Nel suo secondo disco, “Shameful Tomboy”, Francesca Morello, in arte R.Y.F., pone in circolo il flusso emotivo di un’anima dalla sensibilità smodata e dal cuore costantemente in fiamme, attraverso dieci canzoni devastanti per visceralità e capaci di affondare come lame "insanguinate". Un album intenso, intimamente verace e all’occorrenza rapace, frutto di un intimismo fuori dal coro. Nell’intervista che segue, la Morello si racconta a tutto campo, tra tensioni solitarie, omaggi al grande scrittore e drammaturgo russo Michail Afanas'evič Bulgàkov, battaglie queer nel nome di una sacrosanta libertà, ascolti in cuffia e programmi futuri.
In “Shameful Tomboy” fai tutto da sola, l’unico ad aiutarti è Roberto Villa. E’ una scelta dovuta a qualche ragione particolare? Come mai questa “solitudine”?
Ci possono essere due spiegazioni alla base di questa scelta. Il disco è talmente personale che ho pensato che fosse giusto così. Me la volevo vedere da sola con alcune cose del mio passato, ho fatto un lavoro di introspezione e narrazione per avere un giusto equilibrio tra personale e pubblico. Ho messo a nudo alcune parti di me, anche letteralmente per quanto riguarda la copertina. L'altro motivo, meno poetico, è che mi sono auto-imposta un termine per la registrazione del disco prenotando lo studio, per non dilungarmi troppo nella composizione e avere una deadline. Purtroppo, sono arrivata troppo a ridosso della data e, anche stavolta, non ho avuto il tempo di coinvolgere nessuno dei tanti e talentuosi amici musicisti che ho la fortuna di avere. R.Y.F. è un po' la mia bolla, la condivido col pubblico, ma mi piace mantenere questa tensione solitaria prima di suonare e il vuoto tutto intorno.
“Seguirmi, lettore! Sia recisa la lingua infame al mentitore che ha negato l'esistenza di un amore autentico, fedele ed eterno sulla terra!”. E’ l’attacco del secondo libro de “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, testo a cui sei particolarmente legata. Ebbene, penso che prima di ascoltare la tua musica e le tue parole, si potrebbe tranquillamente cambiare “lettore” con “ascoltatore” e finalmente premere play. Sei d’accordo? Inoltre, al di là di questo passaggio, “Il maestro e Margherita” di Bulgakov nasconde anche l’origine del tuo nome d’arte. Puoi indicarmi un’ulteriore parte di questo romanzo in cui ti sei rivista e che più senti “tua”?
Sono d'accordo con te. R.Y.F. è l'acronimo di Restless Yellow Flowers, ovvero fiori gialli inquieti e l'ho preso proprio da “Il Maestro e Margherita”: “Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile. Aveva fiori gialli! Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no? Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch'io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall'altro. E si figuri che non c'era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l'avrei mai più rivista”. Quando lessi questo passo per la prima volta, mi colpì tantissimo e lo sentii mio. Conoscevo benissimo quella sensazione descritta dal Maestro e all'epoca mi sentivo inquieta come quei fiori. Quello che cercavo di fare era fare uscire quella inquietudine attraverso i miei testi, e così sono diventata R.Y.F.
“Then I realize I was really really gay. Cause I can love the world whatever sex it may be”. Il mondo viaggia a diverse velocità. Sul piano etico e umano siamo ancora fermi a una sorta di medioevo delle emozioni. Il bigottismo è a tuo avviso un ignobile scudo delle proprie paure, penso ad esempio al colonnello Fitts “American Beauty”, oppure il frutto più amaro di un’incapacità essenzialmente disumana di relazionarsi agli altri? O c’è proprio dell’altro?
Spererei che nel 2020 non esistessero più dei colonnelli Fitts, ma temo che per il nostro paese sia una visione troppo ottimistica, visto l'aumento e la giustificazione della violenza nei confronti del “diverso”, delle donne e di tutto ciò che non si può catalogare. Non credo che gli esseri umani siano incapaci di relazionarsi agli altri, ma semplicemente, visto che costa un sacco di fatica ed energia capire le altre persone ed essere empatici, è più facile non farlo, far prevalere gli interessi individuali e coltivare l'egoismo. Il problema più grosso, però, sta nel fatto che, oltre a limitare la propria di libertà, queste persone ottuse e violente vorrebbero limitare anche di la libertà di chi se l'è dovuta conquistare e cancellare gli ultimi 40 anni di lotte che le persone trans e queer hanno combattuto, portato avanti con coraggio e i risultati ottenuti. E questo è inaccettabile.
La tua chitarra: che rapporto hai con “lei”? Quando hai iniziato a suonarla?
Ho cominciato a suonare la chitarra a 15 anni, dopo una vacanza studio a Malta in cui, per intrattenerci, degli animatori ventenni disperati ci insegnavano il giro di accordi: La- Do Re- Sol7. Con questi ultimi si riusciva a suonare “la sigla” delle serate di animazione. Ovviamente era una cosa orribile, ma l'idea di suonare la chitarra non mi dispiaceva e poi era un modo per non interagire troppo con i miei coetanei. Tornata a casa, espressi il desiderio di avere una chitarra e a novembre per il mio 15° compleanno andai nel negozio di strumenti del paese vicino e scelsi la mia Fender acustica Gemini II che possiedo e suono ancora. Me la regalò mio nonno. Sono praticamente autodidatta, frequentai delle lezioni di fingerpicking per poco tempo, perché volevo suonare quello che piaceva a me all'epoca. Quindi interruppi le lezioni comprai un libro di accordi e cominciai a trovare ad orecchio gli accordi delle mie canzoni preferite. Dopo un anno e poco più, ho cominciato a scrivere le mie canzoni. La chitarra è sempre stata ed è ancora un'amica e compagna che amo tanto. Grazie alla registrazione dell'ultimo disco l'ho suonata veramente tanto (quando si registra in analogico non si può fare del gran editing) perché volevo arrivare in studio bella pronta, e sento tantissimo la differenza rispetto a prima.
“Valley Of Tears Invading My Mind”: com’è nato questo movimento acustico? Dove si trova esattamente questa valle?
La valle si trova in Veneto, ed è la zona in cui sono nata e in cui ho vissuto fino a 30 anni. E' la mia personale valle di lacrime, perché è incredibilmente ostile e bigotta. In un clima del genere, mi sono sempre sentita un alieno (fortunatamente) e ho cercato di combattere gli attacchi di quella valle, ho messo su svariate corazze ma mi sono rimaste un bel po' di cicatrici. Ogni tanto il pessimismo e il disagio mi vengono ancora a trovare e mi fanno degli agguati a sorpresa, ma ho imparato a scansarli. Questo è quello che avrebbe dovuto dire il testo di questa traccia, ma non ho mai trovato le parole giuste. Visto che l'arpeggio mi piaceva molto e non volevo ometterlo dal disco, mi sono arresa ed è rimasta solo la chitarra.
“You called me shameful tomboy/ And I was only 5”. Quanto pesano oggi queste parole? Le hai rimosse o sono ancora una ferita aperta che punti per certi versi a “esorcizzare” con questa canzone?
Hanno pesato molto. Forse me le ero anche dimenticate per un momento o non avevo dato loro il peso giusto, finché non sono risalite alla memoria e sono diventate la title track del disco. Non pesano più, ma ho pensato che fosse importante mettere in musica quella sensazione di colpa ingiustificata, il sentire di avere qualcosa di sbagliato dentro, quelle imposizioni senza senso e quella violenza gratuita e, soprattutto, il mio desiderio di un mondo senza più imposizioni di regole malsane che mirano a una normalità che non esiste. Siamo uno diverso dall'altro, per fortuna, ed ognuno è speciale nella sua unicità.
Tirando in ballo il gioco dei paralleli tanto caro a noi critici, la tua musica a volte rimanda alla Pj Harvey più sanguigna. E’ lei la tua “musa” o ce ne sono altre/altri che nessuno ha mai scovato?
PJ Harvey è stata una dei miei ascolti più assidui nel passato ma non è stata l'unica mia fissazione. In verità, l'ho scoperta un po' tardi e sono andata a ritroso, amo tantissimo i suoi primi album. Ma ci sono stati altri ascolti maniacali: Björk, Tori Amos, Blonde Redhead, Tool, Cat Power, The Cure, Sigur Ròs e prima ancora Nirvana e Skunk Anansie.
Ti avvali di una strumentazione rigorosamente vintage. Da dove nasce questa scelta? Hai mai pensato a un disco elettronico e super, ehm, moderno?
I miei strumenti non sono esattamente vintage. Sono andata a registrare in uno studio bellissimo, tutto analogico e vintage che si trova a Forlì e che si chiama L'amor Mio Non Muore, per avere un certo calore e pasta del suono. Ho usato anche degli strumenti vintage per registrare alcune sovraincisioni di chitarra su consiglio di Roberto Villa. E' stato molto bello lavorare con lui e sono molto contenta del risultato, avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. Personalmente non sono legata troppo alla strumentazione vintage, anche se mi piace moltissimo e ammiro chi riesce a mantenere questa passione. E non sono nemmeno troppo legata alla chitarra: è lo strumento più spontaneo. Mi piacerebbe tantissimo essere una brava pianista, purtroppo i miei due anni di lezione mi hanno lasciato solo la capacità di strimpellare, ma adoro i tasti pesati del pianoforte. Poi, da alcuni anni, nutro uno spiccato interesse per i sampler, i synth, le drum machines, in "1st Times" ho messo un beat che ho fatto con un Pocket Operator della Teenage Engineering. Mi piace giocare con le macchine.
Cosa ascolti ultimamente?
Ultimamente mi faccio rapire dalle playlist di Spotify, perché sono molto in giro e non riesco ad ascoltare musica a casa. Sono alla ricerca di cose nuove e quindi provo a vedere se gli algoritmi mi fanno scoprire qualcosa di bello, senza predilezione per qualche genere in particolare. In questi giorni sto ascoltando l'ultimo disco di Moor Mother, visto che aprirò il suo concerto tra pochissimo, e lo trovo molto bello ed estremo, la conoscevo già e mi è subito piaciuta. L'ultimo disco degli Ovo, che ho avuto la fortuna di sentire in anteprima, e anche questo è veramente una bomba. Poi negli ultimi mesi ritornano spesso Emma Ruth Rundle, FKA Twigs, Boy Harsher, Buke and Gase e Little Simz. Dopo la mia partecipazione a Transmissions XII e averla vista dal vivo, ascolto spesso Nadah el Shazly e sonorità mediorientali e, sempre grazie a qualche playlist mirata, sto scoprendo altri artisti che mi piacciono. Quando sono particolarmente malinconica ascolto gli Amenra. Se sono in macchina, da quando è uscito, ascolto "Bruto Minore" dei Ronin e lo fischietto tutto, dall'inizio alla fine. Per fare Shiatsu metto il ritual di ?Alos, come sottofondo rilassante è perfetto.
Dopo questo disco cosa pensi di fare? Hai già altro materiale musicale in cantiere?
Non ho del materiale, ma ogni tanto mi frullano delle nuove idee in testa. Non credo che farò passare altri tre anni prima di fare il prossimo disco, ma per ora è ancora presto. Di sicuro mi voglio concentrare di più sulla musica rispetto agli anni passati, perché mi rende immensamente felice.
Come organizzi i tuoi concerti? Stravolgi le tue canzoni o lasci che scorrano come su disco, mantenendo dunque una tua fedeltà alla creazione originaria?
Di base non stravolgo le canzoni, ma lascio che sia la componente emotiva a fare la sua parte e fare in modo che ogni concerto sia speciale. Non ho una scaletta, anche se tendo ad avere un ordine nelle canzoni, ma, visto che posso, mi piace avere la possibilità di cambiare idea all'ultimo momento. Ogni concerto è diverso dall'altro e cambia in base alla venue, al pubblico e a quanto mi sento di interagire verbalmente con lui.