Cinquant'anni di vita richiedono un bilancio complessivo, a maggior ragione se si è fatto dell'arte un mestiere, confrontandosi in maniera continuativa con i propri "colleghi" e/o con il pubblico. Ma prima di tutto si festeggia, e tradizionalmente lo si fa tra amici. Nella stessa ricorrenza John Zorn non venne meno alla propria indole prolifica, dando alle stampe una "50th Anniversary Edition" di ben dodici volumi sulla sua Tzadik. Il sassofonista svedese e luminare del free jazz Mats Gustafsson ha invece condensato la celebrazione in una tre giorni al Porgy and Bess di Vienna, chiamando all'appello formazioni nelle quali, il più delle volte, è tra gli attori principali.
Da questa eclettica maratona è stato poi ricavato un quadruplo box set che costituisce una sorta di atlante delle molte tendenze che nutrono la scena scandinava e non solo: una costellazione fatta di puntini apparentemente isolati l'uno dall'altro, la cui identità complessiva è proprio quella di un linguaggio totalmente libero, slegato dalle catene della tradizione e dagli insegnamenti dei maestri, costruito ogni volta da zero con strumenti e codici non prestabiliti.
Esplosivo il dittico iniziale a fianco della batteria di Didi Kern, mentre il binomio elettronico Risc (Dieb13 e Billy Roisz) è rappresentato dalla scura meditazione di "Birthday Boy", tra manipolazioni elettroniche e grevi linee rette di basso elettrico. L'anima scandinava poi si manifesta appieno assieme a Sven-Åke Johansson: stridori di corde e legno spostano inizialmente la mira dell'improvvisazione verso la pura non-music, seguita invece dal ritorno all'estremo opposto con un improbabile crooning scandito dal ritmo della sola batteria.
Con Swedish Azz giunge la prima band della raccolta: un quintetto meticcio fra elettronica e avant-jazz in libero decollo a partire da un tipico riff di basso, o cadenzando ballate ubriache alla Mingus ("Quincy"); a sorpresa la svolta elettrica zappiana con annesso vibrafono ("Du Glädjerika Sköna" - tr. "gioiosa bellezza") e gustosi passaggi alla Henry Cow - che preziosa eredità, quella del rock in opposition.
Un altro nutrito assembramento inaugura il secondo Cd: (Fake) The Facts è la firma di Mats con due esponenti primari della EAI, Dieb13 e Martin Siewert, mentre il decano Paul Lytton e il discepolo Martin Brandlmayr si spartiscono le percussioni; la loro sessione si esplica in due formidabili climax ascendenti in direzione noise, sposando in venti minuti l'indagine sotterranea al frastuono dei Supersilent vecchia maniera.
La seconda traccia costituisce senza dubbio uno dei contributi più enigmatici della raccolta, contraddistinto dalle singolari voci di Christof Kurzmann, habitué di casa Charhizma e Erstwhile (memorabili gli "Schnee" in duo con Burkhard Stangl) e Sofia Jernberg, stabilmente al fianco di Mariam Wallentin nella Fire! Orchestra. Dopo un'introduzione dai toni dilatati e sfuggenti dove l'una si adopera in vagiti soffocati e pre-semantici, l'altro reinterpreta il classico wyattiano "Alifib" con la stessa fragilità del suo autore ma senza accompagnamento melodico, laddove Gustafsson sperimenta le più criptiche modificazioni ai live electronics.
L'atteso ingresso della Fire! Orchestra avviene in punta di piedi: "Molting Slowly" (da "Without Noticing") prelude alle ieratiche suite che oggi troviamo in "Ritual", mentre i due episodi successivi ristabiliscono la muscolare preponderanza della sezione ritmica, con l'implacabile ostinato di basso elettrico e sax baritono a fondamento della seconda parte di "Exit!" e l'analogo hard-blues di "Would I Whip".
Terzo disco. Inaspettata e felicemente stravagante la sessione con il Klangforum Wien, ensemble accademico di riferimento per la neue musik (innumerevoli i gioielli incisi per l'etichetta Kairos, da Scelsi a Lachenmann, da Neuwirth a Sciarrino). Dodici minuti di ordinata depravazione rumorista che ben rappresentano entrambe le parti in gioco, in un fervente rimbalzo di stimoli surreali a base di fiati atonali e archi in sordina.
Qualcosa di vagamente assimilabile, benché in assetto da anomalo jazz quartet, lo ritroviamo subito dopo con le disfunzioni digitali di Thomas Lehn e il TR!O completato dal trombone e la batteria di due veterani d'area tedesca, Günter Christmann e Paul Lovens.
Non potevano e non dovevano mancare The Thing, formazione avant-jazz per eccellenza in area nordica, col raddoppio di sassofono da parte dell'americano Ken Vandermark, professionista dalle innumerevoli collaborazioni. In assenza dei nostri Zu, il gruppo così formato sembra rivederne il periodo centrale in chiave unplugged, anche grazie al poderoso ruggito del baritono e ai virtuosismi del grande Paal Nilssen-Love alla batteria. Quasi quaranta minuti di magistrale depravazione free che, attraverso vari gradi di concitazione e ardimento sperimentale, tratteggiano l'anima più esuberante e assieme accorata del nuovo jazz.
L'ultimo cd, infine, è una ricca collezione di dediche perlopiù soliste da parte di stretti collaboratori - alcuni dei quali già apparsi in altre formazioni - amici musicisti che con i loro exploit sembrano animati dallo stesso fuoco sacro (quello dell'avanguardia) che infiamma l'instancabile Gustafsson. Tre i momenti salienti, primo dei quali l'assolo di vibrafono di Kjell Nordeson, già in Swedish Azz, qui pervaso da una caotica frenesia che sembra guardare da vicino all'integralismo seriale.
Il suono gutturale della tuba di Per-Åke Holmlander non risulterà nuovo a chi ha potuto apprezzare gli assoli della sessione di "Enter" uscita su Rune Grammofon: il rombo del suo ottone riesce a raggiungere frequenze abissali, al limite dell'inudibile, con occasionali risalite onomatopeiche che hanno distintamente dell'elefantesco.
Nelle mani di Agustí Fernández il pianoforte torna a essere quella cassa di risonanza assolutizzante che la contemporaneità ormai ben conosce: dapprima con manovre oscure di inside-piano, tese ad ammutolire qualunque residuo tonale, poi con tecniche percussive dalla violenza inaudita, degne della più orrorifica colonna sonora.
La cornamusa di Erwan Keravec rappresenta senz'altro la più ardua prova di resistenza: un tour de force di oltre venti minuti che sembra condurre verso estremi insostenibili le estasi mistiche di Terry Riley, accumulando le stesse note acute intermittenti su un drone immoto.
Come un grande action painting collettivo "Peace & Fire" offre, con l'occasione dei festeggiamenti per il capitano Gustafsson, uno sguardo estremamente variegato (benché ancora lungi dall'essere onnicomprensivo) di ciò che oggi smuove la singolare creatività del Nord Europa, foriero di un entusiasmo innovatore che oggi, probabilmente, non ha termini di paragone. Se infatti i maggiori paesi del Vecchio Continente, così come l'America, proseguono ancora passo passo sui sentieri tracciati in ogni direzione dalla "deflagrazione" novecentesca, le compagini scandinave colgono ogni occasione per fare emergere inequivocabilmente il loro tratto distintivo: una tabula rasa che rende le arti musicali e performative un territorio eternamente vergine, dove sperimentare e coltivare rarità impossibili da replicare.
15/07/2016