Wildbirds and Peacedrums

Wildbirds and Peacedrums

Il volo dei tamburi

Wildbirds & Peacedrums è il progetto degli svedesi Mariam Wallentin e Andreas Werliin, provenienti dall'accademia di musica e teatro di Goteborg. Una spiazzante formula musicale improntata sull'asse percussione-voce con la finalità di sovvertire il nucleo di una canzone "pop" dai lineamenti soul, in un walzer continuo di angoscia punk, improvvisa quiete songwriting, orgasmo blues ed eterodossia gospel

di Giuliano Delli Paoli

Gli svedesi Mariam Wallentin e Andreas Werliin provengono dall'accademia di musica e teatro di Goteborg, sono compagni nella vita e dal 2005 condividono artisticamente il progetto Wildbirds & Peacedrums. Una fusione musicale intesa concettualmente come “fuga” dalla rigidezza degli schemi accademici, capace di trasformare una notevole perizia tecnica in qualcosa di veramente insolito e stupefacente nel panorama svedese odierno.
Ad accogliere i primi embrioni sonori del duo, non sono gli incantevoli paesaggi della contea di Västra Götalands, bensì le strade infuocate dell’antica Berlino, da sempre culla di notevoli talenti provenienti da ogni parte d'Europa. Difatti, è nel cuore della Germania che i due giovani amanti muovono i primi significativi passi, partecipando a una serie impressionante di eventi, spostandosi tra gallerie d’arte, club privati e festival indipendenti d’alto rango.
A contraddistinguere il tessuto sonico dei Wildbirds & Peacedrums, è una formazione di stampo propriamente classico, alla quale va sommata una robusta predilezione verso un approccio jazzy & bluesy. I due cercano di destabilizzare l'ascoltatore con meravigliose pop song batteria-voce, adagiate su sfumature acustiche delicate, vivaci, di sperimentale candore. La Wallentin  ricorda diverse regine misconosciute del firmamento rock (e non solo). A tratti sembra di ascoltare la nipotina di Patty Waters che gioca a fare la nonna impugnando il microfono con la medesima “delicata” follia, ponendo la batteria, sempre ben calibrata dall’amato Andreas, ora gentile e carezzevole, ora confusa e clamorosamente sanguigna, come motore centrale dei propri squarci vocali. Anche i testi, delineati da una poetica incendiaria, pragmatica, confermano appieno questa duplice tendenza, e risultano spesso segnati da un’intensa tensione espressiva, attraverso la quale (dis)illusione, tristezza e una smodata fiducia nella vita corrono nello stesso senso.

L’esordio del duo, Heartcore (2008), appare in sordina sugli affollati schermi svedesi verso la fine del 2007, anche se li prime registrazioni risalgono all’anno precedente. Inizialmente, il disco resta sospeso nel limbo dello sterminato firmamento musicale scandinavo. Solo alcuni mesi dopo, un agente della Leaf deciderà di trasportarlo oltre i confini natii, assicurandoci uno dei lavori più spiazzanti degli ultimi anni.
Si parte dall’origine, dal blues. Le corde vocali della Wallentin decollano con pacatezza chirurgica, un’ugola caldissima che danza sul velluto, stringendo a sé un’aura soave di trascendenza epica. La struttura dell’opera non ha coordinate fisse, c’è tutta l’obliquità psych-folk dei tempi perduti (ascoltare “A Story From A Chair” o la xilofonica “Lost Love” e non ricollegare la mente ai parallelogrammi acidi dell’amata Linda Perhacs, è davvero impresa ardua); ci si imbatte di scatto nell’immediatezza filofunk-punk (!) (“Doubt/Hope”) che proprio non t’aspetti, o in un’improvvisa trance flower power per sola voce e bacchette (“The Window”), prima che la grancassa prenda possesso dell’asciutta sezione ritmica. 
Ma il momento più alto, è da ricercare tutto nei tre minuti scarsi di “Nakina”: climax Zen “deturpato” dall’incedere pachidermico del Werliin, con la Wallentin a gironzolar estasiata nel proprio Karesansui estatico (trattasi, se non altro, di un’istantanea contemplativa sui percorsi sublimi dell’amore e dei suoi intarsi meditativi).
Heartcore trova il suo maggior punto di forza nell’originale alternanza delle soluzioni adottate. Pur restando ancorati a una modellazione free, i due genialoidi accademici riescono perfettamente nell’intento di sovvertire il nucleo di una leggera canzone indie-pop, spostandolo sull’asse percussione-voce con risultati sorprendenti.

Il disco viene accolto positivamente da gran parte della critica europea, e spinge di scatto Mariam Wallentin e Andreas Werliin verso territori più ampi. Ciò che realmente seduce, è la veemente teatralità espressiva, fusa attraverso scosse repentine da collasso voodoo, condensata in un’attitudine avventuriera tesa a equilibrare melodia e strampalati escamotage ritmici. In tal senso, l’utilizzo insolito di strumenti occasionali smobilita l’impalcatura armonica, deteriorandola e  riassemblandola senza soste. Nascono così, esibizioni contraddistinte da un’essenzialità esecutiva tesa a scuotere corpo e anima senza ricorrere a elementi aggiuntivi. Una formula d’intenti dove urla, echi, inquietanti ululati sospingono tintinnii, pattern ritmici devastanti e ruvidezze blues d’annata.
Ma è la teatralità congenita di Mariam a emozionare maggiormente. Angoscia punk, improvvisa quiete songwriting, jazz appeal, e orgasmo blues mescolati in una danza organica di sinuose movenze, svettano e incastrano le emozioni su un morbido tappeto di eterodossia gospel. L’urgenza espressiva del duo trova ideale rifugio nell’improvvisazione estetica della colta sirenetta svedese.

La naturale prosecuzione di una delle formule “pop” più spiazzanti degli ultimi anni trova pieno compimento in The Snake (2009), secondo disco dei Wildbirds & Peacedrums, pubblicato in Svezia nel 2008, ma distribuito dalla Leaf nel resto dell’Europa solo nei primi mesi del 2009.
Ancora una volta, i due sposini non rinunciano a xilofoni, kalimba, steel pan, flauti, armoniche, gu zheng, santor, autoharp e pelli asciutte, dando vita a una danza sacra attuata nella celebrazione di un purismo blues mai domo, dettata dall’ipnosi vocale della Wallentin, sempre più a suo agio con i pattern ritmici imposti dall’amatissimo Andreas. Tutto scorre con veemenza pastorale. La musica è in se stessa una spoglia raffigurazione teatrale, attraverso la quale voce e percussione incarnano lo spirito grezzo del suo intento primario. Primitivismo jazzy e fantasia pop marcano territori musicali deserti solo in apparenza, dove le sfumature melodiche e i diversivi stilistici di turno fondono all'unisono, seguendo talvolta insolite usanze strumentali nipponiche.
L’intro spirituale di “Island” è una sorta di preghiera pagana, recitata con angoscia e meditazione da Mariam Wallentin, nelle vesti di una sacerdotessa. E funge da preludio divino all’apocalisse percussiva di “There Is No Light”. La spensieratezza ritmica di “Places” placa i toni e rimescola ulteriormente le carte, con tanto di uh-uh-uh sbarazzino e ululati liberatori, mentre “Great Lines” riaccende le fiaccole e riparte con flemmatica coralità, prima di sbocciare in un finale epico, con tutti gli strumenti tesi a riprodurre un vero e proprio Kagura. E' l'apoteosi del sodalizio voce-ritmo.
Chiudono questa fusione orgiastica di ugole sovrapposte e tribalismi ossessivi, il lamento congiunto di "Who Hoho Ho" e i raggi di luce, proiettati dal Werliin sulla propria grancassa, di "My Heart".

Con The Snake, il duo svedese ha dimostrato ulteriormente quanto sia semplice porre l’essenzialità ritmica e melodica come cellula primaria del proprio essere e divenire in musica.

A distanza di un anno, Mariam Wallentin e Andreas Werliin hanno ben pensato di accorpare in un unico disco i due Ep “Retina” e “Iris”, dando così vita al terzo disco della loro carriera. Registrato e composto in un lungo soggiorno nelle perdute terre islandesi, Rivers mette in luce nuovi umori della coppia svedese. Un lavoro inevitabilmente influenzato dall’ambiguità stilistica delle due parti di cui è composto, nella cui prima metà del piatto i tamburi lasciano inaspettatamente il posto ai sussurri corali della Schola Cantorum di Reykjavík (curata per l’occasione da Hildur Gudnadottir), inseriti nel contesto per far risaltare l’improbabile connubio corale fortemente voluto dal duo scandinavo, teso a enfatizzare le melodie in una sorta di messa pagana, con la Wallentin in primissimo piano, libera momentaneamente da organetto e altro, e il coro a infliggere una buona dose di austerità.
E’ una formula seducente, coraggiosa, nella quale traspare un allontanamento parziale dal timbro gospel-blues delle due splendide prove precedenti.
Le cinque tracce di “Retina” sono fin troppo segnate dalla presenza del coro islandese, sfondo perpetuo al canto recitato della Wallentin, perennemente alternato tra bassi e alti con la dovuta padronanza accademica. Di tutt’altra sostanza è composta la seconda parte dell’album, “Iris”, introdotta da un organetto sfasato, liquido, con il buon Werliin nelle vesti dell’indomito percussionista che (quasi) tutti conosciamo. Mood orientaleggiante, minimalismo ritmico, e una vocazione più pop riconducono il tutto a sentieri già calpestati.
Considerata la sostanza, Rivers è un disco destinato a dividere, e non potrebbe essere altrimenti.

A distanza di tre anni, la Wallentin decide di mettersi un attimino in proprio con il progetto solista Mariam The Believer, alla ricerca quindi di una momentanea scappatoia dalle dimore sperimentali del duo. Per l’indomita svedesina arriva dunque l’ora di nascondersi dietro una nuova maschera che possa dar libero sfogo al suo, talvolta ostentato, istinto “pop”. D’altronde, che fosse lei l’anima melodica dei Wildbirds & Peacedrums è sempre apparso ben chiaro a tutti sin dai meravigliosi tempi di Heartcore. In realtà, poi, l’idea di dar vita a un progetto parallelo è sorta dopo essersi trasferita per un po’ di tempo nella Grande Mela con l’intento di cogliere nuove ispirazioni, nuova linfa da fornire al proprio potenziale artistico. Spuntano così una gibson, un sassofono e un basso a rinvigorire il consueto armamentario di aggeggini rudimentali e non di cui la musicista svedese è solita disporre, uniti ovviamente all’inseparabile organetto e all’ancor più inseparabile maritino accorso naturalmente alle percussioni.

Fin dai primi istanti di Blood Donation, si nota una maggiore pulizia nei suoni e una produzione globale ben più accurata. Mariam è completamente libera di muoversi dentro questo suo nuovo mondo. Così, ogni interpretazione risulta impeccabile, viscerale e teatrale all’occorrenza, pacata e sinuosa nei momenti di quiete. Mentre le pelli dell’amato Andreas non mostrano mai i muscoli,  appaiono ben più leggiadre e meno isteriche. La dolce Mariam dimostra poi di possedere un’insospettabile eleganza pop. Le sfumature si arricchiscono di fiati e cori sullo sfondo (“Dead Meat”) senza mai affondare quel pathos emozionale tenuto ben alto per tutta la durata del disco. Ma “Blood Donation” è soprattutto un susseguirsi ben articolato di luci e ombre, un lavoro equilibrato nel suo intenso e variegato fluire. Se c’era il bisogno di una qualche conferma sulle potenzialità singole della Wallentin, Blood Donation ne consegna più di una. 

Ma è con Rhythm, quarto disco a nome Wildbirds & Peacedrums, che i due tornano a incendiare appieno i propri animi. Un ritorno alle origini in cui l'essenzialità del battito sovrasta l'intera struttura armonica, sostenuta dalla sola Wallentin nelle vesti di una musa selvaggia e in qualche maniera ferita dalla banalità del vivere quaotidiano. 


ll titolo del disco, esplica in toto ciò che è racchiuso musicalmente al suo interno. Se con Rivers i due avevano dato precedenza agli impulsi accademici di stampo ovviamente classico, chiamando a sé il coro della Schola Cantorum di Reykjavík, qui la materia è decisamente più grezza, mentre il battito assume una centralità assoluta. Via quindi ampliamenti strumentali e vocali. Subentra giusto qualche linea di basso qua e là a dar man forte al binomio imperante voce-percussione. Si torna alle origini, ma con una nuova coscienza, e un’irrequietezza dello spirito che esplode puntuale in ogni traccia attraverso un tambureggiare mai domo.

Ad aprire le danze è il mantra esotico di “Ghosts & Pains”. Mariam scalda l’ugola disseminando irriverenza con piglio del tutto blues. Mentre nella successiva “The Offbeat”, la corde vocali vengono elettrificate e opportunamente sdoppiate, con Andreas intento nel tenere a bada la sezione ritmica attraverso le consuete frattaglie di circostanza. Più calda e pacata appare invece “Gold Digger”, nonostante evidenzi nei tumulti in coda l’umore nero caratterizzante l’album.
“Mind Blues” è al contrario una danza sincopata, con i due che sembrano quasi rincorrersi tra coretti e improvvisi artifizi ritmici. Difatti, in tutto il disco domina incontrastata un’energica propensione al dominio duro e puro. E’ come se i due amanti avessero deciso di scaricare mediante i singoli ruoli strumentali le proprie inquietudini, in un amplesso sonoro che non lascia tregua e che toglie più di una volta il respiro.

Pur non rinvigorendo di fatto le caratteristiche peculiari evidenziate appieno già nei primi due lavori, Rhythm ci consegna una coppia in forma smagliante, vedi il possente crescendo di “The Unreal Vs. The Real” o l’irresistibile singolo di lancio “Keep Some Hope”, avvolgente e ritmicamente ipnotico. Menzione a parte merita la conclusiva “Everything All The Time”, posta su territori più sperimentali e cacofonici, con Wallentin in modalità accelerata e la Werliin in preda a un vero e proprio delirio interiore. Cambi di ritmo improvvisi e alzate di tono ne rimarcano semplicemente la totale inafferrabilità stilistica.



P.S. Heartcore è stato pubblicato per il solo mercato svedese nel 2007, e distribuito in Europa nel 2008.
The Snake
è stato pubblicato per il solo mercato svedese nel 2008, e distribuito in Europa nel 2009.

Wildbirds and Peacedrums

Discografia

Heartcore (Leaf, 2008)

8

The Snake (Leaf, 2009)

7,5

Rivers (Leaf, 2010)

7

Rhythm(Leaf, 2014)7.5

MIRIAM THE BELIEVER

Blood Donation(Repeat Until Death, 2013)

7

Pietra miliare
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