Nel corso della sua carriera solista (ma in larga parte anche in quella di musicista per varie band) un elemento ha contraddistinto in maniera schiacciante la produzione di Emma Ruth Rundle. L'impatto che ha l'atmosfera nella sua musica trascende infatti il mero ruolo di veicolo emozionale e contesto atto a supportare il comparto lirico, spesso e volentieri preponendosi ad esso e dettando l'andamento dei brani stessi. Non che le tematiche prescelte per i vari dischi non abbiano la loro specifica importanza; d'altronde per un'autrice come lei, che riversa il proprio vissuto all'interno dei suoi brani, è difficile non rilevare il peso delle scelte liriche, di parole che ben ne riflettano la soggettività.
Anche così, non si può non notare il potente trasporto evocativo della sua arte, l'impatto delle ambientazioni, come di prassi ben oltre i ristretti steccati di genere. Ancora forte di un'oscurità espressa attraverso modulazioni doom, feedback shoegaze e sparsi contributi folk, Rundle appiana in “On Dark Horses” gli umori più funesti e fatalisti, abbracciando una malinconia più posata e chiaroscurale (quantomeno nei testi) e ritrovando un contatto deciso con quell'anima post-rock un po' accantonata nelle ultime prove. Oltre certe pose che avevano fiaccato “Marked By Death”, il suo quarto album pare rimettere le cose sulla giusta carreggiata.
Con le esperienze con i Marriages e i Red Sparowes ben visibili dallo specchietto retrovisore, l'artista manovra la propria musica con grande impatto umorale e un buon fiuto compositivo, che si spinge spesso oltre la ricerca dell'uncino pop per abbracciare un assortimento espressivo ben più complesso e stratificato. Se forse una maggiore secchezza sonora avrebbe giovato in quegli episodi dove l'anima folk/cantautorale vibra con più enfasi (una “Control”, dall'evidente chitarrismo blues/americana, che avrebbe volentieri fatto a meno di certe esplosioni in chiave doom-gaze), nondimeno il disco sa trarre forza dall'afflato roboante e dalla vastità dei soundscape architettati, lasciando parlare il lato meramente musicale in maniera più consistente rispetto al passato.
Mai così prona a esibire il suo versante più gotico e umbratile, Rundle comunque piega le sue interpretazioni a un campionario tematico decisamente più pacifico che in passato, lasciando filtrare addirittura sparuti spiragli di luce in un lirismo solitamente molto più torbido. “You Don't Have To Cry” avanza se possibile ipotesi “romantiche” e piccoli vagiti di speranza, in una ballad che dosa le esplosioni di batteria e promuove sentimenti di difesa e coraggio, andando oltre le mere riflessioni personali.
“Darkhorse”, al netto dell'inesorabile crescendo strumentale e delle cupe trame post, tratta di traumi e passati tormentati con un approccio empatico, strutturando la narrazione attorno al reciproco sostegno di due sorelle. Poi il discorso sa farsi convintamente mesto e disperato (una “Dead Set Eyes” che pare inasprire la formula dei primi Cranberries; la strategia della tensione adottata nella più compunta “Apathy On The Indiana Border”), e mostrare quello che sarebbe potuto essere un percorso alternativo nella carriera di Chelsea Wolfe (il massiccio doom-folk di “Light Song”), ciò non toglie che un nuovo percorso sia stato tracciato, e che vi sia tutta l'intenzione di percorrerlo.
Ormai matura e conscia dei propri mezzi, forte di un inesorabile passaparola che ne ha cementato lo status di nuova poetessa dark, Emma Ruth Rundle è già predisposta a tingere di cromie meno desolate il suo affresco musicale. Se questo si tradurrà in un equilibrio per certi versi simile a quello di “Some Heavy Ocean” non è dato saperlo, quel che è chiaro è che una breccia è stata finalmente aperta. Sarà stuzzicante valutare se l'autrice sarà finalmente disposta ad abbattere il muro definitivamente.
01/10/2018