Il biennio 1991/93 rappresenta uno snodo cruciale per comprendere l’evoluzione della società contemporanea. Le fosche nebbie del secolo breve furono squarciate da alcune verità che preannunciavano il terremoto del trapasso nel nuovo millennio. Epoca in cui il medium, fregandosene altamente di McLuhan, avrebbe deciso di piantarla di essere semplicemente “il messaggio”, pensando bene di diventare/inventare la realtà stessa. La televisione, infine, uccise il mondo, compiendo quello che Baudrillard aveva definito il “delitto perfetto”. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, tutti gli eventi rievocati sono indissolubilmente legati dall’inedita, invasiva, ossessiva cronaca riportata dai media, già a pieno titolo cospiratori della notizia-spettacolo e della tragedia in diretta. Ebbene, se mai è esistita un’opera in grado di filtrare sincreticamente le tensioni e le istanze di quel periodo per declinarle con consapevole ferocia in una sorta di “guerra per bande” musicali, che tenne idealmente a battesimo il movimento no-global, celebrando la resurrezione di nuovi antagonismi militanti, quella è certamente l’instant debut omonimo dei Rage Against The Machine.
Grazie a Tom Morello, Zack De la Rocha, Tim Commerford e Brad Wilk, heavy-metal, hardcore, funk e hip-hop perdono definitivamente le loro coordinate melodiche, polverizzandosi in canzoni che fanno saltare le barriere fra i generi e gli stili condensandoli in una esplosione di rabbia pura. “Bombtrack” infiamma subito la miccia della sommossa, polveriera di scabro acciaio heavy-rock (AC/DC, Led Zeppelin) che riprende in chiave polemica lo slogan di Stokely Carmichael e Rap Brown (“Burn baby burn!” qui diventa “Burn, burn, yes you gotta burn!”), frantumandolo in fulminanti ripartenze hard-punk alla MC5; De la Rocha ne cavalca la ritmica alla testa di feroci e selvaggi assalti verbali che forgiano la proteiforme fluidità del rap (Public Enemy, Cypress Hill) nell’acuminato latrato dell’hardcore (Bad Brains, Dead Kennedys, Infectuos Groove), mentre gli assoli di Morello (l'ultimo guitar heroe dell'evo moderno e il primo del post) penetrano e si ritraggono come fendenti di serramanico in una rissa di strada a Darktown.
“Killing In The Name” è il capolavoro: un panzer cadenzato e minaccioso, un riff così elementare e tellurico da far morire d’invidia perfino i Black Sabbath, furenti call and response che inaspriscono in modo irrevocabile la doleance afroamericana (“Now ya do what they told ya/ your under control!"). È Mohammed Alì che si rifiuta di fare un passo avanti di fronte alla commissione per la coscrizione obbligatoria, un inno alla diserzione e alla disobbedienza civile (“Fuck you I won’t do what you tell me!”), è la rivendicazione di un attentato recapitata a George Bush Sr. e al nuovo inquilino Bill “BJ” Clinton, l’incendio devastante e liberatorio che cova sotto le ceneri del melting-pot nella città degli angeli.
“Take The Power Back” è più funky e sincopato, un groove che esalta il ciclopico basso di Timmy C. e i controtempi scheggiati di Brad Wilk, il rapping più eterodosso e velenoso di De la Rocha; sono i Red Hot Chili Peppers che suonano in un covo di Pantere Nere. “Bullet In The Head”, “Know Your Enemy” e “Wake Up”, la risolutiva trilogia insurrezionale, brividi e cadenze “zeppeliniani” (“Wake up”, in particolare, rinserra dietro una barricata di cemento urbano il riff mistico-orientaleggiante di "Kashmir"), definitivo tripudio del geniale corredo di effetti scratch, noise, flanger e wah di Tom Morello, testi espliciti al punto da fare apertamente nomi e cognomi, agit-prop e comizi slang che citano Lenin, Angela Davis, Malcom X e Martin Luther King ( “You know they went after the King/ when spoke: Out of Vietnam").
“Fistful Of Steel” e “Settle For Nothing”, se vogliamo, sono staffette vigorose, anche se un po’ monotone, che danno comunque il loro onesto e vigoroso apporto alla causa “rivoluzionaria”. “Township Rebellion” (strofa tipo Grandmaster Flash digrignata dai Sonic Youth e ritornello in staccato dei Led Zeppelin, finale post-core parzialmente destrutturato stile Washington D.C.) è la “CNN del ghetto”, una controinformazione militante sui famosi quattro giorni di guerriglia urbana, una riflessione sul destino delle istituzioni corrotte (LAPD, FBI, Governo Federale) e una denuncia senza appello dell’accorata, melliflua manipolazione dei media, impegnati a proteggere le certezze da “law & order” dell’America conservatrice.
“Freedom” è l’ultimo colpo da maestro, un grido di denuncia in favore di Leonard Peltier, leader dell’American Indian Movement, ingiustamente condannato a due ergastoli dopo un acclarato complotto governativo, la summa rocciosa e frastagliata delle furie e delle sincopi che sferzano l’intero album. De la Rocha che ripete a squarciagola la parola “libertà” nel finale è uno spettacolo sconsigliato ai deboli di cuore, ma può accendere brividi di commozione anche nelle coscienze più scettiche e qualunquiste, i feedback terminali ne ripercuotono la tregua come clangori di scudi che fischiano nelle orecchie dei sopravissuti su un campo di battaglia.
(19/10/2008)