Tra le leggi della polvere che fa coltre al tempo vi è quel quid di inafferrabile che riporta significato alla parola "evento" nel senso letterale, inchiavardato nel nodo stesso della parola: e-vento, ciò che "viene o riviene fuori" con il carisma e la poesia dell’eccezionalità. E quasi sempre è un ritorno al futuro di quello che si stava perdendo nel passato, ed è grazie a esplorazioni discografiche di cultori inarrestabili che ci è concesso di "tornare a vivere" - tra i tanti - quei suoni del pianeta che in questo caso si erano dati appuntamento nel master tapes di "Music/Sangam", inestimabile incunabolo del 1978 di una session registrata dal sommo trombettista Don Cherry e dal suonatore di tabla indiano Latif Khan in un solo giorno a Parigi e per anni dimenticato negli archivi del produttore di allora Martin Meissonier.
E' il periodo del dopo avant-garde strapazzato insieme ad Ayler e Coleman, quando Cherry prende a studiare le musiche indigene (Marocco, Brasile, West Africa e India), e durante un tour la sua tromba si innamora delle tabla di Khan, giovane indiano della nobiltà Delhi garana. Ed è qui che nasce questo raga-jazz in due movimenti, un altro pezzo di storia fulminante che trasforma quella polvere in oro. L’approccio a questo disco è come un incontro ravvicinato del terzo tipo, tanta è la magia che fluttua nella combine rotonda e ariosa di suoni e atmosfere; è la copulazione di due mondi distanti e vicini, l’estemporaneità del jazz con la tradizione indù, la fusione della visione che verrà e che si chiamerà world music. Dunque il Modale che penetra l’universalità free già iniziata da Coltrane e che la tromba di Don Cherry riprende mischiando ancor di più le carte, creando un "vaudeville" espressionista diamantino, quasi a sfiorare i quattro elementi del pianeta.
Ecco allora "Untitled/Inspiration From Home", un soliloquio di tromba rarefatta e nebbiosa che omaggia Maurice White, cantante e batterista degli Earth Wind & Fire; "Air Mail", cadenzata e rituale, tribalizzata da canti, fritz d’ancia e tafferugli di polpastrelli battenti sul donso ngoni (strumento a percussione dei guaritori del sud del Mali); l’oniricità desertica del flauto di bambù e sonagli soffusi di "One Dance", il fenomenale raga di tabla ipnotici che ondulano su calligrafie sperimentali in "Rhythm 58 ¼", e la finale "Sangam", che significa "luogo di incontro", di spiritualità percossa dalla maestria millenaria di questi prestigiatori di timbri legnosi.
Don Cherry, il grande cerimoniere della fusion in jazz, e Latif Khan, un battito fatto uomo, già 31 anni or sono illustravano la strada da percorrere per arrivare alla promiscuità delle anime sonanti, l’attraversamento degli stili canonici per fonderli nel misterioso e imprevedibile "immateriale" della forma; si potrebbe chiamare pionierismo, ma preferiamo "una complicità consenziente per un nuovo rito evolutivo", che tradotto in parole povere significa musica e azione che del controllo cerebrale non sanno che farsene.
08/07/2009