Dopo un paio di anni di preparazione, divisi tra l'Egitto e il Canada, nel 2017 Nadah El Shazly dà alla luce il suo primo album solista "Ahwar", composto in collaborazione con Maurice Louca e Osama Shalabi, due membri dei Dwarfs Of East Agouza. Seppur nella sua giovane età (è nata nel 1989), Nadah El Shazly è un nome di spicco della scena musicale underground egiziana grazie agli Shorba, con alle spalle persino un passato in una cover-band dei Misfits. Negli ultimi anni la cantante si è poi indirizzata verso l'avanguardia, in particolar modo l'elettronica, sperimentando dapprima in solitudine e poi chiamando a sé quel foltissimo ensemble di musicisti che vediamo oggi comparire nei lunghi credits nel disco.
"Ahwar" ("paludi" in arabo) è un disco capace di immergerci nei territori dell'ignoto, con una serie di composizioni sperimentali completamente indipendenti l'una dall'altra, in cui la sua voce è sempre l'indiscussa protagonista; una voce che, parafrasando ciò che canta lei stessa, "viene da un tempo lontano e scappa da sola nel deserto". La traccia di apertura "Afqid Adh-Dhakira" ci spinge fin da subito giù nel precipizio, con le sue voci mutanti che si diffondono come una tregenda orientale di jinn e streghe. Con il passare dei secondi, la canzone riesce a incanalare ritmi kraut-rock, funk, jazz, elettronica e musica araba, nel mezzo di violini, chitarre, contrabbasssi e persino un riqq. Il nome del brano si traduce letteralmente in "perdita di memoria", più o meno l'effetto che le varie voci riescono ad assortire sull'incauto ascoltatore. Nessuno esce salvo da questo sabba elettronico, un viaggio nel tempo e nello spazio capace di ingabbiarci in una ignota dimensione.
Se ci fossero rimasti dubbi, la seconda traccia si intitola "Barzakh", traducibile come "ostacolo", termine che indica lo stadio intermedio nell'evoluzione postuma dell'essere umano, ovvero l'effimero momento in cui le anime si incontrano dopo aver lasciato questa vita. Per rappresentare questo concetto, Nadah plasma ritmi diversi che vanno a sovrapporsi, dando luogo a una lenta processione extrasensoriale condotta dal saz.
La trance continua in seguito con "Palmyra", requiem elettronico dedicato all'antica città siriana, in cui la sezione vocale si ispira allo stile libero del mawwal. Il leone in copertina, frutto dello sbalordito artwork di Marwan El-Gamal, allude proprio al simbolo del sito archeologico distrutto dalle milizie dell'Isis. Nel novero c'è poi spazio anche per una cover astrattista di "Ana 'Ishiqt", che decostruisce letteralmente l'originale di Sayyid Darwish. La voce di El Shazly sembra prendere rotte aliene sugli arpeggi celestiali degli archi e sui rintocchi della kalimba, fino a infrangersi nelle onde cacofoniche del sax. La strumentale "Koala", al contrario, avanza nella forma libera del jazz-rock, con una struttura dissonante e multiforme che ricorda certi atti orchestrali di Canterbury, mentre la talismanica "Mahmiya" diviene la vetrina finale per la voce di Nadah El Shazly, che si libbra sopra le note dell'oud e della chitarra, fondendo ancora una volta tradizione e avanguardia, in un album d'esordio che rimane una dichiarazione d'intenti assolutamente audace.
(15/01/2018)