Insomma, improvvisare va di moda, e il fenomeno non è nuovo. Sembrava ieri quando Keith Rowe e John Tilbury si reinventavano lasciandosi coinvolgere da vari giovani eredi, e dando il la a una prolifica e irrefrenabile serie di collaborazioni intrecciate all'insegna del verbo free improvisation. Una scena piuttosto chiusa, ma in strettissimo contatto e in grado di affascinare una miriade di personaggi provenienti dal mondo pop – David Sylvian non è che l'esempio più plateale e immediato – che ha trovato nel Cafè OTO di Londra un'autentica casa, proprio come accadeva per scrittori e pensatori nelle coffee house del Settecento. Roku, l'etichetta di proprietà del locale, ha per giunta da tempo inaugurato un'attività di pubblicazione delle più riuscite fra le performance ospitate.
Siamo nel 2014, di anni ne sono passati parecchi e i “giovani” di un tempo sono oggi pilastri: sei di essi si sono incontrati proprio presso OTO per due lunghe session. A incrociare le proprie imprevedibili strade sono infatti l'ultimo Re Mida della musica sperimentale giapponese Otomo Yoshihide, la sacerdotessa della manipolazione sonora Sachiko M, gli inossidabili John Edwards e Tony Marsh e, dulcis in fundo, un monumento dell'improvvisazione tutta come Evan Parker. Si tratta dunque di uno dei contenitori più ampi ed eterogenei dell'odierno movimento free-impro, che si snoda in due complesse ma non particolarmente arcigne odissee sonore, in grado probabilmente di avvicinarsi senza traumatizzare anche a un pubblico non troppo avvezzo al genere.
La mezz'ora di “Quintet” salta da una prima parte fatta di orpelli, balzi, scosse e cambi improvvisi a una seconda più profonda e distesa: Yoshihide si tiene lontano dalle manopole per dilettarsi esclusivamente alla chitarra, mentre i protagonisti principali sono il sassofono svolazzante di Parker e il martellante basso in versi liberi di Edwards. Solo nel finale il nipponico guarda senza nascondersi alle dilatazioni del cosmo, le stesse che il più breve “Sextet” riprende con l'aggiunta di un altro sassofono: quello dell'ex-Polwechsel John Butcher. L'inizio viaggia fra una desolazione malsana e squarci pronti a farsi ciclici, e impiega ben dieci minuti prima di far prendere corpo dall'humus a decostruzioni mutevoli e sporadiche, prima di una seconda chiusura a riccio e di un finale esplosivo, dove il dinamismo raggiunge l'epos.
Nulla di nuovo sotto il sole, come da tempo nell'universo impro: “solo” sei monumentali masters at work.
(12/02/2014)