Nella prammatica rock vigono tutta una serie di leggi non scritte che, qualora trasgredite, si tramutano in peccati capitali difficilmente espiabili: due di questi "crimini" sono senz’altro la rilassatezza e la leziosità. Nella prima definizione potremmo far rientrare quella macrocategoria della musica (soprattutto) americana denominata "laid back", colpevole di preferire un approccio pigro e disteso alla furia viscerale che, nell'immaginario collettivo, viene associata all'elettricità: è il caso del Tulsa sound di JJ Cale, del country-rock (specie quello "soft" di James Taylor o John Denver), di molto blue-eyed soul e, più recentemente, dello slowcore e di vari sottogeneri ambient. Dentro alla seconda, invece, potremmo scaraventare il prog più arzigogolato, buona parte dell'odiatissima fusion (con un gruppo come gli Steely Dan a incarnare la bestia nera più temibile), il cool-pop anni 80 di Style Council ed Everything But The Girl ma anche certo indie-rock a base di chitarre pulite e voci delicate: musiche "fredde" ed "eleganti", laddove il rock dovrebbe sprigionare torrida passione a costo di consumarsi. A volersi sbizzarrire, si potrebbe rintracciare in questo atteggiamento un'annacquata matrice ideologica: un certo tipo di musica irrita perché viene percepita come "classista", colonna sonora di attività disimpegnate e sovrastrutturali, contro cui rivendicare confuse istanze populiste. Sebbene (quasi) chiunque possa concordare che si tratti di una montagna di fesserie, sfido a negare che questi meccanismi inconsci non scattino in automatico di fronte ad alcuni artisti.
Una band che ha sempre patito le scomuniche di questa non dichiarata inquisizione sono i The Sea And Cake (il bizzarro nome è una storpiatura del brano dei Gastr del Sol "The C In Cake"), su cui pesa l'aggravante di essersi concessi il lusso della pacatezza in una delle metropoli più infernali degli Stati Uniti: Chicago. Legati a doppia mandata ai concittadini Tortoise, con cui condividono il proteiforme batterista/produttore John McEntire e l'illustre marchio Thrill Jockey, rappresentano il lato in ombra del satellite: visionari e funambolici i colleghi, umili e sottotraccia loro. L'ostentata discrezione del loro percorso ha frenato i riconoscimenti critici per una musica che, seppur spesso evanescente, si è rivelata capace di trapiantare elementi jazz, world ed elettronici in un post-pop d'alta classe, inscrivendosi in quella bella tradizione di "punk da conservatorio" in cui potremmo inglobare pure Karate, Stereolab e Jim O'Rourke (altro eretico della Windy City).
Questo undicesimo "Any Day", primo lavoro senza il bassista Eric Claridge, arriva a sei anni dall'opaco "Runner" e scuote il trio dall'impasse creativa in cui pareva essere precipitato, grazie a una formula che ritrova la freschezza degli esordi recuperandone l'essenzialità: un intreccio cristallino di chitarre appena accarezzate, puntellate dalle agili sincopi della batteria, sconfessando i timbri sintetici e concedendosi pochi mirati abbellimenti. La differenza la fanno una scrittura che torna in primo piano, pur mantenendosi volutamente diafana, una pasta sonora curata nei dettagli senza risultare patinata e, soprattutto, l'impalpabile voce di Sam Prekop, sbadiglio assonnato che potrebbe rimandare a un Billy Corgan in dormiveglia o a un Mike Kinsella un po' fatto, veicolo di testi altrettanto smussati in cui il suono delle parole conta più del significato. Tra chiaroscuri e penombre, intinte in una malinconia tipicamente midwestern, le dieci canzoni scorrono una di fila all'altra appannando le lenti attraverso cui le osserviamo, fino a creare l'atmosfera vaga e irreale anticipata dal titolo, confuso presente segnato dalla perdita e proiettato nell'attesa: qualcosa di simile al trasloco apparentemente raffigurato nella copertina. Ogni brano sembra rimandare a qualcos'altro che però sfugge sempre e, come tale, potrà essere descritto solo per approssimazione.
"Cover The Mountain", farcita con una saporita crema di e-bow e sintetizzatore, potrebbe suonare come i Ride spogliati dal frastuono pilotati da Johnny Marr. Più snella "I Should Care", il cui impeccabile interplay tra le chitarre evoca l'Africa idealizzata di "Graceland" ma anche i discepoli Real Estate, mentre le vistose settime maggiori di "Occurs" si situano a metà strada tra "Coney Island Baby" e "Shoot You Down". Le due tracce si sviluppano in maniera chiastica: la prima inizia spensierata per poi farsi meditabonda in coda, la seconda invece scioglie la sua tensione quasi emo in un finale agrodolce. In mezzo, la magnifica title track, delizia cartacea che innesta la delicatezza vocale di un Elliott Smith sul primitivismo chitarristico di un Leo Kottke, ulteriormente impreziosita dai fiati di Paul Von Mertens e dal contrabbasso di Nick Macri.
"Startling" si apre con un fingerpicking quasi kozelekiano che parrebbe preannunciare una ballata, e invece si rivela la canzone più potente del disco, a dispetto della fragile melodia à-la Belle And Sebastian. Sulle stesse corde il palm mute di "Day Moon", dei Police in versione Dunedin colorati di mellotron. Notevole, in tutti e due i brani, il ricamo psichedelico della chitarra di Archer Prewitt, sospinta con energica grazia dal rigoroso motorik di McEntire. Tra le due c'è posto per il tenue strumentale "Paper Woods", con gli afoni vocalizzi di Prekop a duettare con uno speziato flauto che non avrebbe stonato su "Bryter Layter". Se la bossa "Into Rain" farà contenti i fan dei primi lavori, ricchi di inflessioni cocktail lounge ed easy listening, "Circle" trasforma la frenesia dei Feelies in una magica alchimia di organo e chitarra tremolante, con un verso come "If I can't get this over, I'll take it to another day" emblematico della loro languida filosofia esistenziale. Chiude il viaggio la sognante "These Falling Arms", bacio della buonanotte degno del Josh Haden più ispirato.
Album di nostalgie tardo-estive, polaroid sbiadite e paesaggi mossi visti attraverso un finestrino, "Any Day" esce nell'anno in cui gli Yo La Tengo intitolano il loro lavoro più calmo di sempre "There's A Riot Going On", e in qualche modo ne condivide il carattere programmatico: se parlare sottovoce fosse davvero una presa di posizione politica, in un'epoca in cui a tenere banco è sempre chi urla più forte?
11/05/2018