Kate Esther Calvert, aka Kate Tempest, è una poetessa e rapper londinese. Cresciuta a sud della capitale inglese, più precisamente nell’area di Brockley, comincia a esibirsi già da adolescente nei vari localini sparsi nei dintorni del suo quartiere. Fin da subito, questa tenera ragazza dai capelli rossi e il sorriso da eterna bambina mostra una capacità per certi versi innata nel mandare giù rime che stendono letteralmente la platea. Un mix conciso e ben articolato di provocanti storie quotidiane, sogni infranti, e famiglie multietniche travestite magari da mostruose figure della mitologia greca, come accade nella sua eccellente spoken-opera “Brand New Ancients”, che le vale l’ambito premio Ted Hughes per l’innovazione nelle poesia contemporanea, o nell’altrettanto apprezzata “Hold Your Own”, in cui è il personaggio di Tiresia, trasformata da Hera in una donna per sette anni in seguito a una dura punizione, a scandire l'intero percorso emotivo. Racconti che entrano a gamba tesa nella quotidianità odierna mediante una metafora puntualmente avvincente e conturbante, e attraverso cui vengono lanciati stralci di assoluta verità alle persone comuni, sempre più impegnate a soddisfare una società insaziabile, e dunque sempre più distanti dall’effettiva realtà delle cose e della vita stessa.
Ma Kate non è solo un’ispirata autrice. E’ anche un’attenta e affamata musicista. Una Mc dai tratti un po’ bizzarri, tremendamente unici, certamente distanti dai classici modelli di riferimento. Il suo è uno stile del tutto personale, che risente fortemente dell’esperienza teatrale. Il flusso delle parole non è mai retto, ed acquisisce toni e vibrazioni a seconda dei varianti umori sparsi nei meandri delle singole vicende da raccontare. Ne scaturisce così una musicalità vocale particolare, perfettamente distinguibile dal resto della massa. Caratteristica che lascia il segno grazie anche ad uno spettro linguistico ampio e dal notevole contenuto. I suoi versi penetrano a fondo. Mai un riempitivo. Mai una rima a casaccio. Tutto scorre seguendo l’istinto e la voce del proprio animo. Kate narra di persone comuni atte a dare un senso alla propria condizione. Personaggi spesso posti al di là del muro, caratteri scomodi che non riescono a inserirsi appieno nel vortice della vita, incapaci di accettarne i dovuti obblighi e le conseguenti rinunce. Da contraltare, la musica è un groviglio elettronico ben impostato, rapace e denso di soluzioni avvincenti. A darle man forte, è il prezioso apporto dell’amico Dan Carey, produttore e co-autore del disco.
L’inizio dell’album è quantomeno esplosivo e basterebbero le prime strofe per intendere al meglio quello che sarà l’andazzo pregnante: “Everywhere is monsters/ Tits out, wet-mouthed, heads back/ Shouting and screaming just to prove they exist”. In realtà, siamo dinanzi a un vero e proprio concept. Ogni traccia è legata all’altra da una storia. Da un’emozione di fondo tracciante un quadro d’insieme ben dettagliato. Mentre il ritmo scorre veloce, tra una tastiera ora tremante e distorta (“Marshall Law”), ora oscura e impercettibile (“Chicken”), atta magari a definire le inquietudini di Harry, Pete, Miariam, Becky, tutti protagonisti di un pranzo in famiglia in cui ognuno ha qualcosa da raccontare, una qualche profonda debolezza interiore da palesare attraverso una smagliante e piccante allegoria.
La malinconica “Lonely Daze” con il suo broken-beat cinematografico, delicato e solo appena abbozzato, con tanto di sample da "You Don't Love Me (No, No, No)" di Dawn Penn, delinea a meraviglia la riflessione posta nel ritornello centrale scaturita dall’oscuro stato d’animo di Pete e Becky: “But will it be this way forever/ These are lonely days/ What if she could be the one that makes it better?/ He looks away, can’t hold her gaze/ But will it be this way forever?/ These are stressful times/ What if he could be the one that gets her?/ She looks away, she’s petrified”. “The Beigeness” e “Circles” sono invece i brani più spediti e accattivanti del lotto. Entrambi costruiti su uno strato percussivo a tratti rimandante certe soluzioni proprie della Dfa di un tempo (soprattutto la seconda), petulanti e ritmicamente circolari quanto basta per conficcarsi in testa e non uscire più, unito a un synth pragmatico e avvolgente, mentre le parole continuano a scendere giù come saette dal cielo (“I go round in circles/ Not graceful, not like dancers/ Not neatly, not like compass and pencil/ More like a dog on a lead, going mental”) in una presa di coscienza che non ha tempo per le illusioni e le conseguenti disillusioni.
Le più sopite “A Hammer” e “The Truth” mostrano al contrario il lato più tranquillo della Tempest, pur mantenendo alta la qualità della denuncia interiore nel solito susseguirsi di episodi disdicevoli ma utili a interpretare l’inevitabilità della condizione umana, mentre la musica segue andature meno nevrotiche ma non per questo meno incalzanti.
“Everybody Down” è in definitiva un disco rap slegato dalle convenzioni e dai comodi giochini produttivi. Un album a sé stante, un racconto ritmato capace di ipnotizzare tanto la mente quanto la nostra pelle. Il futuro manifesto urbano di un’intera generazione.
30/12/2014
1. Marshall Law
2. The Truth
3. Lonely Daze
4. Chicken
5. The Beigeness
6. Theme From Becky
7. Stink
8. The Heist
9. To the Victor the Spoils
10. Circles
11. A Hammer
12. Happy End