Nella storia del jazz non di rado capita che, per una serie di convergenze straordinarie non solo musicali, molte delle pulsioni recondite appartenenti all’intima natura degli artisti afro-americani finiscano per assumere corpo in un solo musicista. Questo è il caso straordinario di Charles Mingus, bassista testimone della prima rivoluzione bop (nel ’45 era già a fianco dei mostri sacri Parker, Gillespie, Powell e Roach nel leggendario concerto al Massey Hall), attraverso il quale quelle pulsioni intellettuali videro la luce nella maniera più dirompente possibile. Probabilmente né lui né i suoi mentori si rendevano pienamente conto che la storia avrebbe scelto loro quali portatori di una tempesta musicalmente rivoluzionaria; fatto sta, che in tutto il periodo che va dai primi anni ’40 ai ’60 inoltrati, la musica jazz dell’epoca d’oro dello swing e delle ballroom fu liquidata e sostituita da una musica completamente trasfigurata. Mingus, con questo lavoro registrato nel 1963, ne rappresenta l’evoluzione ultima (insieme con Sun Ra ma in direzione opposta, come vedremo in seguito).
Il percorso che porta Mingus dai suoi primi vagiti jazz al leggendario "Ah Uhm" (il primo disco registrato per la Columbia) e, successivamente, a "The Black Saint And The Sinner Lady", va analizzato alla luce della psiche complessa di questo musicista. La sua psicologia variegata, al limite della psicopatologia, è il viatico per questo viaggio verso un’agognata resurrezione del popolo nero che si rivelerà a dir poco tragico. La sua natura stessa di “bastardo” lo rendeva estraneo a qualsiasi appartenenza, prima di tutto culturale (“mi sento come uno che appartiene a tanti mondi, ma non mi sento a casa da nessuna parte”).
La musica di Mingus è la cronaca dell’emarginazione come stato mentale e della lotta impari (mi verrebbe da dire "beethoveniana") con l’avverso destino per emanciparsi. Nella sua musica si avverte irrinunciabile la sofferta “missione” di quest’artista nel caricare su di sé tutte le ingiustizie e, attraverso essa, redimere gli emarginati del mondo. La musica di Mingus, avulsa dal vento rivoluzionario socio-politico e culturale che flagellava l’America dei S ixties , si rivelerà con il passare degli anni (soprattutto dopo la sua morte) come l’unico esempio d’evangelizzazione dal basso attraverso la musica jazz . Infatti, già in Ellington, almeno a partire dalla grande stagione delle suite ("Black Brown And Beige" su tutte) ci si era resi conto di come il jazz , maturato proprio nelle mani dell’impareggiabile Duke, si proponesse quale veicolo culturale per tutte le istanze di protesta e di volontà di emancipazione del popolo nero d’America; una via senza ritorno, come decreteranno Parker e Gillespie.
Duke era però espressione di una borghesia agiata (sebbene nera) che prendeva coscienza della tragedia dei neri e della negritudine e come tale si esprimeva. Mingus, partendo proprio dall’esperienza "ellingtoniana", proponeva un passo in avanti: ribadire le medesime istanze ma estenderle all’intera emarginazione (la negritudine come una delle emarginazioni possibili).
In quest’ottica, "The Black Saint And The Sinner Lady" rappresenta proprio la lettura più lancinante di tali istanze in quanto rivissuta attraverso la psiche stessa del compositore. Non è un caso che Mingus decise di affidare al suo psicologo le liner notes di quella storica incisione del ’63: una scelta quanto meno bizzarra per un disco di jazz .
Il nume "ellingtoniano" è con certezza l’unico apertamente dichiarato, sebbene in maniera implicita, nella composizione di questo disco. "Ellingtoniane" sono le sortite irruenti dei fiati bassi, "ellingtoniani" sono i passaggi preludianti del pianoforte (suonato proprio da Mingus, mentra a Byard sono lasciati gli accompagnamenti orchestrali), "ellingtoniani" sono i tratti melodici ricamati dalla performance stellare di Charlie Mariano al sax, "ellingtoniani" (anzi strayhorniani) sono i “lamenti” delle muted trumpets .
Negli stessi anni, anche l’eccentrico pianista Sun Ra proponeva una rilettura del sinfonismo jazz di Ellington; ma mentre Sun Ra lo utilizzava come piattaforma di lancio per i suoi viaggi in un cosmo futuristico (la negritudine letta come sublimazione dell’essere umano), quindi verso l’ignoto infinitamente grande, Mingus utilizzò quel bandismo per un balzo verso le profondità metafisiche dell’intelletto, verso l’ignoto infinitesimamente piccolo.
La suite , che si articola in sei parti (le ultime tre senza soluzione di continuità racchiuse nell’ultima track), prende spunto dalla natura primigenia del jazz legato alle grandi orchestre: il ballo.
Questo concept-work , nato apparentemente per narrare l’amore e le sofferenze legate ad esso (la solitudine), presto si trasfigura nella rappresentazione di una psiche torturata dalla solitudine del negro, in una sorta di psicodramma (“Touch my beloved’s thought while her world’s affluence crumbles at my feet” recita il verso poetico riportato in copertina): un uomo cosciente della sua inferiorità (la memoria va a "Pithecanthropus Erectus", titolo che creò scalpore e imbarazzo). La musica è fortemente strutturata e presenta diversi piani sui quali si articolano le varie sezioni dell’orchestra; sono chiaramente distinguibili i compiti affidati: i bassi rutilanti e sferraglianti, gli ottoni come lance che trafiggono, i sax solisti, la sezione ritmica multiforme che non di rado si abbandona al caos. I momenti corali nascono all’improvviso e con la stessa repentinità si abbandonano ad accelerazioni degne delle locomotive di Honnegher. Anche l’armonia sembra non godere di un centro definito e si sposta continuamente dal blues al flamenco (ne faranno tesoro Charlie Haden e Carla Bley con la "Liberation Music Orchestra"). In alcuni punti (come la seconda parte) non è difficile presagire il Bernard Herrman di "Taxi Driver".
La partitura (o una bozza di essa) fu presentata durante alcune serate al Village Vanguard con l’orchestra già schierata in tutti i suoi undici elementi.
Dopo le registrazione, durante le fasi di postproduzione, Mingus volle sottoporre il materiale a un lavoro di overdubbing, denotando un maniacale perfezionismo (che diverrà proverbiale) nel ricorrere a una tecnica di questo tipo; caso più unico che raro, che ha riscontri precedenti solo in alcune registrazioni di Sidney Bechet nei primi anni ’40 e in alcune session di Lennie Tristano.
Nel 1995 la Impulse! rimasterizzò i nastri originali di questa suite che, pubblicata per la prima volta in tutto il suo splendore lo stesso anno su compact disc, rappresenta la vetta artistica di un musicista senza pari, come già ribadito dalla Penguin Guide To Jazz On Compact Disc.
05/11/2006