di Ayewa, ombroso laddove invece in passato sarebbe stato pura esplosione. E poi il ritmo prende di nuovo a vorticare tra i poderosi latrati dei fiati, mentre la
vocalist sembra ricreare l’esatto spettro emotivo di chiunque stia scappando da luoghi in cui l’inferno è l’unico orizzonte (“freedom down the road/ if we could just make it through the checkpoint/ if we could just make it through the border/ if we could just make it across the sea with our babies on our hips”).
C’era di che sgranare occhi e spalancare orecchie, eppure incredibilmente anche il primo, vero assaggio del nuovo album in arrivo ha saputo mantenere le promesse.
In “No Más” il quartetto degli strumentisti macina un tema funk-jazz appena un poco meno incendiario di quelli ascoltati nel primo disco, mentre Ayewa interviene qui e là a predicare solenne e piana di una liberazione prossima ventura, che si direbbe inevitabile a sentirla raccontare così.
Il
videoclip del singolo – uomini e donne di colore in tuta spaziale che camminano per le strade di Johannesburg, Sudafrica – sembra suggerire però che questa potrà avvenire solo con una fuga dalla Terra, proiettando tutto in un’ottica
sci-fi e afro-futurista. Una visione totalmente
Sun Ra, solo applicata al “post-Katrina, post-
Osage Avenue, post-Obamacare”.
Ma nonostante tanto concetto, la musica degli Irreversible Entanglements rimane spaventosamente fisica e diretta lungo tutti i tre quarti d’ora di “Who Sent You?”, uscito finalmente proprio in questi giorni per International Anthem e Don Giovanni Records. Soprattutto, non spreca un secondo e ci immerge subito nel mezzo degli eventi con il colpo di cassa che apre “The Code Noir/Amina”, sezione ritmica tachicardica che fa da contraltare al planare delle note dilatatissime di sax e tromba. Una composizione che dà sempre l’idea di essere lì lì per collassare e invece si mostra solidissimo trampolino per un testo che invita a stare nel presente, a prendere coscienza e indignarsi per lo stato dell’America, a opporsi (“At what point do we stand up? At the breaking point? At the point of no return?”).
La
title track, punto focale dell’opera, arriva come un attacco di panico che focalizza la propria attenzione sull’ansia generata dalla società del controllo: quando si supera la soglia del sesto minuto, è come se l’iperventilazione facesse perdere i sensi all’intero collettivo, avvolgendo ogni suono di una nebbia stordita.
Tocca ai fiati tenere la barra dritta con
riff circolari, convincendo poco alla volta anche la ritmica ad acquistare nuovo vigore. Quando tutto si ferma una volta di più, rimangono un commovente solo di sax e le percussioni, ed è lì che la voce si riprende la ribalta: non è rimasto altro al mondo, in uno scenario da Matheson in cui Ayewa pare raccontare la storia antica di una libertà perduta con il tono di un monito (“because freedom for a while tasted so good”).
Sull’altro lato del vinile, “Blues Ideology” appassiona con un
afro-beat che aumenta i giri fino al punto di rottura in cui tutto si accartoccia per l’ennesima volta su se stesso, nel
rant più politicamente esplicito in scaletta. È il Papa in persona a caracollare ubriaco per le strade urlando l’Ave Maria e creando Dio a propria immagine e somiglianza; il verso “up in the Vatican getting drunk with the devil, getting drunk with power”, in particolare, risuona come una versione al vetriolo della poetica disperazione di
Kate Tempest (“and our leaders aren’t even pretending not to be demons”, intonava malinconica quell’altra grande scrittrice giusto l’anno passato).
“Bread Out Of Stone” è il brano più breve e pure il più scarno: la base è una fascinosissima ipnosi di basso e
cowbell, con l’aggiunta di una batteria pittorica che dà l’idea di perdere pezzi lungo la strada (oppure di persone che si aggirino intorno ad essa, decidendo di volta in volta quale pezzo del
drum kit colpire); il recitato, per una volta, sembra voler concedere una speranza all’ascoltatore attraverso una serie di parole chiave di consapevolezza di sé e della propria storia, sussurrate come in una formula magica.
È un disco grandissimo, “Who Sent You?”, esattamente quello che ci si sarebbe aspettati da una band di peso come gli Irreversible Entanglements. Musica infiammabile e sperimentale, che risulta in qualche modo pure piacevole all’ascolto e si qualifica come materiale contemporaneo eppure non di questo tempo: come nelle culture premoderne, in queste tracce non esiste il concetto di intrattenimento ma solo storie raccontate con lo scopo di condividere, testimoniare, ricordare.
Se la rabbia è un dono, Camae Ayewa e i suoi dimostrano di aver trovato il modo di farne uno strumento di progresso collettivo.
25/03/2020