Kae Tempest

Kae Tempest

Rap e poesia

La brillante carriera di Kae Esther Calvert, dagli esordi nella periferia Sud di Londra ai teatri di mezza Europa, per un percorso artistico in cui la mitologia greca incontra rap e spoken word, attraverso un racconto sanguigno e al contempo idilliaco dei paradossi della contemporaneità

di Giuliano Delli Paoli

Da Brockley a Lemno

O stranieri! Chi siete voi? Per quale sorte a questa terra approdaste, inospitale, e priva di porti? E di che patria e di che stirpe dirvi dovrei, per giusto appormi?
(da "Filottete", Sofocle)

L'entrata in scena di un guerriero zoppo, che sta per essere abbandonato, apre e chiude l'universo di Kae Esther Calvert, in arte Kae Tempest. Ne esplica il senso, la perdizione, gli urti, le nebulose a perdita d'occhio. Si parte da Sofocle per arrivare alla mente. Dal sole della Grecia del V secolo A.C. all'umidiccio di Brockley. E dalle bugie degli achei ai disastri contemporanei della vecchia Europa. Perché slegare la poetica di Kae Tempest dalla sua musica è impresa sciocca, prima che titanica. Il viaggio dell* rapper e poetess* inglese è omerico. Eppure maledettamente postmoderno. Le sue fermate, che siano contenute in un libro o in un disco, determinano geografie che collegano, in un modo o nell'altro, la tragedia greca ai paradossi del presente. Ascesi e schianto. Cielo e terra. Nuvole e sassi. Dei e operai. Luce e petrolio. È una prova di corpo libero con la lingua al posto della gambe, applicata seguendo, quantomeno "osservando", gli insegnamenti di Gil Scott-Heron.
Un tracciato inaugurato ufficialmente nel 2014, che passa attraverso le nomination al Mercury Prize e l* conduce nel 2021 al Leone d'argento della Biennale di Venezia per il teatro, con una motivazione accademica che lascia poco spazio a ulteriori interpretazioni: "Per l'audacia luminosa nel posizionare deflagranti inneschi riflessivi e per voler ancora sperimentare in un genere definito di nicchia, come la poesia, mescolando l'aulico con il basso, la rabbia con la dolcezza degli affetti - tra versi e rime taglienti di shakespeariana memoria e dal forte contenuto sociale, miti classici e ibridazioni hip-hop - arrivando a parlare col cuore a un pubblico sempre più vasto, entrandoti fin dentro le ossa, costringendoti a specchiarti nella tua dolorosa intimità". Nel mezzo una candidatura ai Brit Awards 2018 e riconoscimenti intitolati a Ted Hughes e T. S. Eliot. E anche una dichiarazione netta sull'identità sessuale, svelata con un post su Instagram: "Ho provato a essere ciò che gli altri volevano che io fossi, per paura del rifiuto, ma nascondermi da me stessa non mi ha portato che difficoltà. E questo è il primo passo per conoscermi e rispettarmi di più. Parlarne pubblicamente è stato enorme, bello ma molto difficile. È difficile dire alle persone che si amano 'Hey, guardate, sono trans o non binary'.

Ma torniamo a Filottete. Al suo vacillare. Al morso e alla ferita. Kae, oltre a rielaborare la celebre tragedia di Sofocle nella sua versione, debuttando al National Theatre di Londra nell'estate 2021, si eleva dall'abitudinario con una variante meta-sessuale di Tiresia, ondeggiante di vita e linfa, nell'opera "Hold Your Own", tradotta magistralmente da Riccardo Duranti. Ecco alcuni versi per quantificarne la cifra: "Quando il tempo divide le vite/ Resta te stessa/ Quando ogni cosa è fluida e quando nulla può essere noto con certezza/ Resta te stessa/ Resta te stessa/ fin quando non ti senti/così scura e densa e umida come la terra/ così vasta, e luminosa, e dolce come l'aria". Per cogliere poi la deflagrazione di un animo sottile, la cui fluidodinamica interiore esula da leggi fisiche, da sistemi di tubature mono-connessi, occorre tornare all'origine, ai primi passi, alle movenze da persona sbandata, avvelenata appunto come Filottete dal serpente. Che nel suo caso è la chioma di Medusa. Dunque ben più di uno. Rettili che strisciano supremi nel caos dell'esistenza. È una metafora di vita che nella fase centrale della sua carriera muterà in pietanza da servire a una società ormai irrecuperabile.

katetempest_220Con in tasca una laurea in letteratura inglese al Goldsmiths College e un moniker che parla da solo "stampato" sulla faccia, Kae comincia a esibirsi nei vari localini sparsi nei dintorni del suo quartiere. E in futuro come supporter per John Cooper Clarke, Billy Bragg e Benjamin Zephaniah o con la sua band Sound of Rum, con cui tirerà fuori un unico disco presto dimenticato: "Sound Of Rum".
Capelli rossi e il sorriso da etern* bambin* cozzano con una capacità per certi versi innata, mai acerba, di mandare giù rime che scuotono, incendiano tutto ciò che gli si para dinanzi. È un ibrido conciso, parimenti articolato, spesse volte enfatico, e altrove sfuggente di storie quotidiane, sogni infranti, e famiglie multietniche travestite talvolta da mostruose figure dell'amata mitologia greca, che ricorre a più riprese. Come accade nell'eccellente spoken-opera "Brand New Ancients", a cui segue l'ambito premio Ted Hughes per l'innovazione nelle poesia contemporanea. O nella sopracitata "Hold Your Own", in cui il personaggio di Tiresia, trasformato per punizione da Hera in una donna per sette anni, scandisce l'intero percorso emotivo. Racconti che entrano a gamba tesa nella quotidianità odierna mediante una retorica conturbante, attraverso la quale vengono lanciati stralci di assoluta verità. Poemi schiaccianti da sputare in faccia alla società civile obnubilata dai media e dai social, sempre più impegnata a soddisfare un capitalismo insaziabile, dunque sempre più distante dall'essenza della vita stessa, dai suoi significati e dai suoi significanti, per dirla con Bene.

Caos a colazione

Ma Kae è anche un'attent* e affamat* musicista. Un* Mc dai tratti un po' bizzarri, di certo distanti dai classici modelli di riferimento, dalla old school o chicchessia lungo la west o la east coast, tanto farebbe lo stesso. Perchè il suo è uno stile unico. E la sua "metrica" è a piede libero, in quanto risente fortemente dell'esperienza teatrale. Il flusso delle parole non è mai retto, e acquisisce toni e vibrazioni a seconda dei varianti umori sparsi nei capitoletti delle vicende da raccontare. Ne scaturisce una musicalità vocale particolare, perfettamente distinguibile dal resto della massa. Caratteristica che lascia il segno grazie anche a uno spettro linguistico ampio, dal contenuto notevole. I versi penetrano a fondo. Mai un riempitivo. Mai una rima a casaccio. Tutto scorre seguendo l'istinto e la voce del proprio animo.
Kae narra di ultimi atti a dare un senso alla propria condizione. Personaggi posti al di là del muro, caratteri scomodi che non riescono a inserirsi appieno nel vortice della vita, incapaci di accettarne gli obblighi e le conseguenti rinunce. Da contraltare, la musica è un groviglio elettronico ben impostato, rapace e denso di soluzioni avvincenti. È la summa del magistrale debutto, Everybody Down, caratterizzato dal prezioso apporto dell'amico Dan Carey, produttore e co-autore del disco, presenza costante nella carriera di Kae. L'inizio dell'album è quantomeno esplosivo e fin dalle prime strofe emerge quello che sarà l'andazzo pregnante: "Everywhere is monsters/ Tits out, wet-mouthed, heads back/ Shouting and screaming just to prove they exist". In realtà, siamo dinanzi a un vero e proprio concept. Ogni traccia è legata all'altra da una storia. Da un'emozione di fondo tracciante un quadro d'insieme ben dettagliato. Mentre il ritmo scorre veloce, tra una tastiera ora tremante e distorta ("Marshall Law"), ora oscura e impercettibile ("Chicken"), disposta per definire le inquietudini di Harry, Pete, Miariam, Becky, tutti protagonisti di un pranzo in famiglia in cui ognuno ha qualcosa da raccontare, una debolezza interiore da palesare attraverso una smagliante e piccante allegoria.
La malinconica "Lonely Daze" con il suo broken-beat cinematografico, delicato e solo in parte abbozzato, con tanto di sample da "You Don't Love Me (No, No, No)" di Dawn Penn, delinea la riflessione posta nel ritornello centrale, scaturita dall'oscuro stato d'animo di Pete e Becky: "But will it be this way forever/ These are lonely days/ What if she could be the one that makes it better?/ He looks away, can't hold her gaze/ But will it be this way forever?/ These are stressful times/ What if he could be the one that gets her?/ She looks away, she's petrified".
"The Beigeness" e "Circles" sono invece i brani più spediti e accattivanti del lotto. Entrambi costruiti su uno strato percussivo a tratti rimandante certe soluzioni proprie della Dfa di un tempo (soprattutto la seconda), petulanti e ritmicamente circolari quanto basta per conficcarsi in testa e non uscire più. Mentre le parole continuano a scendere giù come saette dal cielo ("I go round in circles/ Not graceful, not like dancers/ Not neatly, not like compass and pencil/ More like a dog on a lead, going mental") in una presa di coscienza che non contempla altre disillusioni.
Le più sopite "A Hammer" e "The Truth" mostrano il lato più tranquillo di Kae, pur mantenendo alta la qualità della denuncia nel solito susseguirsi di episodi disdicevoli ma utili a interpretare l'inevitabilità della condizione umana. La musica segue andature addirittura meno nevrotiche, più compatte, eppure non per questo meno incalzanti. Everybody Down è in fondo un disco rap slegato dalle convenzioni e dai comodi giochini produttivi. Un'opera a sé stante, un racconto ritmato capace di ipnotizzare tanto la mente quanto la pelle. È l'album che sancisce l'avvento di un talento fluido, genuino, incazzato come una iena. Nel campionario dei sogni di di Kae, è Saffo a guidare la DeLorean.

kaetempest220Trascorrono due anni prima di Let Them Eat Chaos. Un biennio vissuto da Kae tra performance teatrali esplosive, interviste fiume e letture d'ogni sorta. I suoi concerti sono immersioni nell'io più autentico. Tanto purificatori quanto dei sudari dell'inconscio collettivo. Anni che però segnano anche lo sguardo fino a quel momento ancora vagamente disincantato di Kae. Tra guerre, attentati, flussi migratori, muri, e chi ne ha più ne metta, l'universo mondo sembra aver preso una piega preoccupante. È una catena di eventi sconvolgenti che disarma e di conseguenza indirizza Kae Tempest verso una presa di posizione estrema nei confronti delle politiche europee.
Messa quindi da parte una visione geograficamente più ristretta, Kae inizia a osservare l'esterno con la veemenza e il malessere di chi ne ha viste fin troppe. Let Them Eat Chaos pone così in evidenza la negazione ai mali della globalizzazione nella sua accezione più scellerata. Il titolo e la copertina dell'album sottolineano il cuore afflitto e la collera dell* trentunenne Kae Tempest. A dominare la scena è una rabbia che non prevede salvezze, tantomeno ricette. Non c'è luce all'orizzonte. Largo a devastazione e follia, disprezzo e scetticismo.
Kae amplia ulteriormente il raggio d'azione. Se da un lato, la penna è ancora rivolta verso personaggi della vita comune - legati da un senso di perdizione, metaforizzato attraverso un'insonnia perenne - dall'altro lato è questa stessa vita vissuta dentro un contesto globale ad alimentare la rivolta. Una contestazione resa esplicita fin dalle prime battute di "Picture A Vacuum": "The people, the life, their faces are bright/ In your body, you're feeling/ You want to be close to them, closer/ 'Cause these are your species, your kindred/ Where have you landed?/ Uncurl yourself, stand up, and look at your limbs/ All intact, clothed in the fashion/ This is a city, let's call her London/ And these are the only times you have known/ "Is this what it's come to?" You think/ "What am I to make of all this?".
La musica, ancora una volta curata dall'amico produttore Dan Carey (Emiliana Torrini, Miles Kane, TOY, Bat For Lashes) segue gli andazzi ritmici palesati in Everybody Down, tra battute più pacate in scia Red Snapper (!) ("Lionmouth Door Knocker"), potenti assalti frontali ("Europe Is Lost"), tempi squisitamente hip-hop con la tastiera a fungere da metronomo in un crescendo appena abbozzato ("We Die"), sfarfallii al laptop da apripista a un'andatura cocciuta e al tempo stesso esilarante ("Whoops", "Don't Fall In") e piccole cascate di synth da contraltare a improvvise ripartenze ("Perfect Coffee"). E anche quando il racconto si fa più morbido e cadenzato, le soluzioni adoperate da Carey risultano comunque azzeccatissime, come il beat vaporoso della struggente "Pictures On A Screen". Le parole approdano a riva spesso senza seguire alcuna metrica o fisica.
Sono esternazioni che non risparmiano niente e nessuno. Che abbondano di paradossi quotidiani ("Desperate for a body who could save me/ But I never really wondered what they gave me/ Always wanted something else/ Sweating in the dole queue/ Spittin' like a villain in the pantomime old shoes", da "Ketamine For Breakfast") e rielaborano acute riflessioni politiche, narrate per l'occasione da uno dei vari personaggi creati da Kae; come nel caso di Esther, un'infermiera e operatrice sociale che si scaglia contro tutti quelli che hanno deciso di soprassedere dinanzi al dramma dei rifugiati e degli immigrati ("Europe is lost, America lost, London lost/ Still we are clamouring victory/ All that is meaningless rules/ We have learned nothing from history/ The people are dead in their lifetimes/ Dazed in the shine of the streets/ But look how the traffic's still moving/ System’s too slick to stop working/ Business is good, and there's bands every night in the pubs/ And there's two for one drinks in the clubs", da "Europe Is Lost").

Ciò che cattura l'attenzione, oltre al peso specifico delle parole, è l'assenza di elementi pressapochisti, spocchiosi, populisti, al netto della vastità dei temi affrontati. Un pericolo smorzato del tutto grazie all'utilizzo di una poesia tagliente, schietta, efficace. Nelle tredici tracce di Let Them Eat Chaos, la lingua infuocata e il battito caldo continuano dunque a sorprendere.

Mēden agān

Dopo due prove così intense, sarebbe lecito attendersi una battuta d'arresto. In The Book Of Traps And Lessons, Kae Tempest addomestica infatti parte della sceneggiatura, tuttavia senza rinunciare alla propria missione in opposition. Le lezioni e le trappole narrate stavolta sono il pretesto per esprimere dissenso nei riguardi di un mondo al collasso e di un modello liberale in caduta libera, in particolare nell'amata Inghilterra. La presa di coscienza inizia da un monito ben preciso, posto a monte di un album la cui cabina di regia vede all'opera la premiata coppia composta dall'onnipresente Dan Carey e niente di meno che l'esegeta degli esegeti Rick Rubin: "I came to under a red moon/ Thirsty for water/ My eyes were like shovels in the soil of the sky". È dunque una dichiarazione d'intenti netta, a inaugurare 11 tracce divise tra "lezioni" e "trappole". Una breve introduzione, con piano appena abbozzato e synth da tappeto, che serve "solo" a condurre l'ascoltatore verso la propria postazione.
La successiva "Keep Moving Don't Move" espone a chiare lettere l'andatura rallentata del primo lato del piatto, con base vagamente terzomondista, tra sample di sitar e battiti lontanamente afro, per una formula che riporta a galla la classica impalcatura trip-hop alla Tricky, mentre i versi strizzano l'occhio al disagio interiore (ci risiamo) con annesso disappunto, e tanto di incitazione ad alzare la testa e muovere le fatidiche chiappe, nel segno di una malinconia a suo "dire" costruttiva, tutt'altro che "seduta". La narrazione è per l'ennesima volta stimolante, manca però il quid totalizzante, il gancio nel refrain o nel flow. E l'impressione di trovarsi al cospetto di un polpettone moralista comincia a farsi spazio. L'umore grigio come la Luna sovrasta anche "Brown Eyed Man". Kae sembra essersi (auto)declassat* da "tornado" a brezza autunnale. Tra una constatazione e l'altra, gli archi e la mestizia ripiombano in "Three Sided Coin". Mentre i versi, sospesi tra disgusto e orgoglio, etica e carme, fanno il resto:
Now the three sided coin buys the bow legged calf
And we've been sucking out the milk
From its mother's teat incessantly
So come on, pump us full of nothingness
And hear us sing the melody

Kae presta il fianco alla poesia, talvolta a discapito della musica. Nei passi di The Book Of Traps And Lessons manca qualcosa. Resta pertanto un disco con cui avvinghiarsi al refrain (av)vincente fin da subito, e bisogna faticare molto per addentrarsi al suo interno, cogliere i segni nascosti, i pizzini, le vibrazioni.
In "A Human Too Late" emerge, ad esempio, solo la voce, narrante il consueto rancore diffuso contro il razzismo mai debellato e più vivo che mai, quasi alla stregua di un* alunn* formidabile in lettere, che un po' a sorpresa muta il compito in classe con impeto poetico: "The racist is drunk on the train/ The racist is drunk on the internet/ The racist is drunk at my dinner table/ Shouting his gun shots and killing us all/ They still live/ Those kind and their dead are still living/ And yes, the anger is rising, the fury/ The which side are you on?/ The when will the guilty be called to account?/ And what can we know of affection?".
Nonostante la deriva "minimalista", in parte opinabile, chi ha amato e apprezzato fin dalla primissima ora Kae Tempest nella sua duplice veste di "animale da palcoscenico" e angelo caduto dal cielo troverà in alcune zone qualche guizzo mancante.
"Hold You Own" è forse l'unica occasione per inquadrare per bene tutta la faccenda. E mentre due note si alternano tra loro, dando vita a una morbida melodia, le parole inducono al "pianto" e a "liberissime" interpretazioni: "We work for vocations until, in remission/ We wish we'd had patience and given more time to our children/ Feel each decision that you make/ Make it, hold it/ Hold your own/ Hold your lovers/ Hold their hands/ Hold their breasts in your hands like your hands were their bra/ Hold their face in your palms like a prayer/ Hold them all night, feel them hold back/ Don't hold back/ Hold your own/ Every pain/ Every grievance/ Every stab of shame/ Every day spent with a demon in your brain giving chase/ Hold it".
A risollevare gli animi ci pensa "Firesmoke", dedicata alla propria amata, come afferma Kae nel lancio del disco: "Penso a questa canzone come a un momento purificatore nel contesto più ampio dell'album, allo stesso modo in cui una relazione può essere un momento purificatore nel più ampio contesto che è la vita. Una sorta di svolta decisiva. L'ho scritto per la mia donna. Mi ha ispirata lei e tutto ciò che ho imparato innamorandomi di lei". "Holy Exir" pone poi le basi per un ritorno di fiamma del formato canzone in salsa noise-rap: il piano contrapposto al battito elettronico amplifica infatti il nocciolo di una critica spietata verso la globalizzazione. Un movimento che illumina, prima che la "ballad" - definizione, quest'ultima, da prendere con le pinze - "People's Face" rincari la nuova dose con un piano angelico, quasi a dare un senso di speranza al futuro. È una chiosa dolce, nonché la netta dimostrazione della duplice anima di The Book Of Traps And Lessons, che tre anni dopo muta in ricordo lontanissimo.

kaetempes220_2_01Kae, riappars* per dichiararsi persona non binaria, prima di pubblicare il suo primo lavoro di non-fiction con Faber, dal titolo "On Connection", opera composta da tanti piccoli saggi che scavano nelle interconnessioni tra esseri umani attraverso mezzi creativi, in particolare la poesia, l'improvvisazione e la sperimentazione, (ri)emerge del tutto nel 2022 con The Line Is A Curve. È il quarto album dell'artista di Lewisham, ed è prodotto, guarda un po', ancora dal fidatissimo Dan Carey; segue inoltre l'acclamata operetta "Paradise" che ha da poco debuttato al National Theatre di Londra.
Kae stavolta scopre il mazzo puntando sulla comunicazione. Sull'emancipazione emotiva. Sulla collaborazione. Ne è prova la presenza di alcuni ospiti coinvolti nel disco: Kevin Abstract, Grian Chatten dei Fontaines D.C., Lianne La Havas, ássia, Confucius MC, ai quali si aggiungono tre linee vocali registrate in un solo giorno di tre diverse generazioni di persone, come racconta Kae stess*: "Un uomo di 78 anni che non ho mai conosciuto, una donna di 29, la poetessa Bridget Minamore, che è una mia cara amica, e poi tre giovani fan di 12, 15 e 16 anni che hanno risposto a un post sui social". Ed è proprio un'invettiva sui social ad aprire il sipario. "Priority Boredom" attacca con una tastiera da pellicola sci-fi musicata da un set di Kavinsky. Mentre le parole inondano rabbia verso una società assoggettata, mai come prima nella storia dell'uomo, da meta-implicazioni sui sensi primari. Tendenza che comporta la banalizzazione dei legami.
In "I Saw Light", in duetto con Grain Chatten dei Fontaines D.C., l'angoscia resta in penombra; trapela la ricerca, appunto, di una luce che stenta a mostrarsi. Kae lamenta scarsa concentrazione nella "lussuria del palcoscenico", incontri mancati, ricordi svaniti. E trova la complicità di Chatten, da ponte a una poetica che scandisce il passo di un'anima in panne, desiderosa di accendersi, tra "porte sbattute" e "mani smembrate". La tragedia di Sofocle è interiorizzata. Il dolore opera nel silenzio. Kae rappa alla stregua dei fasti di Everybody Down in "Nothing To Prove", tra i momenti più hip-hop del lotto. "Hardcore. Last straw. Postcode. Passport. Class war. Stop suffering. Dance more".
C'è voglia di farla finita. Di riposare. Di mettere l'animo in pace. La base in appoggio è ancora una volta minimal, inclinazione che sarà un po' la cifra di tutto il percorso. Insomma, less is more. Nel caso specifico mēden agān, parafrasando Chilone di Sparta, Talete di Mileto, Pitagora e Solone d'Atene in uno dei precetti iscritti all'entrata del tempio di Apollo a Delfi. Su tutte la ballata "No Prizes" con Lianne La Havas. La cantautrice inglese porta con sé quel tocco neo-soul nel refrain che si contrappone a puntino con la narrazione sanguigna di Kae. È l'instant classic del suo repertorio. Vicoli ciechi, blocchi e orologi fermi. No prize. Nessun applauso. Nulla. Solo la certezza di non aver sbagliato per aver partorito un bambino anzitempo. Kae "canta" di insabbiamenti. Di soldati in Iran dimenticati da Dio e dal mondo. Servitori intervistati e mai compresi. E di scalate impossibili.
L'essenzialità di cui sopra si fa rock in "These Are The Days", addirittura quasi a rievocare i Pink Floyd (!). È il manifesto della conciliazione, il brano con cui Kae mette a nudo tutte le paure. O quasi. La liberazione definitiva al centro del piatto. "Water In The Rain" aggiunge invece quel pizzico di serenità, con l'invocazione orientaleggiante di ãssia da tappeto. Spuntano traumi del passato da cancellare e nuovi carichi di lavoro, prima che "Move" ribalti la prospettiva in una danza sintetica utile a schiacciare "zecche ossessive" o ripudiare sterline che sguazzano nel mondo, viscide come demoni in festa. L'altrettanto danzereccia "More Pressure", stavolta al fianco di Kevin Abstract, accelera inavvertitamente il passo.
È l'uno-due che non t'aspetti in un album ritmicamente trattenuto, che si chiude a sorpresa con la chitarra acustica di "Grace". Kae ritrova grazia "proprio lì dov'è tutto trascendente". Canta di lune rosse sotto cui rifugiarsi. Di fermare il tempo e fare silenzio. E alla fine non chiede nient'altro che amore. Le parole importanti, per dirla con Nanni Moretti, che Kae usa per definire i significati nascosti a monte dell'opera come "vergogna", "ansia", "isolamento" e "caduta nella resa" esprimono in fondo al tunnel l'ultima confessione di un diario di bordo sincero, travolgente, che si rivela senza orpelli, senza fare sceneggiate.

Kae Tempest

Discografia

Everybody Down(Big Dada, 2014)

Let Them Eat Chaos (Lex, 2016)

The Book Of Traps And Lessons(Caroline International, 2019)

The Line Is Curve(Fiction, 2022)

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Circles
(da Everybody Down, 2014)

The Beigeness
(da Everybody Down, 2014)

Europe Is Lost
(da Let Them Eat Chaos, 2017)

No Prizes
(da The Line Is A Curve, 2022)

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