Versione tutta moderna e sperimentale delle big-band di un tempo, la Fire! Orchestra, guidata dal sassofonista svedese Mats Gustafsson, imbastisce con “Fire!” un esercizio di musica totale in cui, partendo dall’ovvio retroterra (free-)jazz, si percorrono, in lungo e in largo, sentieri cangianti, a cavallo tra memorie kraute, rigurgiti funk, spasmi soul e digressioni cinematiche.
Sempre sul filo della tensione, la musica delle due lunghe composizioni qui presente mostra un gusto narrativo tutt’altro che estemporaneo, anzi sempre attento a ridimensionare gli eccessi anarchici con adeguati contrappunti emozionali. Insieme al batterista Andreas Werliin dei Wildbirds & Peacedrums, al bassista Johan Berthling (lo ricordiamo alla corte dei Tape) e ad oltre una ventina di elementi della scena jazzistica svedese, Mats Gustafsson mette in piedi, quindi, un corpo sonoro che sa essere, all’occorrenza, palpitante, evocativo e liberatorio.
All’inizio del primo movimento, la sezione ritmica pulsa e ondeggia con un ¾ ostinato, caldo e avvolgente, di mingusiana memoria, mentre la bella voce di Mariam Wallentin affresca il buio con vampate sulfuree. Prende, dunque, piedi un caos organizzato di fiati inviperiti, violente scale chitarristiche e frammentazioni pianistiche. Tutto si muove, comunque, verso un climax, risolto, intorno al decimo minuto, dall’improvvisa solitudine della Wallentin, abbandonata al suo destino mentre invoca, nel silenzio, il silenzio. Quando, poi, la batteria riprende quota, l’atmosfera diventa fumosa, umidiccia, trasformando il tutto in una lenta deriva…
Dal nulla, nel secondo movimento, esce la voce di Sofia Jernberg, anch’essa smarrita ed esitante, mentre le parole diventano granuli di senso in una indefinita landa fuori dal tempo. Poi, un pianoforte inizia a ticchettare le sue gelide trame, lasciando colare tensione lungo le pareti invisibili che circondano questa immaginaria scena. Quando, alfine, Werliin getta la spugna, lasciando partire un groove motorik sulla cui carcassa danzano sfrenati gli strumenti, risulta chiaro che, nel gioco dei pieni e dei vuoti, si annida l’essenza di questa musica vibrante e “drammatica”. Di lì a poco, la Jernberg avrà a che fare con tutto un coacervo di spirali e borbottii di fiati, come se le peripezie dell’improvvisata americana (sto pensando, ovviamente, alla AACM…) continuassero a punzecchiare cuore e cervello.
18/06/2013