"Who's That Knocking" ha, infatti, da subito diradato ogni possibilità di dubbio col suo incedere sornione, ma sordido. Ma è pur vero, lo ripetiamo, che di volta in volta il Nostro sa accendersi anche di meraviglie psichedeliche che sanno tanto di Byrds a braccetto con Simon & Garfunkel ("Foolish King"); oppure, ed è il caso di "We Get Along, Mostly", riuscire a bearsi, placido e disinteressato, di numeri popedelici. Va, insomma, considerato per questo suo altalenante miscuglio di luce e ombra, "1968". Un miscuglio dove il blues è mimesi (via Neil Young) di un'anima non tormentata, ma disincantata e pronta ad accettare un mondo disposto a tutto ("Prescription Blues"). E in questo gioco di abbandono e rassegnazione, uno strumentale al limite della veglia come quello di "Insomnia Song" assume, grazie anche alla sua posizione mediana, tutte le caratteristiche di un precoce resoconto nel resoconto, capace di dar conto di una sorta di estatico quanto sommesso descrittivismo introspettivo, che non sempre riesce, però, a toccare le corde giusto o a raggiungere un'adeguata "rappresentazione" ("Cyclone Eye").
Man mano, allora, le canzoni si fanno più "intimiste", tra il saliscendi in punta di piedi di "Walk Through The Dark", gli scarni contorni/confini di "I've Just Restored My Will To Live Again" o il giochino acustico/glitchy di "Wrong Turn". Numeri di cui, probabilmente, si può fare a meno, anche se lavorati con quel piglio e con quella dedizione tale da far meritare loro almeno il nostro rispetto. E' che, in verità, preferiamo accontentarci del Pajo più rilassato e disincantato, come quello, ancora una volta redivivo, della ariosa cover di "Let It Be Me" (Everly Brothers). Per il resto, lo aspettiamo al varco, convinti che questo sia nient'altro che il solito "disco di transizione".
(22/09/2006)