A febbraio di quest'anno, nella poco affollata saletta del "Piano Terra" a Milano, si sono esibiti in prima nazionale gli svizzeri Defibrillator, per poi proseguire con altre date in giro per l'Italia. Ci sono capitato un po' per caso, ignaro e senza aspettative: in tutta risposta sono stato investito da un'ora di esagitato free jazz, partecipata da un giovane talento prodigioso, Emilio Bernè, alla batteria in sostituzione di Oliver Steidle. Praticamente un revival fatto e finito dei Supersilent più "hardcore" e intransigenti; una forza della natura che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta e coi palmi arrossati.
Un anno tondo fa, invece, mi sono trovato per la prima volta di fronte a Peter Brötzmann, che invece non devo perder tempo a presentare. La session al Leoncavallo lo vedeva ospite speciale del trio italiano XOL: a un lato del palco, serio e impassibile, assemblava i propri strumenti poggiati su un tavolino, assieme a due bottigliette d'acqua e tre scatole di ance. Altri tre performer eccezionali ma poco conosciuti, e un decano dell'avanguardia settantiana che non si pone alcun problema nell'affiancarli con umiltà.
Un grande musicista non cerca soltanto le collaborazioni coi colleghi più illustri - e ben lungi da me il disdegnarle - ma sa stabilire un'empatia artistica anche con le realtà (non) emergenti che rappresentano generazioni e influenze del tutto diverse. Brötzmann si trova così a completare un quadrato diviso equamente tra strumenti acustici puri e "geneticamente modificati": i due fratelli Sebastian e Artur Smolyn sono infatti i portatori di sonorità aspre e mutanti, rispettivamente con un trombone variamente effettato e con sintetizzatori e live electronics.
Non soltanto una distinzione di mezzi espressivi, ma anche di approcci all'improvvisazione: se i soliloqui dei fiati "puri" e della batteria sono infatti le voci più nitide del caotico quadro, lo stesso non può dirsi della controparte amplificata, quasi sempre orientata verso la stesura di un basamento sonoro magmatico e inafferrabile.
Un contrasto netto e insanabile nei momenti di massima esagitazione, laddove nelle occasionali tregue lascia emergere una vena relativamente più lirica in cui il riverbero diafano del trombone avvicina le tinte dark dei Dale Cooper ("Good Intentions", "Uterine Prolapse") corrose dai barriti stereofonici del fratello, mentre sul finale si abbandona a una sorta di inno nazionale/ninna-nanna deformata nel frastuono delle ultime cartucce volanti della batteria, che privilegia nettamente i piatti anziché i tamburi, finanche ridotti a una serie di tonfi sordi della grancassa.
Chi conosce Brötzmann sa che la mitezza ne contraddistingue soltanto la persona, all'opposto dell'irruenza con la quale, nei suoi assoli senza baricentro, riesce ancora a far cappottare le budella dell'ascoltatore - una vera "machine gun" di libertà esecutiva anche raggiunti i 75 anni - col suo apice in una debordante "Fuckir" dove il synth distorto incalza con la stessa violenza dei Child Abuse.
Al di là della proposta non così innovativa, il confronto si mantiene acceso e interessante proprio perché non tenta di nascondere l'evidente divario anagrafico delle parti in gioco: due slang difesi e rimarcati a ogni nota, ma senza alcuna tentazione di prevalsa, con le giuste alternanze che valgono forse come unica eredità dai tempi d'oro del jazz americano. E c'è da credere che le conversazioni sull'onnivorismo del titolo si siano davvero svolte in un momento conviviale, precedente o successivo al confronto strumentale senza esclusione di colpi.
04/08/2016